Opere, eventi e personaggi da non dimenticare

n.9

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La locandina

"Tommy"

di Ken Russell

(1975)

Ken Russell, inglese nato a Southampton nel 1927, è uno dei registi più personali e discussi del cinema mondiale, a volte sottovalutato, ma soprattutto imprevedibile per i progetti di vario genere da lui firmati. Se c'era un regista che potesse dare corpo visivo alla prima e più famosa opera rock, quella appunto pubblicata su doppio album dagli Who nel 1969, era sicuramente lui il più adatto: forse per questo la band di Pete Townshend e Roger Daltrey lo interpella per la versione filmica del fortunatissimo progetto musicale.

Il regista ha già al suo attivo una carriera fatta di opere riuscite o meno, ma comunque contrassegnate dal marchio dell'estro più anarchico e fuori dalle formule più ovvie: prima autore, a partire dal 1956, di una serie di innovativi ritratti d'artista per la BBC, che contribuisce a svecchiare con il suo stile ardito e non convenzionale, Russell esordisce nel 1964 come regista cinematografico. I suoi film destano subito un misto di scandalo e interesse, in particolare "Donne in amore" , tratto da Lawrence nel 1969, e anche "L'altra faccia dell'amore" (1971), biografia del tormentato Cajkovskij: opere che spesso travalicano la realtà oggettiva e le fonti da cui prendono le mosse per accentuare gli aspetti psicologici latenti e un'estetica decadente e vitalistica che non tutti apprezzano, ma indubbiamente interessante e di grande fascino visivo.

Un talento che il film "Tommy" conferma, potendo il regista oltretutto esercitarsi con grande libertà a partire dalla storia particolarmente fantasiosa immaginata da Townshend. Il protagonista è appunto il piccolo Tommy, classico figlio della guerra in ogni senso: il padre, un aviatore inglese della RAF, scompare in guerra durante una missione ed è ufficialmente dato per morto, senza aver mai visto suo figlio che nasce il giorno stesso in cui è proclamata la vittoria e la fine della guerra. La madre Nora conosce poco tempo dopo un altro uomo, Frank, e inizia una relazione con lui. Una notte però, il presunto caduto inopinatamente torna a casa e scopre lei e l'altro in flagrante adulterio: prima che possa reagire, l'amante della moglie lo uccide davanti agli occhi del bambino. Lo shok è tale che da questo momento Tommy diventa muto, sordo e cieco. Nonostante i consulti, i tentativi messi in atto per guarirlo, Tommy sembra incapace di tornare alla normalità, finché scopre di avere un vero talento per il flipper che risveglia i suoi istinti sensoriali, e si laurea addirittura campione mondiale della disciplina, diventando una sorta di idolo per le masse giovanili. I due genitori cercano di approfittare del suo talento fino a creare una sorta di vero marketing intorno al ragazzo, ma Tommy arriva alla vera libertà solo quando esce da questa prigione illusoria e, rompendo lo specchio, riacquista la sua vera dimensione.

La versione filmica del disco lo rispecchia fondamentalmente, ma è anche evidente che l'estrosa sceneggiatura di Russell porta fatalmente a una dilatazione di alcuni aspetti dell'opera a detrimento di altri. Il risultato è sontuoso e riesce a mettere a nudo, in tutta la sua ricchezza metaforica, non solo il messaggio utopistico contenuto nel progetto musicale degli Who, ma anche le stesse contraddizioni implicite dell'opera. Così come altri musical degli anni Sessanta e oltre, ad esempio "Jesus Christ superstar", musica e immagine sembrano il connubio perfetto per amplificare il bisogno di nuovi valori espresso dalle nuove generazioni: pacifismo e rottura degli schemi, azzeramento dei ruoli sociali e amore per la verità sottratta a ogni conformismo sono al fondo di questi progetti, come pure a ben vedere dello stesso "Tommy". Consapevole di ciò, ma al contempo che i tempi mutano rapidamente, Russell sceglie di dare fondo a tutta la sua geniale creatività, organizzando una rappresentazione di tipo barocco-psichedelico che punta s'un ritmo modulato sulla musica degli Who, ma anche su nuovo materiale aggiunto e sugli interpreti d'eccezione scelti per i singoli personaggi. Oliver Reed è il nuovo compagno di Nora, interpretata dall'attrice Ann-Margret, e i due fanno una coppia a suo modo esemplare: graziosa e bisognosa di protezione lei, quanto lui è avido e volgare. Il cantante degli Who, Roger Daltrey, intepreta invece Tommy già adolescente e adulto, ma i fuochi d'artificio vengono da tutti i personaggi che incrociano la difficile crescita di Tommy. Tina Turner, ad esempio, è una fiammeggiante "Acid queen", insieme donna di prorompente sessualità e incarnazione dell'eroina, illusorio e nefasto rifugio di quegli anni, e la sequenza del ragazzo consegnato dal padre adottivo a lei per "svezzarlo" è a suo modo indimenticabile: un montaggio incalzante a suon di rock, con il povero Tommy raffigurato come un novello San Sebastiano trafitto (letteralmente!) dalle arti di una regina subdola e maligna.

E' da sottolineare che, tranne il caso in cui è lo stesso Tommy-Daltrey a raccontarsi, come in "I'm free", le voci della colonna sonora, tra l'altro prima applicazione assoluta del sistema "Dolby", sono tutte affidate agli interpreti della pellicola. Oltre a Jack Nicholson, nel ruolo del medico specialista, è soprattutto il caso di Elton John, che veste i panni sgargianti e furiosamente kitsch del campione in carica di flipper battuto però dall'astro nascente, nella sequenza abbinata al pezzo "Pinball Wizzard". La rappresentazione è in effetti un terreno ideale per la fantasia iconoclasta di Russell, che si diverte a scoccare frecciate satiriche contro l'ipocrisia borghese e il suo falso perbenismo di pura facciata, in particolare quando il giovane protagonista è affidato a qualche parente in occasione delle uscite mondane di Nora e Frank: nei due personaggi che martirizzano in ogni modo il povero Tommy, prima il cugino Kevin (lo interpreta Paul Nicholas) e poi il terrificante zio Ernie impersonato dal batterista del gruppo Keith Moon, Russell ha dato fondo a un umorismo davvero acido, nerissimo e in qualche modo molto "british". Ovviamente si ride, di eccessi così variopinti e spinti al limite, ma non senza un certo retrogusto più amaro.

Il ritmo del film è tale che molte di queste sequenze, come le invenzioni visive del regista, abbinate a una fastosa scenografia, rischiano di passare inosservate, quando invece si tratta di piccole perle che illuminano un'intera stagione in tutte le sue contraddizioni. La sequenza più memorabile, forse, è quella legata al pezzo "Eyesight to the blind", dove in un sol colpo Russell si accanisce contro la sacra trimurti degli anni sessanta: sesso, droga e rock'nroll. Una sorta di adunanza para-religiosa, agli ordini di un predicatore armato di chitarra come Eric Clapton, che dovrebbe aiutare Tommy e centinaia di altri ciechi come lui a recuperare la vista. Il cuore di tutta la scena è l'idolatria sessuale di un feticcio che ha i tratti stilizzati di Marilyn Monroe, la cui statua troneggia come un imponente crocifisso pagano sui presenti, che la toccano per averne un beneficio "salvifico", mentre un officiante completamente invasato, cioè Arthur Brown (il folle interprete di "Fire"), comunica i "devoti" con la sacra immaginetta dell'icona sessuale per eccellenza. La liberazione sessuale, insomma, ridotta a una sorta di delirio collettivo e mercificato che s'infrange quando Tommy, scortato dalla madre, nel toccare anche lui la dea del sesso la fa cadere mandandola in frantumi. Il messaggio è chiaro e mordente: anche il mito del libero amore a suon di musica, marchio e vanto della generazione di Woodstock, è ormai solo un bluff abilmente manovrato, l'ennesima droga culturale che nasconde il vuoto. Niente male!

Il film di Russell esce nel 1975, sei anni dopo la pubblicazione del disco della band guidata da Townshend, eppure sembra passato molto più tempo: siamo cioè sulla frontiera invisibile che divide due generazioni, quella arrabbiata ma genuina e ruspante degli anni Sessanta, passata per i più consapevoli anni Settanta, dalla nuova generazione che troverà nel punk-rock un'altra bandiera, più cinica però, fuori dalle utopie visionarie del decennio precedente. Si può dire allora che l'opera filmata da Ken Russell sia il sigillo più eloquente, chiassoso ma estremamente intuitivo, a un'intera epoca della musica e del costume giovanile già arrivata al capolinea. La sua importanza, oltre all'indubbia godibilità dell'insieme, sta proprio nel carattere metaforico delle invenzioni rutilanti, del parossismo visivo e scenografico, che rimanda nel modo più geniale a un periodo che rimane storico nell'evoluzione del costume e non solo. Un vero film di culto, appunto.




Indice

Indice - Tutti i numeri Speciali

N.1-"The Dark Side Of The Moon" dei Pink Floyd
N.2-"Oltre il giardino" di Hal Ashby
N.3-"Fahrenheit 451" di Ray Bradbury
N.4-"Walden o vita nei boschi" di H. D. Thoreau
N.5-"L'unico e la sua proprietà" di Max Stirner
N.6-"Pane e cioccolata" di Franco Brusati
N.7-"Bartleby lo scrivano" di Herman Melville
N.8-"Songs of Leonard Cohen"

n.8


La copertina del disco

Leonard Cohen

"Songs of Leonard Cohen"

(1968)


Non è mai facile stabilire le ragioni di un successo discografico, e ancora meno se il disco in questione non ha nessuna sperimentata strategia commerciale alle spalle. Sta di fatto che Leonard Cohen, canadese nato a Montreal nel 1934, è prima di tutto un poeta: quando si affaccia sulle scene musicali ha superato da un pezzo i trent'anni e vanta già diverse pubblicazioni letterarie, un romanzo, dei racconti e ben quattro raccolte di versi che lo hanno segnalato alla critica più attenta. Proprio dalla raccolta "The Parasites of Heaven" nasceranno alcune delle canzoni che finiranno nell'album. Questo per inquadrare un personaggio singolare, che sfugge a tutti gli stereotipi del cantautore nato con la musica, e che pure fin dal suo primo apparire conquista il pubblico e gli addetti ai lavori. È il 1968, e la Columbia ha appena pubblicato "Songs of Leonard Cohen", quando l'artista appare in uno degli spettacoli più popolari della televisione americana, l'"Ed Sullivan Show", dove il tono malinconico, e la profondità esistenziale delle sue liriche, fanno subito breccia imponendolo come uno delle voci più originali del periodo.

Per spiegarsi il successo di un disco così anomalo bisogna entrare nel merito della sua filosofia, raccolta appunto nei testi. Cohen dichiara d'aver colto subito, nella sua prima giovinezza, una verità profonda: non il successo, ma la sconfitta è la regola che meglio rappresenta l'uomo, e lo porta a conoscersi davvero. Non solo. Se la sconfitta è per certi versi inevitabile, è anche vero che non pregiudica affatto la conquista di una paradossale serenità: vi si arriva, per l'artista canadese, quando si scopre che la bellezza e il gusto per la vita può svelarsi anche nel fallimento di ogni meta, in una dimensione esistenziale lontana dalle ambizioni mondane o dal mito della vittoria a tutti i costi. Ecco spiegato allora il senso di un libro come "Beautiful losers", uscito giusto un anno prima del disco, nel 1967: anche i perdenti possono trovare un senso e incontrare la bellezza, pur battendo sentieri laterali e diversi, a patto che abbiano superato le lusinghe del desiderio sociale. La lezione di Cohen è tutta qui, e spiega implicitamente i personaggi delle sue canzoni, quasi sempre enigmatici, ambiguamente in bilico tra follia e genio, figure che incarnano l'infinita varietà dei modi di stare al mondo, anche davanti alla fine delle illusioni e delle certezze. In fondo, questa visione esistenziale, ha qualcosa di religioso che lo apparenta a molte correnti di pensiero orientali, e lo collega ovviamente anche alle sue radici ebraiche. In qualche modo, più o meno consapevolmente, Cohen dava voce a molte aspirazioni "alternative", soprattutto fuori dal sistema, e alla profonda insoddisfazione che percorreva la società americana di fine anni Sessanta, e che spingeva l'autore di Montreal a viaggiare e soggiornare a lungo in paesi come la Grecia. Tuttavia, va rimarcato che rispetto a contemporanei folk-singer come Bob Dylan, la sua ispirazione rimane sempre individualista: aggira i temi politici più stringenti per concentrarsi sulle passioni e i nodi interiori (libertà e morale, sesso e peccato) che consumano il singolo.

Ma come si traduce tutto questo sul piano strettamente musicale? La cifra peculiare del disco è una incredibile sobrietà stilistica: Cohen sfrutta con naturalezza il timbro introspettivo della sua voce, poggiando s'un tappeto di suoni acustici davvero minimale, che fa quasi sempre a meno delle percussioni. Lo accompagnano pochi turnisti della Columbia, neppure nominati nei credits, che fanno da cornice squisita alla sua chitarra acustica senza una sola nota di troppo. Questa rarefazione strumentale permette al canto di Cohen di modulare liberamente, come in una nenia malinconica e romantica, le sue liriche abitate da paesaggi marginali, donne perdute e uomini senza verità in tasca che si cercano, s'incontrano e si perdono di vista, come in una giostra perenne che anche nella sua precarietà non manca di fascino e toccante verità umana. Ogni brano vibra d'una sua remota bellezza, come un presepe di apparizioni che emergono dietro un velo di nebbia e si lasciano seguire finchè sfumano lentamente per lasciare il posto a un nuovo personaggio. "Suzanne", che apre il disco, è un capolavoro che spiega da solo tutta l'arte di Cohen. Sul morbido arpeggio della chitarra, con il misurato contrappunto di voci femminili e di un violino dolcissimo, la voce incide il ritratto d'una donna che attrae e inquieta al tempo stesso, una sorta di enigma vivente dal fascino incantatorio, che passa per il corpo e per la mente: "Susanna ti accompagna al suo posto vicino al fiume/Puoi sentire le barche passare/Puoi spendere la notte al suo fianco/Sai che lei è mezza pazza/ Ma per questo vuoi star là" recita il testo. E ancora, quasi a rimarcare la stretta connessione tra gli estremi di questo mondo lirico aperto a ogni aspetto della realtà: "E lei ti mostra dove guardare/Tra la spazzatura e i fiori/Ci sono eroi tra le alghe marine/Ci sono bambini nella mattina/Stanno sporgendosi all'amore/E si affacceranno su questa via per sempre." La fascinazione della musica avvolge l'ascoltatore come una rete di filamenti d'oro proiettati in una buia soffitta da una luce remota, emanata proprio dal canto assorto del canadese, che dispensa le sue amare verità esistenziali. "Winter song" esemplifica la precarietà di uomini e sentimenti in poche immagini pregnanti: "Viaggiatrice, stai un attimo/Finchè la notte è finita./Io sono solo una stazione sulla tua strada,/Io so che non sono il tuo amante." È un modo singolare di stare al mondo, e non necessariamente peggiore di chi si ammanta di dogmi e apparenze per mostrarsi sempre mascherato agli altri. Come se Cohen portasse semplicemente allo scoperto il carattere transitorio dell'esperienza umana, la sua casualità che carica ogni episodio o incontro di un aspetto più intenso, da vivere senza finalità, ma soltanto nell'attimo che passa. Ovviamente questo non esorcizza del tutto il dolore e il senso di perdita, ma c'è piuttosto la scoperta che ogni gesto, ogni amore è un evento che muore e si rinnova da sempre sulla ruota del tempo: "Sì molti amarono prima di noi,lo so che non siamo una novità,/ Nella città e nella foresta essi sorridevano come me e te,/ Ma non parliamo di amore o catene e cose che non possiamo sciogliere,/ I tuoi occhi sono dolci con la tristezza,/Hey, non è il modo di dirsi arrivederci" si ascolta in "Hey, that's no way to say goodbye". Anche nella famosa "So long Marianne", un complesso rapporto sentimentale è cantato con il fatalismo di chi guarda ogni situazione come un eterno ritorno, nel bene e nel male, e ogni cosa che finisce può sempre ricominciare: "Oh, tu sei veramente simile a una graziosa creatura./ Ho visto che sei andata e hai cambiato il tuo nome ancora./ E proprio quando scalai questo intero lato della montagna,/per lavare le mie palpebre nella pioggia!/ Ora è così tanto, Marianna, era tempo di ricominciare/ A ridere e piangere e piangere e ridere su di esso ancora."

La condizione che domina il disco è dunque la stessa del viaggiatore pronto a tutto, girovago in senso letterale e anche figurato, incapace di fermarsi alle verità seguite dai più, e che affida perciò al suo istinto nomade la sola formula di possibile accettazione di un destino che non offre certezze consolanti. In questo senso "Stranger song", la canzone dello straniero, è probabilmente il cuore dell'arte poetica di Leonard Cohen, quella che meglio esprime la sua visione della vita: "E poi poggiando sul davanzale della tua finestra/Egli dirà che un giorno tu esaudisti i suoi voleri/Per indebolirlo con il tuo amore e calore e protezione./E poi prendendo dal suo portafoglio/Un vecchio orario di treni, egli dirà/Ti dissi quando venni che ero uno straniero,/Ti dissi quando venni che ero uno straniero." Perfetto nella sua ostentata nudità espressiva, privo di qualunque effetto speciale, il disco sarà poi utilizzato da Robert Altman nel film "I compari" (1971), una sorta di anomalo western cui il canto introspettivo di Cohen porterà effettivamente una nota di suggestione aggiunta. Quella che appartiene soltanto ai veri poeti, con o senza chitarra.

Leggi i testi in italiano di "Songs of L.C."
(dal sito "Cohen in Italiano")

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n.7


Herman Melville

Herman Melville

"Bartleby lo scrivano"

(1853)


"Avrei preferenza di no": ecco, in questa semplice frasetta sta tutto il fascino e il mistero di un personaggio, Bartleby, intorno al quale da anni si arrovellano critici e storici della letteratura. Invano, naturalmente: e questo carattere ineffabile è stata la vera fortuna del racconto firmato da Herman Melville.

Gianni Celati, che per primo in Italia ha tradotto come sopra la garbata refrattarietà del protagonista (nell'originale: "I would prefer not to"), ha recentemente fatto un elenco, molto istruttivo e anche divertente, di tutte le interpretazioni che nell'arco di oltre cent'anni sono state date di questa singolare figura: è facile, in ognuna di queste teorie, non soltanto rilevare come anche l'esegesi critica risenta delle mode culturali e della temperie sociale e storica, ma soprattutto come il carattere umano non sappia accettare facilmente una tale riottosità alle leggi del vivere comune. Insomma, anche la sintassi e il linguaggio della società, vuole che si rispettino determinati criteri, e di fronte all'ermetica chiusura che poggia s'una sola formula verbale così inattaccabile, i simili di Bartleby tremano, dubitano, e inorridiscono. Perchè si può combattere un nemico che squaderna platealmente il suo rifiuto, la sua protesta e la sua rabbia: più complesso è attaccare una forma di estraneità che si limita a omettere, a far mancare il suo pur minimo contributo, che rompe insomma la catena dei rapporti umani, e così mitemente, poi, in maniera tutt'altro che aggressiva. Passando direttamente al racconto di Melville, è utile ricordare i tempi della sua pubblicazione: il breve racconto è posteriore infatti ai due libri più grandi, e insieme travagliati, dello scrittore americano, cioè "Moby Dick" (pubblicato nel 1851) e "Pierre or the ambiguites" (1852), che lo lasciano svuotato e soprattutto deluso dall'incomprensione della critica, soprattutto riguardo al secondo. Le lettere che l'autore scrive in questo periodo, rivelano un'amarezza che non intacca, semmai ribadisce, le sue convinzioni: quando della vita umana o della stessa espressione artistica, dice in estrema sintesi, si vuole offrire un'interpretazione troppo unitaria e senza ombre, si finisce per impoverirne l'immensa e frastagliata ricchezza. Ogni individuo merita di essere considerato nella sua unicità e non ricondotto per forza a visioni ideologiche o filosofiche che lo mortificano: facile intuire, in questo ragionamento, la vigilia creativa di Bartleby.

Il racconto è narrato dall'avvocato che ha la sfortuna di assumere lo scrivano Bartleby, e rievoca il singolare incontro come un trauma ancora non del tutto risolto: dato che lui, piccolo esponente di quel mondo finanziario e pragmatico che muoveva già i primi passi in America (il sottotitolo è per l'appunto "Una storia di Wall Street"), ma in una dimensione in qualche modo antica nei toni e nella psicologia di fondo (come dimostrano le polverose citazioni e il classicismo di facciata col busto di Cicerone nell'ufficio), non ha proprio nessuna capacità di confrontarsi con un personaggio tanto impenetrabile. L'ironia, tragica, del testo sta tutta in questo disperato tentativo del povero avvocato di andare incontro al suo impiegato in ogni modo, rinviando più volte il licenziamento, per uno sorta di scrupolo morale, quasi che anche nel suo pragmatismo intuisse in Bartleby qualcosa di più che una forma di banale indisciplina e disordine sul lavoro: perchè anzi, annota che all'inizio, il nuovo arrivato mostrava grande tranquillità e buona attitudine nel ricopiare documenti e lettere come gli veniva richiesto. Al confronto, gli paiono meno impeccabili i due copisti con lui da più tempo, Turkey ("Tacchino") e Nippers ("Chele"), ciascuno dei quali affetto da tic e piccoli vizi (la cattiva digestione, la propensione al bere, ecc.) bastevoli a farceli trovare mediocri e perfino sgradevoli. Bartleby si pone all'opposto, con il suo aspetto "così singolarmente composto": è solerte, obbediente, e piuttosto rapido nella scrittura. Ma dura poco. Improvvisamente, all'ennesima richiesta, oppone allo sbigottito principale la sua cortese ma ferma negazione: "Avrei preferenza di no." La voce arriva da dietro il paravento dove Bartleby si è piazzato, dunque in un angolo che lo separa alla vista diretta degli altri, e vicino a una finestra che offre l'unica visuale d'uno squallido muro interno. Si ha veramente l'impressione d'una coscienza che comincia a scavarsi una nicchia isolata dal mondo, del tutto indifferente a stimoli esterni, obblighi morali o doveri. L'avvocato è di volta in volta "impietrito", ridotto a "una statua di sale", e infine confessa di essere disarmato di fronte al contegno del pallido impiegato. Gli altri due, richiesti d'un parere, propendono per una cacciata sbrigativa, e brutale, del collega riottoso, ma l'avvocato si ostina a cercare strategie più sottili per trovare un punto d'incontro che gli consenta di non licenziare Bartleby.

Scopre con stupore che il suo dipendente, oltretutto, dorme nell'ufficio e non ha evidentemente altra dimora, ma anche qui decide sulle prime di pazientare. Finché, vedendo che ogni tentativo di conciliazione va a vuoto, non si decide a liberarsi di lui con uno strategemma: vende cioè l'ufficio, così che il compito di cacciare Bartleby ricada sul nuovo proprietario. I giorni dello scrivano finiscono in prigione, dove in pratica si lascia morire, e all'avvocato, che non sa fare a meno di andare a trovarlo, senza riuscire peraltro a comunicare davvero con lui, resta solo la malinconia di un destino dolorosamente estraneo. Alcuni punti del racconto meritano di essere sottolineati, perché si noterà come l'austera remissività del personaggio-Bartleby, contrappuntata dal comico scervellarsi del suo principale per venirne a capo senza sporcarsi le mani, fa il paio con una indubbia vena polemica e spesso amaramente sarcastica, che con ogni evidenza è il riflesso di una profonda solitudine dello stesso artista. Si direbbe che davvero in Bartleby il deluso Melville abbia voluto riaffermare una volta per tutte la sua avversione alla razionalizzazione forzata dell'esperienza umana dentro categorie astratte. Il suo personaggio, dimesso ma anche ostinato, refrattario ma in un suo modo dignitoso, si presenta inoltre come un enigma senz'appigli dialettici: da lui, l'avvocato (e dunque noi) non riesce a sapere niente di preciso sul suo passato, le sue origini o i suoi legami di parentela. Solo, quando tutto è precipitato e per via indiretta, la scarna notizia d'un suo precedente impiego come addetto alle lettere smarrite, che gli sembra calzare a pennello allo smarrimento umano del povero Bartleby. Qui Melville, a quanto pare, ha ironicamente aperto la strada a tutte le fantasiose interpretazioni che verranno, ma non si deve credere che abbia voluto infierire sulla figura del legale, come molti hanno tenuto a rimarcare. L'avvocato in realtà non è una persona così sprovvista di sensibilità o particolarmente cinica, come abbiamo visto: più semplicemente, Melville ha riassunto in lui l'insufficienza della pura ragione, del semplice buon senso borghese, a risolvere e spiegare i dilemmi dell'esperienza umana. Perché, in fondo, al mistero di Bartleby non c'è risposta, se non la vertigine di una vita individuale che rimane inesplicabile. Bartleby, insomma, esiste con più forza e si scolpisce per sempre nell'immaginario del lettore che lo incontra, appunto perché è un vero antipersonaggio: non ha infatti nessuna caratteristica propria dei personaggi letterari classici, niente che rimanga in mente, poiché si definisce non per quello che dice, fa o progetta, ma al contrario per la negazione di ogni proposito. Non sappiamo cosa esattamente sogni, immagini, o ricordi, come non ci è dato conoscere dettagli fisici o biografici che di solito servono a definire un carattere letterario. Bartleby spicca per la sua imperterrita omissione: se ha una preferenza infatti è tutta volta al negativo, a far mancare il suo apporto, la sua opera, sia pure minima. In un certo senso è l'anello mancante della catena, colui che, con la sua cortese ma implacabile indifferenza, inceppa il meccanismo della vita e del sistema.

Questo è tutto, e bisogna fermarsi a questa constatazione, per non impinguare ulteriormente la schiera delle più bizzarre letture critiche del racconto: non sarebbe giusto, e comunque non servirebbe a molto. Probabilmente Melville ha volutamente omesso ogni possibile indizio utile per riaffermare che non c'è soluzione al mistero, e forse non esiste un unico senso della vita, sulla base del quale poter giudicare la vita di un altro. Bartleby si configura così come l'archetipo della vita stessa, una sorta di sfinge edipica che, invece di fornire risposte, al contrario moltiplica le domande. In fondo, da questo punto di vista, il malinconico impiegato senza passato e senza futuro di Melville, ha ribadito per estremo paradosso tutta la ricchezza, e la risonanza infinita, dell'esperienza umana: esattamente nel momento in cui la sottrae a ogni univoca e illusoria interpretazione morale.

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n.6


Nino Manfredi in "Pane e cioccolata"

"Pane e cioccolata"

di

Franco Brusati

(1974)

Una delle commedie più acide e originali del cinema italiano. La definizione non sembri eccessiva, perché "Pane e cioccolata", firmato da Franco Brusati nel 1974, può contare su almeno due punti a favore: una sceneggiatura che vale oro e, soprattutto, un protagonista come Nino Manfredi che tocca qui, probabilmente, uno dei suoi esiti più alti in assoluto. Quando il film esce, la grande stagione della commedia è ormai agli sgoccioli: a rinsanguarla, dopo il declino dei suoi riconosciuti maestri degli anni precedenti (Monicelli, Zampa, Risi, Germi su tutti), non bastano un paio di pellicole memorabili di Ettore Scola, e qualche blando tentativo di rianimazione. E' in atto insomma un ricambio generazionale che non avverrà prima dei tardi anni Ottanta.

La televisione intanto sta già erodendo il pubblico delle sale, prima di invaderlo con i suoi umori cabarettistici, le grandi produzioni degli anni d'oro cominciano a scarseggiare, e si respira la parola più gettonata a proposito del nostro cinema: crisi. A reggere il calo di popolarità, sia pure a corrente alternata, sono ancora i volti consacrati da pubblico e critica negli anni migliori: Gassman, Tognazzi, Sordi e Nino Manfredi. Alla lunga, gli va riconosciuto, è proprio quest'ultimo ad aver conservato un profilo più brillante, passando anche per la regia personale ("Per grazia ricevuta", 1971), e badando sempre a scegliersi ruoli di un certo spessore, senza mai cedere (o quasi) alla prestazione di routine come altri suoi colleghi. E proprio a cavallo dei due decenni partecipa a una serie di piccoli capolavori: da "Straziami ma di baci saziami" di Risi, a quell'autentico canto del cigno di un'intera stagione che è "C'eravamo tanto amati" che Ettore Scola firma sempre nel 1974, un affresco commosso sull'Italia del dopoguerra attraverso le vicende incrociate di tre amici. Insomma, la maturità lo trova più che mai credibile e attivo, e Franco Brusati, un regista sempre interessante e mai baciato dal vero successo (vanno comunque ricordati titoli come "Dimenticare Venezia" e il più tardo "Lo zio indegno") lo sceglie forse per questo come protagonista della sua storia.

Fin dalla prima scena del film, la maschera di Manfredi (Nino Garofalo si chiama il personaggio) è vincente: il cameriere laziale che da anni è emigrato in Svizzera in cerca di fortuna, contempla stupito e ammirato la compostezza di un quartetto d'archi che suona nel mezzo di un bellissimo parco. Il suo stupore ha radici antiche. Ovviamente si sente perfino a disagio, in tanta cornice, solo ad addentare un panino. Si porta dietro i sospetti, i dubbi e gli stereotipi di una cultura diversa, di chi viene dal basso e deve guadagnarsi tutto, dal rispetto al pane quotidiano, passando per la cosiddetta normalità. Una prima incrinatura in questo gioco perfetto di opposti è però dietro l'angolo: nel folto del bosco, mentre recupera la palla ad un bambino, Nino scopre infatti il cadavere di una adolescente. Fermato dalla polizia in stato confusionale, spiega le sue ragioni e alla fine viene lasciato andare. Altro stupore: "Sono contento" dice commosso, "di vivere in un paese dove un uomo è creduto sulla parola." In realtà i poliziotti hanno già individuato (e fermato) il vero assassino, ma lui non lo sa. Si direbbe che veda solo ciò che vuole credere: sta lottando per una vita migliore in un paese ricco e civile, e questo gli fa accettare alcuni inconvenienti della vita quotidiana come del tutto secondari.

La sua vita è interamente assorbita dal lavoro nel ristorante sul lago dove da qualche settimana sta contendendo l'unico posto vacante a un rivale turco (Gianfranco Barra), col quale divide anche la stanza. Per avere la meglio Nino non si risparmia, e naturalmente dà fondo a tutte le risorse possibili. L'arte di arrangiarsi trova in lui un interprete d'eccezione, come nella scena dell'arancia. Un suo collega, al tavolo accanto, è riuscito a sbucciarne una con precisione quasi chirurgica. Impossibile fare altrettanto, e allora? Semplice: sul retro l'altro cameriere ha lasciato il piatto con la buccia aperta a fiore, e a lui non resta che sbucciare l'arancia a morsi (sotto lo sguardo esterrefatto d'una inserviente) e poi adagiarla dentro quella corolla. Voilà. Tra uno sgarbo e l'altro del turco, che lui cerca di ricambiare appena può, facciamo conoscenza con l'ambiente: c'è il collega spagnolo che trafuga pesci e salsicce per nasconderli dovunque, e un giovane italiano che lui tratta quasi con autorità paterna, trasmettendogli le sue idee. Il ragazzo non sopporta il razzismo degli svizzeri e spesso si caccia in qualche rissa, ma Nino ribatte: noi italiani sono troppi, li abbiamo invasi, e in più abbiamo troppe pretese rispetto ad altri stranieri più umili. Ecco un dato ricorrente nel personaggio di Nino: è un italiano che detesta il lato bonario e stereotipato dei suoi connazionali, che proprio non sopporta l'abusatissimo triangolo dell'identità nazionale sole/pizza/mandolino. Lo vediamo quando il ristorante lo licenzia in seguito a un incidente del tutto fortuito: non credendo fosse tanto grave, dopo il rilascio della polizia aveva orinato per strada e, per colmo di sfortuna, una coppia di svizzeri in posa romantica lo aveva fotografato di spalle in pieno flagrante…Deve andarsene, ma appena è salito sul treno, e gli altri italiani cominciano a cantare, lo vediamo letteralmente fuggire e rifugiarsi in casa di una greca sua dirimpettaia in cerca di ospitalità. Si scopre che Elena (l'attrice è Anna Karina) è un'esule, forse per motivi politici, e vive con un figlio piccolo che ha fatto venire di nascosto e che non esce mai di casa. Per qualche tempo Nino convive con questa nuova famiglia, e trova un po' di calore umano. E' una parentesi, una piccola oasi di serenità tra persone sole all'estero, ma non può durare. Nino si rivolge allora a un industriale italiano conosciuto al ristorante (è un bravo e sorprendente Johnny Dorelli) e che vive un esilio solo apparentemente dorato. Ha mille problemi famigliari e finanziari: separato dalla moglie, con due figli viziati che vede di rado senza riuscire a parlare con loro, e sull'orlo del fallimento, gli offre di lavorare per lui come uomo di fiducia. Tutto sembra bene avviato, ma invece non comincia neppure: l'industriale si suicida appena sa dell'avvenuta bancarotta, e Nino, prima prova a cercare ospitalità nelle baracche di altri italiani, ma anche qui non può restare a lungo e dopo un vano tentativo di tornarsene in Italia, accetta di restare come clandestino, senza documenti e senza soldi. E qui c'è una delle sequenze più significative del film, dove comicità e disperazione trovano un equilibrio davvero originale. La sua nuova residenza infatti non è che un pollaio, dove altri italiani miserabili vivono uccidendo e spennando polli, quasi anch'essi ormai ridotti a vivere da animali in condizioni più che squallide. Il contrasto tra la loro pretesa di aver trovato fortuna e realizzazione, e lo sgomento di Nino, dà vita a un contrappunto di riso e pietà che ha pochi riscontri nel cinema italiano. Ogni battuta è memorabile, servita da Manfredi con una felicità espressiva straordinaria. Si oscilla continuamente tra la comicità pura e la tragedia. Come pure memorabile è il sigillo a questa lunga sequenza: quando cioè Nino e gli altri spiano affascinati i giovani figli del datore di lavoro che oziano nudi coi loro amici alle spalle del pollaio. La rivelazione è quasi un imprinting per Nino: soggiogato dallo spettacolo di quella bellezza, da quei giovani biondi e aggraziati come dei, decide di farsi biondo anche lui. La scena, va detto, è ben più che incisiva: è un saggio concentrato di antropologia, con dentro un sentimento molto profondo delle differenze (etniche e culturali in senso lato) che non si dimentica facilmente.

Con la sua nuova chioma bionda, Nino si sente finalmente uno svizzero, dunque più integrato che mai. Una sera entra in un pub per recitare la sua commedia, ma il caso vuole che ci sia in tivù la partita tra Svizzera e Italia. Lui comincia recitando da tifoso di casa, ovviamente, finché succede l'imponderabile: la nazionale azzurra segna! Nino non ce la fa, tutta la sua finzione crolla in un attimo e liberando la sua gioia si svela per quello che è, e sarà sempre. Questa volta il treno lo prende davvero, rassegnato alla sconfitta. Neppure quando Elena, alla stazione, gli porta un nuovo permesso di soggiorno, se la sente di restare ancora: non ha più voglia di lottare. Il treno parte, finalmente. Ma ecco che dopo qualche chilometro, gli altri emigranti di ritorno tirano fuori chitarre e fisarmoniche, e intonano le solite canzoni napoletane. E' più forte di lui: tira il freno d'emergenza dentro una galleria, il treno si arresta, e lui viene fuori dal tunnel guardandosi intorno smarrito. Ha lasciato la Svizzera, ma non vuole neppure tornare in Italia: cosa farà?

Questo film, così amaro e cattivo verso un certo modo di essere italiani, è un capolavoro dalla prima all'ultima scena, e Manfredi, che regala la sua più grande prova, sia pure in una carriera ricca di acuti, si conferma un interprete di enorme talento, che avrebbe senz'altro meritato di più. "Pane e cioccolata" è comunque uno di quei film da portare sull'isola deserta, per ricordare cos'era al suo meglio la commedia italiana. Anzi, all'italiana: e per una volta senza nessuna sfumatura snobistica.

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n.1


La copertina

 

Pink Floyd

"The Dark Side Of The Moon"

(1973)

E' uno dei dischi più famosi e venduti della storia del rock. Ma questo, si sa, può anche non voler dire molto. In un mondo per sua natura effimero e soprattutto gestito da una rapace industria, ogni affermazione planetaria può ingenerare il sospetto dell'ennesima, riuscitissima campagna pubblicitaria: insomma, pensando ai Sex Pistols, la più grande truffa del rock'n'roll! Il dubbio di fronte ai grandi numeri è dunque legittimo, ma in questo caso del tutto fuori luogo, poiché si tratta di un album veramente bello e originale, al di là di qualunque sospetto.

Il gruppo che fu di Syd Barrett, oltretutto, non ha più niente da dimostrare a nessuno. E' stato alfiere delle prima psichedelia inglese, quella più ruspante e geniale, consacrata nel doppio album "Ummagumma"(1969). Sono seguiti due altri dischi come "Atom heart mother" e "Meddle", decisivi per stabilizzare il loro successo e renderli un vero 'culto' a livello internazionale: il nome dei Pink Floyd è insomma di quelli che mettono tutti d'accordo, i puristi del 'progressive' e gli ascoltatori senza pretese, sedotti allo stesso modo da questa mistura di tecnica sopraffina e avventurosa esplorazione sonora. Una ricetta che sembra nata per sedurre anche artisti d'altro genere, a cominciare da un cineasta come Michelangelo Antonioni, che li vuole per musicare il suo "Zabriskie point": una collaborazione, questa, che nonostante gli attriti frutta la straordinaria sequenza della villa che esplode, in un lunghissimo ralenty scandito dal grido di "Careful with that axe, Eugene" in una nuova versione. E' come una riprova. Non a caso è solo nel desiderio della protagonista che la villa va in pezzi, come a dire che ci sono musiche di superficie e altre che illustrano i sogni più audaci della mente, come quella dei Floyd. Insomma, a questo punto della sua storia, la formazione britannica potrebbe già vivere di rendita, come altri hanno fatto e faranno sempre: invece i quattro non sono ancora soddisfatti, vogliono dare di più, e nasce "The Dark Side of the Moon".

Da tempo Rogers Waters, principale mente compositiva del gruppo, aveva in mente un disco sull'uomo moderno e le sue nevrosi. Allo scopo vengono perfino registrate una serie di interviste con gente comune sul tema: cosa ci piace e cosa ci inquieta di questa civiltà tecnologica e competitiva? Brani di questo materiale saranno disseminati con grande attenzione strategica per tutto l'album, come a voler rimarcare una volta di più la verità di tutta l'operazione. Il progetto insomma è molto ambizioso, ma quante volte le migliori intenzioni finiscono per partorire il topolino? Succede in ogni campo, e nel rock non si contano neppure i grandi proclami naufragati poi in autentici mostri: una sequenza sterminata di suoni veramente 'cacofonici'.

Le registrazioni si svolgono presso gli studi Abbey Road di Londra tra il giugno del '72 e il gennaio del '73: otto mesi di lavoro per mettere insieme il prodigioso puzzle che oggi conosciamo e che vola subito in testa a tutte le classifiche mondiali. La registrazione, affidata a un vero mago dei suoni qual è Alan Parsons, è semplicemente perfetta, con i brani del 'parlato' che si amalgamano con assoluta naturalezza alla musica, come se fosse un corpo unico che parla, ride, piange del suo tempo privato e sociale. Solo i Pink Floyd potevano concepire e realizzare con questa efficacia un disegno tanto geniale, senza esaurirsi nel kitsch assoluto. Ma geniale, soprattutto, è la sequenza dei dieci momenti che scandiscono questo viaggio in musica attraverso la psiche dell'uomo contemporaneo.

Ogni singola frazione del disco è da antologia: l'intro 'cardiaco' di "Speak to me" culmina nel grido che sblocca il viaggio come una seconda nascita adulta. E infatti segue il movimento ampio, dilatato di "Breathe", come a prendere il respiro e la misura al mondo che torna a spalancarsi appena svegli. Un paesaggio ansiogeno che pare un risucchio e incalza il povero coniglio braccato in ogni momento, tra scie ficcanti di metropolitana e rumori di cassa sonante che chiudono il cerchio. La giornata è un richiamo continuo all'ordine incessante di pendole, orologi e sveglie, una griglia di doveri simili a una grande trappola che tiene in ostaggio il corpo e la mente, costretti a un balletto acido ben scandito dalla chitarra 'sporca' di David Gilmour ("Money"). Nel mezzo, non si sa come, lampeggia tuttavia un'eco del paradiso perduto: questo sembra infatti la sequenza mozzafiato di "The great gig in the sky", vero ombelico del disco. Introdotta dal piano classicheggiante e dimesso di Richard Wright, la meravigliosa voce di Clare Torry, incalzata a dovere dal 'drumming' di Nick Mason e dall'organo, libera un canto di primitiva bellezza, un lamento senza parole che sprigiona amore e dolore, rabbia e poesia insieme: il più struggente orgasmo della storia del rock. Da brivido.

Ma non è finita. "Us and them" è una ballata siderale che sembra rotolare fuori del tempo, solenne e malinconica, con il prezioso contrappunto del sax di Dick Parry: la voce di Gilmour è ora dolente, ma placata, mentre intona la fragile solitudine di ciascuno, invano nascosta da schermi e ideologie varie. Questo nucleo indivisibile deve accogliere allora anche le sue parti più segrete e infantili, reintegrarle nella personalità prima del corto circuito fatale di una ragione sterile: ecco il succo del progetto secondo Waters, condensato in "Brain damage" e poi nel corollario finale di "Eclipse". Quello che non dobbiamo mai perdere di vista, insomma, è appunto la faccia più scura, e alla lunga più vera, della nostra luna.

Così cantarono i Pink Floyd nell'album che rimane indubbiamente il loro culmine espressivo e insieme una dimostrazione di quali possibilità offra il linguaggio del rock in mano ad artisti capaci: il capolavoro di una band per molti versi unica e irripetibile.

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n.2


Peter Sellers in "Oltre il giardino"

"Oltre il giardino"

("Being There")

di Hal Ashby

(1979)


Un film del genere pare un inno alle possibilità espressive di un mezzo come il cinema. Esistono film 'di parola', con sceneggiature ammirevoli e a prova di bomba, ma carenti proprio sul piano di quell'immagine che dovrebbe sempre costituire il fulcro della comunicazione visiva, e viceversa, pellicole che basano tutto il loro fascino sulla spettacolarità dell'azione, pieni di effetti speciali e dal ritmo visivo mozzafiato, ma che arrivati in fondo non lasciano dentro che una scia accecante. Con il film in questione siamo in un terzo territorio, quello dove parola e immagine, significato e significante, per parlare difficile, s'incontrano magicamente: parlano i volti, le singole scene, ma perché alla base sta un soggetto, anzi un'idea geniale, che ogni dettaglio e ogni inquadratura fanno risuonare come implacabile e dolente controcanto.

Quando Hal Ashby, nato nel 1939, dirige "Being there" ha alle spalle una breve carriera fatta di titoli discreti e qualche acuto decisamente interessante, come soprattutto "L'ultima corvé"('The last detail') , un film del 1973 molto critico sul sistema americano, visto attraverso una storia di marines alle prese con un delicato incarico. Ma forse è proprio con quest'opera che lascia il segno più graffiante dell'intera carriera, destinata a chiudersi nel 1989 con la sua morte. Da parte sua il protagonista del film, il grande Peter Sellers, è all'apice della sua fama di attore eminentemente comico, dopo la fortunatissima serie della "Pantera rosa", in combutta con Blake Edwards, e non senza essersi tolto il gusto di sconfinare nel grottesco d'autore, diretto dal genio Kubrick nel "Dottor Stranamore". Anche lui però è destinato a chiudere in bellezza con questo film( morirà l'anno seguente).

Il soggetto si sviluppa a partire dal romanzo di Jerzy Kosinski, e in breve ci racconta di come un povero e candido giardiniere, Chance, cioè Sellers, vissuto sempre all'interno d'una tranquilla abitazione cittadina, e totalmente ignaro del mondo oltre il giardino, appunto, possa essere scambiato per un sagace stratega politico. Come questa incredibile vicenda, surreale a dir poco, appaia invece verosimile è la sfida dell'intero film. Il peso poggia in gran parte sulla recitazione e la maschera straordinaria di Sellers, del quale seguiamo passo passo l'avventurosa e irresistibile ascesa in questo universo sconosciuto. E' attraverso il suo sguardo innocente e perplesso che il sistema politico e mass-mediatico viene scrutato e sviscerato nelle sue debolezze, vanità e sostanzialmente nella sua inquietante pochezza morale.

Alla morte del suo padrone, un anziano benestante che l'ha praticamente adottato, il giardiniere Chance, il cui nome non figura in nessuna anagrafe, non capisce bene cosa succeda: mentre il resto della servitù lascia la casa, lui seguita a trascorrere le sue giornate tra televisione, giardino e piccole faccende domestiche, finché viene sorpreso dagli incaricati della liquidazione dell'abitazione e, in dialoghi di irresistibile equivocità, capisce di doversene andare. A partire dalla sua prima uscita per strada, impeccabilmente vestito e con la pesante valigia al seguito, capiamo subito che tutto può succedere. L'impatto con il mondo esterno è per Chance un trauma continuo: esemplare la scena dell'incontro con una gang di piccoli teppistelli che lo deridono, e che lui, estraendo il fedele telecomando di tasca, cerca di far sparire come si fa per cambiare canale. Insomma: ecco cosa può fare la televisione su una mente elementare, priva di ogni altro stimolo sociale. Il bello è che il disastro totale, prefigurato da questo primo incidente di percorso, non solo non avviene, ma si trasforma in una sorta di progressiva ascesa del povero giardiniere. Infatti, appena scalfito dall'auto di una bella donna, viene da questa condotto nella sua villa per essere curato e qui fa la conoscenza col padrone di casa: una specie di grande vecchio della finanza e della politica, di molte conoscenze e ancora influente, per quanto ormai di salute compromessa. E' l'incontro decisivo: il vecchio lo prende in simpatia e la moglie, ottimamente interpretata da Shirley MacLaine, finisce addirittura per innamorarsene.

Da questo momento per l'uomo delle piante si spalancano orizzonti di gloria: convinto a restare per il benefico effetto che ha sulla cupa atmosfera della villa, Chance stupisce e incanta tutti. Come? Parlando della sola realtà che conosce davvero, cioè, per citare Stevie Wonder, la meravigliosa vita delle piante. Insomma, ogni sua innocua e perfino ovvia considerazione sul clima e la stagione, i buoni frutti e la potatura, viene scambiata per un'arguta e illuminante allegoria sulla vita politica e sulla maniera di indirizzare il paese sulla giusta china. Ci crede il vecchio e, dopo di lui, ci credono gli altri che lo conoscono per uno che non sbaglia mai: ci crede, ad un certo punto, perfino il presidente americano in carica, il quale pesa e valuta ogni sua frase sui fiori e i tempi giusti della semina come messaggi cifrati. Inizia la giostra dei media, tutti alla caccia di qualche indizio sulla vita privata di Chance Giardiniere (si crede che la qualifica sia il suo vero nome) e dei servizi segreti, che per neutralizzarlo vogliono trovargli un punto debole. Invano, perchè infatti, il giardiniere non esiste!

Nel frattempo la moglie trascurata del buon vecchio, ormai moribondo, è stregata da quest'uomo che parla per enigmi, e dal suo sguardo tanto vacuo e inespressivo da poter essere scambiato per uno sguardo d'aquila. Imperdibile la scena della tentata seduzione: mentre lui è preso soltanto dalla televisione, lei lo sottopone a ogni tipo di provocazione, dallo strip-tease all'autoerotismo, senza riuscire in realtà a interessarlo neppure un pochino. Siamo di fronte a una comicità grottesca e magnificamente risolta dai due attori: Sellers con la sua maschera d'impassibile assenza, la MacLaine divisa tra stupore e solitudine. Fantastico. Per farla breve, la formidabile ascesa del giardiniere è coronata da un sospetto di divinità: nel finale lo vediamo camminare sulle acque, leggiadro e trasognato, mentre abbandona il funerale del vecchio politico. La voce fuori campo dice, prima della dissolvenza: "La vita è uno stato mentale."

Opera sofisticata che accoppia divertimento puro a un'analisi molto seria, profonda della società odierna, pesantemente condizionata da strategie pubblicitarie che impongono l'apparenza alla sostanza dei comportamenti, "Oltre il giardino" può essere tranquillamente annoverato tra i non molti film di vero, autentico spessore dedicati alla nostra vita in tutte le sue implicazioni. La leggerezza espressiva di Ashby è solo l'arma in più, specie se a sparare è un grandissimo Peter Sellers, di questa pellicola che tocca il cuore malato di un mondo orfano di moralità: "Oltre il giardino" vale più di tanti libri a darci la sua giusta, sinistra temperatura all'alba del terzo millennio.

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n.3

Ray Bradbury

Ray Bradbury

"Fahrenheit 451"

(1951)

 

Uno dei testi capitali della letteratura fantastica del ventesimo secolo. Probabilmente il romanzo di Bradbury vanta meno estimatori e diffusione di altri romanzi dedicati ai fantasmi del futuro: per tutti potremmo citare "1984" di Orwell, o anche "Il mondo nuovo" di Huxley. Le ragioni sono molteplici, ma qui ci interessano poco: vogliamo invece illustrare tutti i meriti e le qualità specifiche di quella che rimane forse l'opera più riuscita di questo scrittore americano dalla vena prolifica e a volte disuguale, di cui va ricordato, a parte varie raccolte di racconti, un altro romanzo interessante come "Il popolo dell'autunno"(1962).

Ray Bradbury, per inquadrarlo a grandi linee nel suo contesto, è nato nel 1920 a Waukegan, nello stato dell'Illinois, dunque nel cuore della grande provincia americana, anche se in seguito seguirà la sua famiglia a Los Angeles. Qui entra in contatto con le migliori penne della letteratura 'fantastica' dell'epoca, cominciando a scrivere per varie riviste del settore. Nel 1950 esce la miscellanea di racconti "Cronache marziane", tutti collegati dall'ipotesi d'una conquista del pianeta. Il suo nome si guadagna in fretta una certa stima tra gli appassionati di fantascienza, ma è solo con la pubblicazione in volume di "Fahrenheit 451" nel 1953 (dopo l'uscita su rivista nel '51), che si comincerà a parlare di lui come scrittore a tutto tondo, fuori dai confini di un genere ritenuto minore. La portata del romanzo infatti non sopporta restrizioni anguste: sembra piuttosto una sonda lanciata nel futuro non troppo lontano di uomini e donne racchiusi in una specie d'incubo 'soft', anestetizzato dall'abitudine e da una sazia indifferenza alle domande più elementari.

Montag, il protagonista, è un pompiere. Ecco però la prima intuizione geniale di Bradbury: in questo tempo immaginario i vigili del fuoco non sono più addetti a spegnere incendi, ma a bruciare libri. Leggere è proibito, infatti, come ogni attività considerata dannosa per la comunità e per se stessi. La squadra di cui Montag fa parte verifica dunque le segnalazioni di possibili covi di lettori, stana i 'sovversivi' e si esibisce in spettacolari roghi di interi cumuli librari. Tutto sembra normale al protagonista, finché l'incontro con una ragazza sua vicina di casa, che gli pone strane domande, non provoca il primo virus del dubbio. Clarisse ama i fiori, guarda la luna e vuol sapere se Montag è felice: lui è a disagio, ma del resto sa che la famiglia della ragazza è piuttosto chiacchierata, per via di certi atteggiamenti alquanto bizzarri. Meglio tornare a casa e non pensarci troppo: sua moglie Mildred, infatti, è una donna che non fa domande imbarazzanti, passa tutto il suo tempo a dialogare con gli attori di un programma televisivo interattivo, inutile e narcisistico, e ogni tanto cade in coma per eccesso di pillole e tranquillanti. Ma a Montag basta chiamare degli addetti alla disintossicazione che arrivano e in pochi minuti cambiano tutto il sangue della persona in crisi. Solo un mal di testa al risveglio e poi tutto ricomincia come se niente fosse, anche se loro due non ricordano più come si sono conosciuti, e non hanno più niente da dirsi. Perché? Tutto nasce da questa semplice domanda.

Quando i vicini cominciano a sparire, e durante uno dei soliti roghi di libri una donna preferisce morire nel fuoco con la sua intera biblioteca, Montag decide di verificare di persona cosa c'è di tanto pericoloso nei libri. Inizia così un viaggio pericoloso e pieno d'insidie, tra i sospetti dei suoi stessi superiori, le minacce di sua moglie, che non lo capisce e lo denuncia, e l'esile filo di una rete di complicità che lo porterà a diventare egli stesso un sovversivo in fuga. Il finale è una delle invenzioni più potenti e suggestive della letteratura che interroga il proprio destino: Montag si ritrova con altri fuggiaschi in una landa lontana dalle città, tra i boschi, dove vive una comunità di libri viventi. Poiché sembra inevitabile infatti che alla fine ogni libro venga scoperto e bruciato, ciascuno ha imparato a memoria l'opera preferita, e ne porta il nome seguitando a recitarne il contenuto a chi lo richieda: da "La Repubblica" di Platone a Byron, Marc'Aurelio e Schopenhauer, Darwin e Swift. In pratica è una biblioteca vivente, depositaria di tutto lo scibile umano che qualcuno vorrebbe incenerire. E lentamente, mentre l'ennesima guerra distrugge le città, anche Montag sentirà riemergere antiche memorie, e i versi dell'Apocalisse che un giorno potrà offrire agli altri.

Il valore della straordinaria allegoria di Bradbury sta in quest'ultimo accento che cade sulla memoria: chi non ricorda non ha niente da dare al suo prossimo, perché anche il ricordo d'un verso, o d'un romanzo, racconta la storia dell'uomo e la sua evoluzione. Paradossalmente, nell'epoca di massima esposizione dell'immagine (la televisione è già trionfante in America e sta per arrivare da noi), "Fahrenheit 451" rivendica proprio alla trasmissione orale, da un uomo all'altro, il compito più complesso e decisivo: quello di riannodare tra loro, senza soluzione di continuità, le direttrici disperse di un cammino millenario nel tempo. Fatto di storie, passioni, fantasie e sentimenti che hanno trovato forma compiuta nel libro. Bradbury scriveva un romanzo come questo cinquant'anni fa: dire che ha centrato in anticipo il cuore di una questione cruciale, come il senso della parola rispetto all'invadenza dei media moderni (televisione, cinema, e quant'altri), è sempre dire poco. Ma la cosa veramente stupefacente è che il libro non ha perso un grammo di attualità. Certe allusioni a una società superficiale, che fa della velocità, e del piacere chimico/visivo, autogratificante e narcisista, la sua unica ragione di vita, suonano fin troppo familiari alla nostra sensibilità: è come guardarsi allo specchio e riconoscere un mondo sempre più nostro, che a parte certe forzature grottesche può a questo punto definirsi realizzato. Non più inquietante ipotesi d'uno scrittore immaginoso e preveggente, ma lucida analisi dell'esistente.

E' vero: per nostra fortuna i libri non sono ancora proibiti, ma il rischio di nuovi falò di valori come la cultura e la memoria dell'identità, in nome di nuove intolleranze non è mai scongiurato. La medicina forse è proprio nel racconto, nel ricordo di chi è vissuto prima, e ha scritto per testimoniare. Lo capì, tra gli altri, anche un regista finissimo come Francois Truffaut, che nel 1966 rilesse l'opera in un riuscito film omonimo che rispettava fino in fondo la potenza visionaria di questo grande capolavoro.

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n.4

H. D. Thoreau

Henry David Thoreau

"Walden o Vita nei boschi"

(1854)

 

Chi era davvero Henry David Thoreau? Viene spontaneo chiederselo dopo aver letto "Walden o Vita nei boschi", il suo libro più noto, ancora oggi considerato da ambientalisti e pacifisti con il rispetto e l'ammirazione che si devono ai maestri di vita. Perché, naturalmente, ogni testo ci racconta anche il suo autore, e in questo caso siamo favoriti dall'impronta molto individualista di Thoreau: un uomo solitario, che scrive di sentimenti ed esperienze personali, senza bearsi di sterili astrazioni o ideologie preconfezionate. Se è vero che solo la propria esperienza è fonte di conoscenza vera, è anche vero che i libri consentono la conoscenza riflessa, attraverso la lettura e l'assimilazione di quanto altri hanno vissuto. Il valore di "Walden" sta appunto in questa preziosa testimonianza di vita che ci viene dato di condividere.

La domanda iniziale resta valida: le notizie che abbiamo su Thoreau ci dicono poco, e a metterle in fila sono perfino di assoluta banalità. Nato, vissuto e morto nella provincia americana (Concord, nel Massachusetts, 1817-1862), il nostro autore sembra aver da subito scartato l'idea di andarsene, magari nella vicina Boston. Sappiamo che per quattro anni approfondisce all'università di Harvard i classici greci e latini, ma a giudicare dai giudizi disseminati qua e là, questo studio, e la cultura accademica, non soddisfano più di tanto il suo spirito. Per un paio d'anni insegna comunque a Concord, e per un altro breve periodo prova a inserirsi senza successo nel mondo letterario di New York. E' tutto.

Nel 1844, quando torna nella cittadina natale, ha già compiuto le sue esperienze decisive: da questo punto in avanti sceglie di vivere secondo i suoi più intimi convincimenti, ovviamente snobbato e frainteso dai suoi concittadini. L'unica amicizia ricambiata è quella col famoso filosofo trascendentalista Ralph Waldo Emerson, anche lui residente a Concord dopo il 1834: ospitato nella sua casa come gentiluomo di fiducia e collaboratore, Thoreau stringe una duratura amicizia con la seconda moglie del filosofo, Lidian Jackson, e in seguito anche col celebre Nataniel Hawthorne (l'autore della "Lettera scarlatta"), altro seguace del trascendentalismo. L'esperienza fondamentale, come uomo e scrittore, Thoreau la compie tra il 1845 e il 1847: in questi due anni mette in pratica quella che è anzitutto un'esigenza interiore, sulla quale poi far valere la sua visione anticonformista, e controcorrente, della vita umana. Con il tipico connubio di integrità sentimentale e arguto raziocinio, sceglie di avventurarsi nel bosco del lago di Walden, in una proprietà di recente acquistata da Emerson, e qui, con metodo e anche col gusto dell'improvvisazione, si costruisce tutto da solo una capanna di legno dove vivere in assoluto isolamento.

Cosa spinge un uomo di nemmeno trent'anni a questa sorta di volontario esilio lontano dalle comodità dei suoi simili? Della natura anticonformista di Thoreau si è già detto, ma un semplice capriccio caratteriale non serve che a banalizzare l'esperienza dello scrittore americano. La verità sta forse nelle pagine stesse del libro, che oltre al resoconto puntuale e perfino pedante del cibo consumato e di tutte le operazioni pratiche di questa vita primitiva, offre una vastissima serie di spunti di riflessione sugli argomenti più disparati. Thoreau si rivela in queste divagazioni che poi diventano il cuore della sua personalità, un intelletto formidabile, nel quale le salde radici del continente americano delle origini, vera terra promessa più d'ogni altra, si uniscono a una cultura larga e mobilissima (all'opposto del classico sapere scolastico-accademico) e soprattutto al sentimento che un mutamento epocale è in atto. Siamo infatti a metà Ottocento: il mondo nuovo e sconfinato che ha da poco preso forma nella confederazione degli Stati Uniti comincia la sua evoluzione tecnica e industriale, che premierà soprattutto le regioni nord-orientali, le prime ad essere colonizzate dal sangue europeo e subito permeate da una solida morale puritana. Qui nasce anche Thoreau, e anche lui vede l'urbanizzazione e l'innovazione tecnologica con un senso di disagio: anche lui sente il bisogno di ritrovare le radici del mito americano prima che venga anestetizzato da una società più ricca ma anche, fatalmente, più formalizzata. Un dramma antico e non solo americano, certo, che però quel continente vive con intensità storica tutto particolare, dovuta alla velocità tumultuosa di questo processo. Questo provoca negli uomini più sensibili la nostalgia di un'epoca che non tornerà più, con la sua miracolosa armonia tra l'uomo e la natura: andando a Walden, dunque, Thoreau torna alla foresta, dove la civiltà americana è nata.

La passione per la natura ancora integra ha modo di esplicarsi in tutto il libro. Colpisce la cura e l'osservazione delicata di certe risonanze, dei colori del lago di Walden, dei suoi abitatori, bestiole e taglialegna trasparenti come bambini. La dichiarazione di Thoreau è eloquente: "Non lessi libri, la prima estate; zappai fagioli." Non è solo urgenza di soddisfare bisogni primari in un ambiente dove niente è regalato, ma anche, soprattutto, felicità di dedicarsi all'attimo presente che vive intorno con la sua luce e le sue ombre, le voci e gli odori della terra. Proprio in contrasto con questo stato contemplativo, che si armonizza perfettamente coi ritmi e le fatiche della vita solitaria, Thoreau svolge la sua impietosa analisi della vita sociale moderna. Anche se procede spesso per ondivaghe associazioni d'idee, in ogni osservazione spicca la sua estrema lucidità di pensiero che investe ogni tema con identica acutezza. In tutte queste pagine, tra asciutta ironia e solido buon senso, affiora il vero motore di questa irrequieta intelligenza: la semplicità, nei costumi e nel sentire. Pochi autori la dimostrano come Thoreau in questo libro esemplare, e ancora meno sanno ridicolizzare i totem della società civile come lui: dall'eccesso di confort che provoca malattie, al culto della velocità che in realtà accumula ritardi, e così via. Un campionario di luoghi comuni della modernità trionfante passati al setaccio e messi alla berlina.

L'esperienza di "Walden" durò due anni, ma è facile arguire che ebbe enorme influenza sulla maturità del suo autore: dopo il benefico contatto con quello che definì "il midollo della vita", lo scrittore di Concord rafforzò le sue visioni controcorrente e soprattutto la sua concezione, sempre attualissima, di un uomo che è tanto più libero quanto più riconosce i suoi limiti e le sue risorse vitali nello specchio della natura. E' in questo solco d'integrità antica e rispetto per la libertà che sembrano iscriversi anche le poche, ma decisive opere che ci sono rimaste: il saggio "Disobbedienza civile" e da ultimo l'orazione "In difesa del capitano John Brown", dove sposò la causa di un ribelle antischiavista. Testi e idee che fanno ancora oggi di Henry David Thoreau una delle voci più autentiche dello spirito e della cultura americana.

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n.5

Max Stirner

Max Stirner

"L'unico e la sua proprietà"

(1844)

Uno dei casi più eclatanti di rimozione culturale nella storia della filosofia: ecco come in estrema sintesi potremmo etichettare il caso di Max Stirner e del suo libro famigerato, "L'unico e la sua proprietà". Le accademie, le antologie scolastiche, le summe enciclopediche sembrano in effetti aver stretto un tacito accordo per ignorare, o liquidare con formule riduttive, questo scomodo testo che rimane anche il testamento di un autore che volle, in questo accontentato, rimanere fedele solo a se stesso e alla propria idea di assoluta libertà individuale.Il risultato di questa proposta così radicale e a suo modo estremistica fu per lungo tempo l'oblio dell'uomo, non meno che del pensatore, finché alcune più recenti ricerche hanno cercato di mettere almeno qualche punto fermo critico e biografico: eppure, al di là del testo, è ben poco quello che sappiamo.

Era nato a Bayeruth nel 1806 col vero nome di Johann Caspar Schmidt. Per qualche tempo studiò filosofia a Berlino, e tra i suoi docenti c'è anche Hegel. Nel periodo 1839-1844 è invece insegnante presso un istituto privato per fanciulle di buona famiglia, ma i suoi interessi sono sempre legati alle discussioni filosofiche che ha modo di seguire frequentando il gruppo dei "Liberi", in gran parte radicali di sinistra, mentre scrive anche per alcuni giornali e periodici. La sua parabola verso l'incomprensione e l'isolamento inizia con la pubblicazione de "L'unico", per l'editore Wigand di Lipsia: Stirner, che firma il libro con lo stesso pseudonimo usato da giornalista, si licenzia dalla scuola privata berlinese il primo ottobre del 1844, e già il 28 ottobre "L'unico" viene sequestrato con l'accusa di "blasfemia" nei confronti di tutto ciò che è Stato e religione. Subito riammesso e di nuovo sequestrato, in un balletto abbastanza ridicolo tra le autorità del tempo, fuori della Prussia il libro circolava intanto liberamente e provocava accese discussioni. Tra i primi lettori furono Engels e Marx, che avevano conosciuto Stirner a Berlino: si scambiarono opinioni a un tempo ammirate e sospettose, poiché il secondo intravide nel senso profondo del libro un potenziale ostacolo alle sue teorie. Lo stesso Feuerbach, violentemente attaccato in quanto idealista dall'analisi di Stirner, non poteva nascondere all'inizio la sua impressione per un'opera "di estrema intelligenza e genialità", salvo poi, col tempo, accodarsi al generale disprezzo che affossò per decenni il nome di Stirner e del suo pensiero. L'uomo, vivendo tra mille stenti e affetti privati alla lunga deludenti, come il secondo matrimonio con Marie Dähnhardt (cui è dedicato "L'unico"), conobbe anche la prigione per debiti e morì in solitudine nel 1856. La sua opera però, come tutto ciò che dispiace alla società in cui nasce, mostra invece una buona resistenza al tempo e alle mode.

Ma cos'aveva dunque di così terribile questo pensiero, per accendere reazioni e sentimenti tanto contrastanti? Semplicemente, è un pensiero, quello di Stirner, che mette in cima a tutto, come vero dio autosufficiente, l'individuo singolo, non in quanto legato a determinati valori o ideologie, ma proprio in sé. Unico e irripetibile, appunto, con quella che è la sua vera e inalienabile proprietà: il suo corpo. Basta una simile idea, ripresa poi da anarchici e libertari d'ogni tipo compreso lo stesso Bakunin, a svuotare d'autorità ogni fede, credenza e filosofia che cercano da sempre di irreggimentare l'uomo al servizio d'un dogma, e muoverlo così verso mete diverse, ma sempre fallaci nell'analisi stirneriana, in quanto ottengono come solo risultato di alienare l'individuo a se stesso. E neppure si può credere che questo duro assunto sia esposto in formulette declamatorie e di basso profilo: con la sua enfasi, che i detrattori ovviamente trovano verbosa e delirante, con tutto l'acume e le sfumature analitiche che mettono a frutto anni di libere discussioni nei ritrovi filosofici berlinesi, Stirner passa una gran parte del suo libro a demolire sistematicamente, diciamo pure a smascherare, le maggiori ideologie del suo tempo. Così, nella prima parte del testo, "L'uomo", sono oggetto della sua spietata critica: gli antichi, dal paganesimo agli scettici greci, cui Stirner riconosce il merito di aver minato alla base il legame tra singolo, stato e mondo; e quindi i moderni, e in particolare i cristiani, che al posto del dogma laico impongono all'individuo il "fantasma" dello spirito e del divino; per finire con la critica più scandalosa, poiché riguarda gli stessi ambienti frequentati da Stirner a Berlino, vale a dire i liberali ("Liberi" li chiama lui) sociali, politici e umanitari. E' una critica serrata, a volte ripetitiva eppure illuminante, che sprigiona autentiche scintille: una filosofia che unisce passione critica e provocazione, ma che indubbiamente lascia il segno e sa di cosa parla e dove colpire. A questa critica "negativa" fa seguito, nella seconda parte intitolata "Io", l'esposizione di ciò che Stirner ritiene l'unica libertà praticabile dal singolo: l'egoismo. E' sicuramente il nodo centrale della filosofia stirneriana, e quella più facilmente fraintesa e distorta, anche ad arte, dagli avversari.

Quello che l'autore tedesco in fondo sottolinea è che l'egoismo peggiore è quello praticato da coloro che in nome di astratte e fumose teorie pretendono di asservire la libertà umana a scopi non sempre cristallini, che tanti equivoci e tragedie hanno portato (e noi che viviamo un secolo e mezzo dopo Stirner possiamo testimoniarlo ancora meglio!). Il suo egoismo invece, che tanto scandalo suscita negli idealisti sempre a caccia di cause "superiori", non è che l'attuazione del proprio piacere all'interno di una libertà non intaccata da regole sociali e fantasmi morali. Un piacere e una libertà che trovano l'antidoto agli eccessi proprio nell'estensione a ogni individuo del medesimo egoismo, così che sia possibile svuotare di senso ogni contrapposizione fondata su parole d'ordine, ideologie, dogmi religiosi, e confrontarsi davvero tra liberi individui, finalmente consapevoli di non dover essere altro che se stessi. In questo senso si spiega anche la proposta, che può apparire una contraddizione in termini e non lo è, di una "unione degli egoisti": l'egoismo come rispetto e coscienza di sé, non vincolata ad ambigue militanze o astratti accorpamenti è la sfida estrema, libertaria e utopistica, eppure ancora oggi affascinante, che pone agli uomini l'opera di Stirner. Il motto che lo scrittore fa proprio per aprire e chiudere il libro, "Io ho fondato la mia causa su nulla" (verso iniziale di una poesia di Goethe), sarebbe allora l'orgogliosa rivendicazione di aver vissuto in questa raggiunta consapevolezza.

Libro sicuramente estremo, anche eccessivo nei suoi tratti esteriori, "L'unico e la sua proprietà" rimane un'opera ricchissima di suggestioni, che provoca e rimette in circolo idee e aspirazioni tutt'altro che sterili. Leggerlo, oggi, è forse anche un modo di rivalutare un pensatore, un uomo, che ha vissuto la sua libertà come una condanna al sospetto e alla calunnia: ma come ha scritto Fritz Mauthner, Stirner "non era un diavolo e non era un pazzo, anzi era un uomo silenzioso, nobile, che nessun potere e nessuna parola sarebbero riusciti a corrompere, un uomo così unico che non trovava un posto nel mondo, e di conseguenza più o meno fece la fame; era soltanto un ribelle interiore, non era un capo politico, perché agli uomini non lo legava neppure una lingua comune." (F. Mauthner, Der Atheismus und seine Gestchichte im Abendlande, vol. IV, Stuttgard-Berlin,1923, pag. 120- Traduzione di R. Calasso).

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