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Band nata a Roma nel 1971 sulle ceneri di un precedente gruppo beat chiamato Under 2000, che realizza alcuni singoli nel 1970. Una volta finita quell'esperienza, due dei componenti reclutano altri elementi per creare un quartetto chiamato appunto Paese dei Balocchi, arrivato all'appuntamento discografico nel 1972. L'album omonimo, realizzato per la CGD e prodotto da Adriano Fabi, è dominato dalle tastiere di Armando Paone, compositore di tutti i brani, per illustrare questo viaggio immaginario che si richiama soltanto nel nome al mondo di Collodi. Suddivisa in diversi segmenti, talvolta brevissimi, la sequenza si snoda su organo, mellotron e synth in abbondanza, con rari momenti davvero corali e appena più energici: è il caso di "Impotenza dell'umiltà e della rassegnazione", un brano tumultuoso che lascia spazio alla vigorosa chitarra elettrica di Fabio Fabiani. I testi cantati dallo stesso tastierista sono invece molto introspettivi, seppure poco elaborati nel complesso del disco: a parte la brevissima "Narcisismo della perfezione", si segnala soprattutto la malinconica "Canzone della speranza", sorretta dagli archi. Proprio l'apporto di una sezione d'archi, ben integrata con il resto del gruppo e diretta con grande finezza da Claudio Gizzi, è spesso decisiva negli equilibri della musica, senza essere invadente come in altre esperienze del prog italiano. Molto intrigante risulta un pezzo come "Vanità dell'intuizione fantastica", costruita sul basso di Marcello Martorelli e poi irrorata ancora dalle trame organistiche di Paone, in un gioco di pause e riprese di buon effetto. Sicuramente non manca alle musiche proposte dal Paese dei Balocchi una certa suggestione arcana, nel segno di una dimensione pensosa, quasi contemplativa, ma alla lunga il disco soffre di una certa monotonia di fondo. Il difetto più evidente è una scarsa capacità di costruire trame sonore davvero compiute, lasciando invece l'impressione di uno sviluppo frammentario, così che gli spunti anche felici delle tastiere, delle chitarre e le rare impennate ritmiche, non prendono mai corpo come potrebbero. Pur con questi limiti, il disco ha comunque il timbro inconfondibile del progressive italiano più oscuro dei primi anni Settanta: esemplare in tal senso è la splendida "Evasione", una composizione di grande atmosfera che può anche richiamare la ricerca dei corrieri cosmici tedeschi, ma in una chiave più morbida, con dosati interventi di chitarra e piccole accelerazioni interne. Si tratta insomma di un tentativo ambizioso, tutt'altro che banale, di allargare l'area sonora del rock progressivo in una direzione più originale, senza compromessi o facili scorciatoie, che dunque merita una certa attenzione. Dopo qualche avvicendamento in organico, la band romana non trova nuovi sbocchi discografici e si scioglie nel 1974. Ristampe a cura di Mellow Records e BTF/Vinyl Magic. |
"Il Paese dei Balocchi" |
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Uno dei molti progetti dimenticati del prog italiano, Pangea è il nome di una band effimera nata intorno a Mauro Paoluzzi, noto musicista e autore, ma soprattutto produttore, del giro milanese. Con lui, impegnato tra chitarra, batteria e voce, sono coinvolti due membri dei Madrugada come Gianfranco Pinto (tastiere) e Billy Zanelli (basso), oltre al rinomato fiatista Claudio Pascoli e alla stessa moglie di Paoluzzi, Luciana, alla voce. Questo ensemble firma un solo album, "Invasori", interamente firmato da Paoluzzi e realizzato per la Phonogram all'inizio del 1977: ne uscirono soltanto poche copie promozionali e venne poi lasciato al suo destino, senza nessuna vera distribuzione, a causa delle mutate strategie produttive della label. In realtà si tratta di un disco piuttosto interessante, una sorta di concept formato da dieci episodi, sempre in bilico tra canzone pop e spunti progressivi in odore di "space rock". L'iniziale title-track ad esempio riecheggia da vicino i Pink Floyd di "Wish You Were Here", con largo uso di synth e sonorità rarefatte, mentre altrove si ascoltano vivaci episodi strumentali di sapore etnico con flauto e percussioni in evidenza ("Corallo"), melodie arricchite da ritmi "funky" ("Monj"), fino a intriganti canzoni di gusto fiabesco ("Piccolo re"). Il livello generale è comunque discreto, con arrangiamenti curati e a volte molto personali: ad esempio "Arcipelago", un crescendo di buona suggestione con tastiere, fiati e chitarra elettrica in evidenza, o anche la lunga progressione di "Xanadù", costruita sul pianoforte e ancora segnata dai fiati. "Naufragio", con la chitarra acustica e le voci sommesse in primo piano mostra invece il lato più intimista del gruppo, mentre in "Bazar" il sax di Pascoli spicca in uno schema di morbido jazz-rock. Pur soffrendo di una certa varietà di toni, "Invasori" rimane un esempio più che dignitoso del tardo prog italiano dei Settanta, a lungo relegato nell'oblio e oggi recuperato grazie alla ristampa AMS del 2007 (con una nuova copertina) e in seguito inserito anche nel cofanetto "Progressive Italia - Gli anni '70 vol.6". |
"Invasori" |
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Gruppo formato a Roma nel 1969 sulle ceneri di due diversi gruppi Beat. Dopo due 45 giri realizzati nel 1970 e alcuni cambi in organico, il quartetto dei Panna Fredda incide l'album "Uno", pubblicato però dalla Vedette solo nel 1971, cioè con mesi di ritardo rispetto alla registrazione, quando ormai la band è in via di scioglimento. Da notare che alcuni brani avranno una buona promozione radiofonica, ad esempio nel programma "Per voi giovani" condotto da Renzo Arbore, ma il disco non ebbe riscontri accettabili, soprattutto a causa della carente distribuzione da parte della stessa etichetta. Comunque sia, i quattro componenti danno vita a un rock innovativo, non sempre efficace ma interessante per il tentativo di uscire dai confini della canzone tradizionale. Lo testimonia anche la ripresa di "Heaven" dei Gracious in "Un re senza reame". Il disco non riesce forse a proporre uno stile davvero omogeneo, ma gli spunti degni di nota non mancano. Oltre alla chitarra elettrica di Angelo Giardinelli e all'organo di Lino Stopponi, con la discreta presenza del basso di Pasquale Cavallo, la musica della band si avvale ad esempio di molti effetti speciali, all'epoca abbastanza inediti, già nell'iniziale "Paura", e di larghi interventi di clavicembalo in un pezzo come "Il vento, la luna e pulcini blu": è forse il momento più ambizioso della scaletta, per via di sonorità sperimentali, con spunti di chitarra acustica, fratture ritmiche ed effetti elettronici. E' un album che vive di atmosfere oscure, anche frammentarie, sottolineate dalle stesse voci, con qualche residuo melodico che affiora qua e là. Non a caso, nei testi si recupera la figura incompresa di Cristo, come ad esempio "Un uomo", secondo un leiv-motiv di molto pop italiano, in qualche modo ereditato dallo spirito pacifista del Beat anni Sessanta. A conti fatti, il merito principale dei Panna Fredda, e di altre band minori di quella stagione, rimane proprio lo sforzo di allargare i confini della musica italiana in una fase di passaggio molto delicata tra due decenni. |
"Uno" |
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Ingegnere del suono noto soprattutto per "The Dark Side of the Moon" dei Pink Floyd, l'inglese Alan Parsons (classe 1948) è stato anche produttore e musicista. Nel 1975 forma con il pianista e autore scozzese Eric Woolfson un gruppo di studio supportato dall'orchestra, che non suonerà mai dal vivo: il sodalizio frutta dieci dischi e grandi successi. L'album d'esordio per The Alan Parsons Project, e forse il migliore, è "Tales of Mystery and Imagination - Edgar Allan Poe" (![]() ![]() |
"Tales of Mystery and Imagination - Edgar Allan Poe" |
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Nato come Giancarlo D'Auria, il cantante napoletano Gigi Pascal muove i primi passi nella stagione beat degli anni Sessanta: in questa ottica infatti escono i primi singoli da lui firmati tra il 1969 e il 1970, come "Alla fine della strada", che gli procurano una piccola fama locale. Solo in seguito, con la sigla allargata alla Pop Compagnia Meccanica, c'è il tentativo di approcciare in superficie la moda del progressive, senza snaturare troppo uno stile che resta ben lontano dalle esperienze maggiori. Nel 1973 viene così pubblicato l'album "Debut" per la piccola etichetta Fans/Phonotype. Si tratta di otto brani che non escono quasi mai dal tipico formato della canzone breve, per una durata complessiva che resta inferiore ai trenta minuti. Con il cantante suona un quartetto che nelle note di copertina viene indicato con i soli nomi di battesimo, ma oggi sappiamo che il batterista è Fulvio Marzocchella, musicista che vanta collaborazioni con nomi di spicco quali Nico Fidenco, Patty Pravo e Umberto Bindi. Anche se la sequenza, nella sua semplicità, rimane piuttosto gradevole, è difficile trovare per gli appassionati prog dei momenti di grande interesse, dato che Pascal è quasi sempre protagonista dei pezzi con il suo tipico vibrato melodico, come si nota già nell'attacco di "La tua voce". Se i testi sono poco interessanti, musicalmente la parte migliore è quella svolta dalle tastiere: l'organo di Mario caratterizza l'intera scaletta col suo timbro caldo e vivace, ad esempio in "Ormai". Si nota lo sforzo di uscire dal seminato con qualche fuga organistica di ascendenza classica: è il caso dello strumentale "Fuga in Si minore", ben giocato sulla ritmica incalzante, in un susseguirsi di pause atmosferiche e riprese, fino al lungo assolo di batteria. In "Crescente", basato sul binomio di organo e chitarra, la voce di Pascal è particolarmente energica in uno schema ritmico concitato. La title-track mette insieme in modo frammentario nuove fughe d'organo, un testo parlato e riff di chitarra, mentre "Un concerto" è una canzone di onesta fattura. Nello strumentale di chiusura, "Io mi diverto", si nota la verve del gruppo, con il ricco fraseggio dell'organo, il coro e la batteria sempre dinamica a guidare le danze. Episodio decisamente minore degli anni Settanta, "Debut" dimostra in ogni caso la capacità di penetrazione di certi modelli musicali d'oltremanica anche nell'ambito del pop leggero italiano. |
"Debut" |
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La scena austriaca non è stata molto prolifica per il rock progressivo, e i Paternoster restano tra i pochi nomi degni di essere ricordati. La band si forma a Vienna nei primi Settanta per sciogliersi poco dopo la pubblicazione del suo unico album. Il disco omonimo, composto di sette brani e realizzato nel 1972 per la CBS, divide da sempre gli appassionati tra entusiasti e perplessi. Il quartetto austriaco sembra influenzato sia dal primo krautrock che da certa psichedelia inglese, ma a colpire sin dal primo ascolto è la sconcertante voce del tastierista Franz Wippel, che lascia un segno indelebile su tutta la sequenza, nel bene e nel male. Non si tratta certo di un vocalist dotato: il suo canto è generalmente monocorde e spesso decisamente sgraziato, ma proprio per questo adeguato, paradossalmente, all'atmosfera sinistra della musica e delle liriche. Si apre con la straniata recita in latino del "Paternoster", e si procede tra quadretti di vita comune osservati come dietro un velo di assoluta estraneità: è il caso di "Stop These Lines", con l'organo gotico e la chitarra piena di effetti psichedelici di Gerhard Walter a sostenere la voce solista. A parte sporadiche fughe strumentali, come nell'attacco ritmico di "Old Danube", col basso in evidenza insieme all'organo, la musica procede come in stato di trance, assecondando umori molto neri. Esemplare in questo senso è "Blind Children", sempre con l'organo da chiesa in primo piano insieme al canto angosciato, e ficcanti inserti ritmici nel mezzo che spezzano solo temporaneamente il "mood" disperato del brano. Il testo di "The Pope is Wrong" aggiunge una nota di sprezzante antipapismo alla ricetta, secondo una tendenza diffusa nell'underground tedesco, mentre l'epilogo di "Mammoth Opus 0" ripropone la miscela gotico-barocca del disco su basi più vivaci, con insistite variazioni dell'organo fino al termine. A prescindere dalla prova del cantante, il disco dei Paternoster resta un esempio di prog psichedelico dalle tinte particolarmente cupe, non privo di suggestione: merita un ascolto, pur senza guadagnarsi il titolo di album fondamentale. CD a cura di Ohrwaschl Records. |
"Paternoster" |
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Quello dei Patto è il classico esempio di una band di grande talento stranamente mai giunta al successo. A formarla sono appunto il cantante Mike Patto e il chitarrista Peter Halsall, già insieme in band inglesi minori, affiancati da Clive Griffiths (basso) e John Halsey (batteria). In questa formazione il gruppo incide il primo disco omonimo (![]() ![]() |
"Hold your fire" |
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Formato a St. Louis nel 1973 dal batterista Mike Safron, questo gruppo a lungo dimenticato, che si richiama nel bizzarro nome allo scienziato russo premio Nobel nel 1904 per le sue ricerche sul riflesso condizionato, ha realizzato uno dei migliori dischi in stile progressive pubblicati negli Stati Uniti nel corso dei Settanta. In effetti, un album di debutto come "Pampered Menial" (1975)![]() |
![]() "Pampered Menial"
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Anche il Perù ha sfornato alcuni gruppi interessanti in ambito rock e psichedelico, con una singolare predilezione per quello più duro, già a partire dall'ultimo scorcio degli anni Sessanta. I Pax, una band formata a Lima nel 1969 dal chitarrista Enrique "Pico" Ego Aguirre (ex-Los Shain's), fanno parte appunto di questa nuova ondata che ebbe vita piuttosto breve, pur lasciando un segno nella scena sudamericana. Dopo un primo 45 giri come "Resurrection of the Sun" / "Firefly" (1969) il gruppo si stabilizza come quintetto, incluso il bassista e chitarrista americano Mark Aguilar, e pubblica nel 1972 il suo primo e unico album per l'etichetta Sono Radio: "May God and Your Will Land You and Your Soul Miles Away". Sono otto tracce perlopiù improntate a un vibrante hard rock chitarristico, con apporti solo sporadici di piano e organo, oltre a qualche isolato spunto melodico più vicino alle radici latine. Bisogna sottolineare che il quintetto non mostra nessun complesso d'inferiorità verso certe sonorità anglo-americane, come si vede dall'attacco di "A Storyless Junkie", torrido episodio dominato dalla vibrante chitarra solista di Aguirre e ben cantato dal grintoso Jaime Orue Moreno, e poi ancora nella cadenzata e oscura "Deep Death", dove la sei corde è affiancata dalle note psichedeliche dell'organo. Nella stessa scia scorre pure "Pig Pen Boogie", con riff in serie e un gran lavoro di batteria, mentre "Rock an' Ball" è un rock'n'roll quasi da manuale, col piano suonato a martello sotto la chitarra, ma nella sequenza c'è spazio anche per altri sapori. È il caso soprattutto della delicata "For Cecilia", una melodia sviluppata sulla chitarra acustica e sorretta dagli archi fino al solo elettrico in coda, e poi di un brano intrigante quale "Green Paper", ancora con la chitarra acustica in evidenza e le voci quasi in stile west-coast. Più canonico, comunque efficace, invece è il rock abrasivo di "Sittin' on My Head", nel quale trionfa una chitarra davvero alla Hendrix, e la solita voce energica in primo piano. Senza essere un capolavoro, il disco dei Pax ha il merito di aver accompagnato la musica rock peruviana verso nuovi orizzonti, in un'epoca anche storicamente difficile per la cultura giovanile del paese (dal 1968 caduto sotto la dittatura militare del generale Alvarado), e anche se penalizzato forse, a tratti, da una qualità di registrazione non impeccabile, può stupire piacevolmente l'ascoltatore. Varie le ristampe, in CD e vinile, con bonus-tracks che includono i singoli e anche covers di pezzi famosi: da "Dark Rose" (Brainbox) a "Smoke on the Water" (Deep Purple). | ![]() "May God and Your Will Land You and Your Soul Miles Away" |
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Un gruppo francese formato a Belfort nel 1971, responsabile di un solo ma apprezzato album nella sua breve storia. Il quartetto arriva in sala di registrazione anche per l'appoggio di Christian Decamps (Ange) in veste di produttore, e "La Clef Des Songes" (![]() |
![]() "La Clef Des Songes" |
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Una delle tante band senza infamia e senza lode del pop italiano, venuta fuori oltretutto quando il progressive aveva già offerto le sue cose migliori. Il gruppo è originario di Sondrio, e prende corpo nel 1976 dall'unione di musicisti attivi da qualche anno in band minori della zona. L'unico album conosciuto della Pentola di Papin (vale a dire la pentola a pressione) è "Zero - 7", pubblicato nel 1977 dalla piccola etichetta Disco Più. La mediocre qualità della registrazione non aiuta certo ad apprezzare la musica proposta, ma in ogni caso il pop-rock di questo quartetto (tastiere/voce, chitarra, basso e batteria) dominato dalle tastiere di Ferruccio Bettini e dalla chitarra elettrica di Angelo Benatti, con qualche effetto fin troppo ridondante di synth (ad esempio "Introduzione" o "Stacco I"), ripercorre largamente modelli già affermati del progressive italiano più noto, senza mai trovare soluzioni davvero originali. Il disco si compone di sette brani piuttosto disomogenei, caratterizzati da parti vocali fin troppo melodiche e testi in stile quasi cantautorale, a tratti, senza spunti strumentali di particolare rilievo. Dopo la pubblicazione del disco, passato inosservato, e in assenza di una significativa attività live al di fuori del circuito locale, del gruppo si perdono in fretta le tracce. La ristampa digitale della Vinyl Magic (1993) presenta una copertina diversa da quella del 33 giri originale. |
"Zero - 7" |
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Effimera meteora della scena psichedelica giapponese, il progetto People nasce dall'incontro di cinque artisti attivi nel rock nipponico, tra i quali spicca il noto chitarrista Kimio Mizutani. Il titolo dell'album, "Ceremony ~ Buddha Meet Rock", pubblicato nel 1971, dice tutto sulle intenzioni del gruppo: trovare un punto di contatto tra lo spiritualismo buddista e il linguaggio del rock, in questo senso collegandosi al fenomeno delle Messe Beat tipiche degli anni Sessanta e al rock d'ispirazione religiosa. Ovviamente la chiave musicale è qui prettamente orientale: le otto tracce privilegiano infatti l'aspetto ipnotico-estatico, con pochi temi elementari portati a lenta saturazione per ingenerare il classico effetto di "trance" che, per certi versi, si concilia bene con il rock psichedelico. Nella lunga "Shomyo-part 1", ad esempio, il suono del gong e delle percussioni di Rarry Sunaga introduce una sorta di mantra scandito dalla chitarra solista di Mizutani e dal coro salmodiante l'invocazione riferita al celebre Sutra del Loto ("Nam myoho renge kyo") capace di portare all'illuminazione, mentre sullo sfondo rintocca il timbro ossessivo dell'organo di Yusuke Hogucki. Un episodio che cattura il nucleo vero di tutta l'operazione, nei pregi come nei limiti. E' una sequenza ricca di pause e sfumature, nella quale il silenzio vale quanto le voci e il suono, ma che può risultare anche indigesta. "Flower Strewing" è un brano esemplare: ancora le percussioni, con l'apporto più rarefatto del chitarrista, sostengono il coro fino al termine e senza variazioni. In "Gatha" Mizutani si destreggia anche al sitar, introducendo una nota ancora più esotica nell'atmosfera generale, mentre privilegia la chitarra acustica in "Prayer-part 1", dove si ascoltano anche note frammentarie di pianoforte. Il rovescio di questo clima spirituale, a suo modo coerente e rigoroso, è invece "Prayer-part 2", una sorta di estasi erotica dove un tessuto rock molto corposo, con Mizutani in grande spolvero, si accompagna ai gemiti orgasmici delle voci femminili, subito prima della chiusura di "Epilogue", dominata dai suoni naturali in un crescendo orchestrale. Il disco firmato dai People rimane un episodio indubbiamente minore del rock nipponico, ma anche una chiara testimonianza di quello spirito di contaminazione, a volte iconoclasta, che ha nutrito la musica degli anni Settanta. CD Phoenix Records. |
"Ceremony ~ Buddha Meet Rock" |
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Sicuramente la più famosa band romena degli anni Settanta, i Phoenix si formano a Timisoara nel lontano 1962. Il primo nome è Sfintii (Santi), poi cambiato perché il regime comunista non vuole riferimenti religiosi. Guidato da Nicolae Covaci (chitarra e voce) il gruppo incide i primi singoli intorno al 1965, in una chiave beat ispirata ai gruppi inglesi dell'epoca. Dopo due EP tra il 1968 e il 1969 che accrescono la loro fama in patria, dal 1970 il gruppo si avvicina prima a suoni blues-psichedelici e quindi ad un folk intriso di paganesimo e mitologia, collaborando non a caso con l'istituto di etnografia dell'università di Timisoara. Un primo risultato è l'album "Cei ce ne-au dat nume" ("Quelli che ci hanno dato il nome") uscito nel 1972. Il quintetto allinea undici tracce tra folk e rock, con vivaci intrecci chitarristici che insieme alle voci in lingua madre danno vita a un paesaggio sonoro affascinante. Spiccano la misteriosa "Jocul Timpului", dominata dal flauto dolce di Covaci, la ficcante "Introducere", col basso di Iosif Kappl in evidenza, e il cadenzato rock di "Vara", fino allo splendido trittico finale. "Nunta" è un hard rock che impasta le voci corali e le chitarre acide di Covaci e del cantante Mircea Baniciu. Il violino di Kappl si ascolta in "Negru Voda - Balada", imprevedibile mistura di folklore, rock'n'roll, melodia e improvvisazione, e trascinante è pure la finale "Pseudo-Morgana", caratterizzata dal basso. Il versatile talento del gruppo, tanto famoso quanto inviso alla censura, che vieta la realizzazione della rock-opera "Mesterul Manole" (a parte un EP uscito nel 1973), si conferma con "Mugur de fluier" (1974), disco maturo e riflessivo che lascia emergere il lato folk e sonorità più composite. Scandita dalle cinque riprese di "Lasa, Lasa", la sequenza affina le parti vocali ("Strunga"), coniugate spesso a una ritmica battente ("Pavel Chinezu, leat 1479"), con le chitarre in primo piano insieme alle percussioni. Si segnalano la trascinante "Muzica si muzichie", e l'uso del flauto dolce nella melodica title-track, mentre l'epilogo di "Dansul codrilor" ("Danza dei boschi") è un ficcante folk-rock elettrico che porta al proscenio il violino di Kappl in un crescendo che lascia il segno per la voce di Mircea Baniciu e il lavoro creativo del basso. L'apogeo dei Phoenix resta comunque il successivo "Cantafabule"(![]() |
"Cantafabule"
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Il nome dei Pholas Dactylus (che è poi quello di una conchiglia) resta legato a uno dei progetti musicali più affascinanti della scena progressiva italiana. La band prende forma nel 1972 tra musicisti d'area lombarda attivi fin dagli anni Sessanta in gruppi minori come Puritani e Macus 67: la formazione assume dapprima il nome di Spectre e quindi opta per la sigla definitiva, cominciando a esibirsi con immediato successo nei festival pop dell'epoca. Oltre al Davoli Pop di Reggio Emilia, resta memorabile soprattutto la loro partecipazione al Meeting Pop Festival di Genova del 1972, dove si esibiscono per due serate di fila su richiesta dello stesso pubblico in delirio. Notati a questo punto da Vittorio De Scalzi, l'album d'esordio viene pubblicato per la sua etichetta Magma: "Concerto delle menti" (![]() |
"Concerto delle menti" |
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A cominciare dalla dedica del primo disco a tale Roberto Viatti (buffa italianizzazione per il grande Robert Wyatt), l'esperienza dei genovesi Picchio Dal Pozzo si configura come un esplicito omaggio alla scena musicale di Canterbury. Nel quartetto di base spiccano i fiati di Giorgio Karaghiosoff e le tastiere di Aldo De Scalzi, coadiuvati da Andrea Beccari (basso e corno) e Paolo Griguolo (chitarre): ma con loro suonano diversi ospiti del giro genovese, come Vittorio De Scalzi (flauto) e membri dei Celeste (Ciro Perrino e Leonardo Lagorio), oltre a Pucci Cochis dei Jet. Strutturato in otto episodi, il primo album omonimo(![]() |
"Picchio Dal Pozzo" |
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Personaggio minore del pop italiano, Piero Cotto si guadagna comunque un piccolo posto nelle cronache musicali degli anni Settanta. Originario di Asti, sul finire dei Sessanta il cantante vive negli States, dove suona la chitarra in una formazione chiamata Majority One. Terminata quell'esperienza e rientrato in Italia, Cotto mette insieme un suo gruppo e nel 1972 realizza il 45 giri "Due delfini bianchi"/"Via Mazzini 31" per la Joker: grazie alla partecipazione del pezzo al Disco per l'Estate, lo stesso anno viene quindi realizzato l'album "Il viaggio, la donna, un'altra vita", uscito per l'etichetta Music (Saar). Il disco si compone di nove tracce, tutte comprese tra i tre e i cinque minuti di durata: si tratta senza dubbio di canzoni, lontane dalle ambizioni altisonanti del progressive vero e proprio, ma in ogni caso gradevoli perché suonate con discreta vena dalla formazione. La felice vena melodica di Cotto, cantante dal timbro ruvido che un poco lo avvicina al primo Ivano Fossati e simili, è l'ombelico vero della sequenza: i suoi musicisti mostrano comunque un certo spessore, anche all'interno d'un disegno sonoro molto unitario. Interessante il lavoro del tastierista Adelmo Musso in "Silvia", per l'uso del synth, e soprattutto in "Cantico", un crescendo di bella intensità drammatica costruito sul pianoforte, dove il leader fa valere le sue doti vocali affiancato dal coro femminile, e si ascoltano prima il flauto e quindi la chitarra elettrica di Aldo Russo nel finale. Probabilmente è l'episodio più felice dell'album, ma di livello apprezzabile sono pure "E' mia madre", denso di riferimenti biografici e venato di nostalgia, ancora con il ficcante flauto di Maurizio Scarpellini in evidenza, o anche la title-track, costruita sulle chitarre e le percussioni di Luciano Saraceno, con il flauto delicato in appoggio: nel testo si coglie in pieno lo spirito nomade e genuinamente libertario di un'intera generazione. Gli altri brani sono tipici esempi di pop melodico, a volte datati per l'uso intensivo di coretti e stilemi strumentali, proposti però con buon mestiere, come "Due delfini bianchi", sostenuta da un ritmo trascinante e dalla valida interpretazione di Cotto, o anche "Regina d'Oriente". Tra il 1973 e il 1974 escono due altri singoli, prima che la band si disperda. Cotto prosegue da solista, e dopo un singolo portato a Sanremo ("Il telegramma", 1975), pubblica un disco cantato in inglese e intitolato semplicemente "Piero Cotto" (1978). In seguito collabora con il gruppo Gialma 3, in occasione dell'album "Gialma Planet" (1982), ed oggi è ancora attivo come cantante. Ristampa a cura di AMS. |
"Il viaggio, la donna, un'altra vita" |
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Fondati nei primi anni Settanta, i romani Pierrot Lunaire costituiscono l'ala più colta del progressive italiano. Vengono alla ribalta nel 1974 con un disco omonimo piuttosto interessante, che non a caso richiama fin dalla sigla la musica di Arnold Schoenberg. Con una formazione triangolare basata sulle ricche tastiere di Arturo Stalteri, le chitarre di Vincenzo Caporaletti e l'organo e la chitarra di Gaio Chiocchio (autore principale del materiale) il gruppo si destreggia tra suggestioni elettroniche e composizioni di forte influenza classica ("Ouverture XV"), col pianoforte in evidenza specie in "Lady Ligeia". Non mancano però momenti più sperimentali a struttura aperta, come "Arlecchinata" e "Mandragola". È un'opera prima eterogenea e non sempre calibrata, ma piena di idee e visioni, con liriche trasognate dai riferimenti esotici e letterari ("Raipure", ad esempio), e una certa freschezza di fondo. Dopo l'uscita di Caporaletti, che si dedica principalmente al jazz prima di trasferirsi più tardi negli Stati Uniti, e l'arrivo in organico della soprano gallese Jacqueline Darby, esce il secondo disco a nome del gruppo, cioè "Gudrun" (![]() |
"Gudrun" |
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Uno dei molti gruppi minori, e spesso dimenticati, della scena italiana dei primi anni Settanta, i Ping Pong si formano tra Bologna e Modena, e schierano tra gli altri il bassista inglese Alan Taylor. Il disco d'esordio "About Time" è pubblicato nel 1971 per una piccola etichetta e interamente cantato in lingua inglese. E' una raccolta di dieci pezzi piuttosto brevi, dominato da flauto, sax e pianoforte, in una miscela alterna di rock, pop, jazz: oltre alla vivacissima title-track iniziale, segnata da un flauto davvero pirotecnico, si segnalano "Dark Morning Skies", ben cantata da Taylor, e la chiusura in chiave jazz dello strumentale "Funny Wife", ancora col sax in evidenza insieme alla batteria. Meno efficaci e irrisolte, invece, un paio di morbide ballate in scaletta. A differenza di questo primo disco, il secondo album omonimo (1973) è stato ristampato su CD da Mellow Records: ora la musica del sestetto, stavolta con i testi cantati in italiano, oscilla piacevolmente tra momenti più leggeri e altri strumentalmente più validi, con richiami al prog vero e proprio e accattivanti sfumature jazz. Nel filone più chiaramente pop e melodico rientrano ad esempio l'apertura de "Il miracolo", valorizzata però da un testo di spessore, e poi la più scherzosa "Caro Giuda", che chiude la scaletta. Altri pezzi offrono invece una dimensione più complessa, sicuramente apprezzabile, come la lunga "Suite in 4 tempi", con la sua atmosfera sofisticata, quasi sospesa, e liriche in tono: il pianoforte di Celso Valli e la chitarra di Mauro Falzoni, insieme alla ritmica, seguono qui una scansione tipicamente jazz, supportati a dovere dai fiati di Paride Sforza, soprattutto flauto e sax. Altri titoli, in particolare "Il castello", suonano invece come un singolare punto d'incontro tra le diverse anime del gruppo, con il grintoso motivo melodico s'una base rock che viene spezzato ad arte dalle staffilate del sax. Resta insomma dominante una vena leggera, ma raffinata e tutt'altro che banale, anche per le buone parti vocali di Giorgio Bertolani: piuttosto intrigante in questo senso è l'atmosfera di "Viene verso di me", articolata sulla chitarra acustica, il vibrafono e l'organo, con improvvise accelerazioni interne e i picchi espressionistici del flauto nel mezzo. Alla fine, seppure disuguale nei toni, il disco è di piacevole ascolto e suonato come si deve, ma di non facile collocazione nell'ambito del progressive italiano più canonico. Dopo lo scioglimento, tutti o quasi i componenti del gruppo si ripresenteranno a partire dal 1975 sotto la nuova sigla Bulldog. In seguito, il tastierista Celso Valli si è affermato come rinomato autore, arrangiatore e produttore, con numerose collaborazioni di prestigio nel mondo del pop italiano: da Mina a Renato Zero, passando per Laura Pausini, Eros Ramazzotti, fino a Bocelli e Vasco Rossi. |
"Ping Pong" |
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A lungo circondati dal mistero, i Planetarium sono un'effimera formazione italiana che realizza il solo album "Infinity", pubblicato dall'etichetta Victory nel 1971, dal quale furono tratti anche due 45 giri. La band nasce sulle ceneri del gruppo beat Gli Scooters, originari di Ovada, che tra il 1965 e il 1970 realizzano diversi 45 giri (tra cui "Le pigne in testa") e ben due album come "Sentimental" (1968) e il live "Gli Scooters alla Capannina" (1969). Sciolto il sodalizio, Alfredo Ferrari (tastiere), Mirko Mazza (chitarra), e Franco Sorrenti (chitarra solista) formano poi i Planetarium insieme al batterista Giampaolo Pesce e al bassista Piero Repetto, entrambi ex-Miguel: è appunto questa la formazione che realizza "Infinity". Il disco è interamente strumentale e ha una strana impostazione di fondo, descrittiva e orchestrale, che comunque riesce abbastanza suggestiva anche per la discreta qualità dei musicisti. Gli otto titoli in inglese alludono alle diverse fasi della vita sulla terra prima e dopo la comparsa dell'uomo, secondo una sintetica cronologia ideale (da "The beginning" a "Infinity"), mentre la musica si sviluppa tra momenti lirici ("Love", con pianoforte e archi protagonisti), improntati a una certa solennità, e altri appena più mossi o decisamente drammatici (come "War", con tanto di allarme antiaereo e ritmo marziale), ma sempre con un certo senso della misura e un discreto equilibrio tra le parti. In primo piano soprattutto l'organo, il pianoforte e il flauto, con morbidi inserti della chitarra elettrica di Mirko Mazza ("Life" ad esempio), e più spesso di chitarra acustica. Anche per via del largo uso di effetti sonori (pioggia, vento, armi automatiche) il disco somiglia alla colonna sonora per un documentario sulle tappe della storia umana. E' un episodio piuttosto anomalo della stagione progressiva italiana, senz'altro minore, ma nel complesso decisamente gradevole e rilassante, oltre che prodotto a dovere. La ristampa digitale è della Vinyl Magic, ma esiste anche una riedizione in vinile della colombiana Real. |
"Infinity" |
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Questa formazione canadese, del Quebec francofono, passa come una meteora nelle cronache musicali dei Settanta, anche se l'unico album inciso mostra talento e idee di grande valore che avrebbero meritato miglior sorte. A fondare i Pollen nel 1972 sono il cantante Tom Rivest e il chitarrista Richard Lemoyne, che si stabilizzano poi in quartetto per una serie di raffinati spettacoli che li impongono all'attenzione del pubblico locale. Dopo un tour in Quebec nel 1975 di spalla ai Gentle Giant, il gruppo realizza finalmente l'atteso album omonimo (![]() |
"Pollen" |
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Tra le molte proposte che arrivano dalla ex-Jugoslavia si segnalano anche i Pop Mašina ("macchina pop"), una formazione che nasce a Belgrado nel 1972 come quartetto, per trasformarsi poi in un classico power-trio. Nell'album di debutto intitolato "Kiselina"(![]() |
"Kiselina" |
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Uno dei molti gruppi tedeschi di seconda fascia, i Poseidon vengono da Karlsruhe e lasciano alle cronache del prog un solo album di medio valore. All'origine c'è una band di nome Prussic Acid, messa insieme nel 1969, che dopo varie traversie si compatta intorno alla nuova sigla per incidere "Found My Way" (1975), prodotto e pubblicato in proprio in circa mille esemplari. Nonostante tutto, il disco gode di una discreta qualità d'incisione e il quintetto mostra buone qualità di base, oltre a un affiatamento che viene dalla lunga esperienza comune. I sei brani dell'album mostrano la predilezione per un progressive morbido dai contorni melodici, con i testi in inglese e in generale un'ispirazione musicale priva di grosse sorprese, ma indubbiamente orchestrata con cura intorno alle tastiere di Tony Mahl e alla chitarra solista di Theo Metzler. Fin dall'iniziale "The Trip", i Poseidon scelgono uno stile pacato, attento alle sfumature come allo sviluppo melodico del tema, con moderate accelerazioni ritmiche all'interno dello schema. Oltre al lento crescendo di "Swimming Against the Stream", tra voci corali ed effetti di sintetizzatore, si segnala un episodio vivace come "How Heavy the Days", con la chitarra in evidenza e interessanti cambi di tempo. Il synth domina anche lo strumentale "Surprise" insieme al basso, mentre la chitarra di Metzler trova sonorità "floydiane" nel brillante epilogo di "Found My Way", prima di lasciare ancora spazio alle tastiere in una serie di godibili variazioni. La ristampa digitale della Garden Of Delights(2001) include ben otto bonus-tracks registrate dal vivo. |
"Found My Way" |
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I torinesi Procession incidono due dischi nella prima metà dei settanta e poi escono di scena. Il gruppo (due chitarre, basso, batteria e voce solista) fa il suo esordio discografico con "Frontiera" (1972), un classico concept realizzato per l'etichetta Help e dedicato al problema dell'emigrazione interna, molto sentito in quegli anni, basato sui testi di Marina Comin. Quello offerto dal quintetto nelle nove tracce del disco è un rock schietto e frontale, dominato dalle chitarre elettriche di Marcello Capra e Roby Munciguerra, insieme alla buona voce di Gianfranco Gaza, in brani prossimi all'hard rock, suonati con il giusto pathos: soprattutto "Uomini e illusioni" e le due parti di "Solo", oltre alla più articolata "Un mondo di libertà". Non manca tuttavia qualche brano dall'atmosfera più delicata, come "Anche io sono un uomo", stavolta con l'apporto episodico del mellotron. Un discreto esordio, comunque, anche se accanto alle parti più convincenti e grintose non mancano punti deboli, tra ingenuità e piccole sbavature. Due anni più tardi, dopo alcuni avvicendamenti in organico, i Procession pubblicano con la Fonit un secondo album come "Fiaba". In questo caso, il gruppo cerca soluzioni più sofisticate con l'innesto tra l'altro del percussionista Francesco Froggio Francica (ex RRR) e di flauti e sax (Maurizio Gianotti): la musica acquista così una duttilità strumentale di stampo fusion, come si nota già nel brano d'apertura "Uomini di vento", distante dal grintoso e genuino hard prog degli esordi. Più vario e curato del precedente, spesso acustico, il disco non è sempre convincente, ma sicuramente interessante. Vanno segnalate in particolare le belle liriche e l'atmosfera suggestiva di "Un mondo sprecato", e quindi la trama strumentale di "Notturno", con efficaci parti di flauto, chitarra acustica e synth. In coda a "C'era una volta", episodio favolistico con il sax protagonista, c'è da segnalare la magnifica performance vocale di Silvana Aliotta (già Circus 2000). Dopo lo scioglimento della band nel 1975, Gaza farà parte poi degli Arti + Mestieri al tempo di "Giro di valzer per domani". Una nuova edizione del gruppo, capeggiata dal chitarrista Roby Munciguerra, ha poi realizzato l'album "Esplorare" nel 2007: contiene gran parte del vecchio materiale rieseguito ex-novo, più una traccia inedita. Nel 2012 è uscito anche "9 gennaio 1972", una vecchia registrazione live della band. Marcello Capra, lasciati i compagni dopo il primo disco, ha intrapreso una originale carriera da solista, privilegiando stavolta la chitarra acustica, come nel primo album a suo nome, "Aria mediterranea", uscito nel 1978. Numerose anche le sue collaborazioni, e dagli anni Novanta fino ad oggi altri dischi di buon riscontro critico: tra questi "Imaginations", quindi "Preludio ad una nuova alba", fino al più recente "Fili del tempo" (2011). |
"Frontiera" |
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Gruppo tedesco di Bottrop, nel bacino della Ruhr, formato nel 1973 col nome di Prosper I. Per un paio d'anni si susseguono diversi cambi di organico: tra gli altri fa parte della band anche Jürgen Pluta, che poi entra come bassista nei Wallenstein. La fase successiva inizia nel 1975, con la sigla ridotta semplicemente a Prosper, e un nuovo quintetto che ruota intorno al chitarrista Evert Brettschneider, già membro dei Contact Trio, e al tastierista Ernst Müller, che firmano gran parte del repertorio. L'esordio è sempre del '75, quando viene realizzato l'album "Broken Door" (![]() |
"Broken Door" |
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Una delle glorie del prog sudamericano anni Settanta, i Psiglo (la "p" iniziale vuole associare "secolo" con "psicologia" e "psichedelia") si formano a Montevideo nel 1970 e si fanno conoscere con un singolo emblematico come "En un lugar un niño/Gente sin camino", pubblicato nel 1972. Subito il gruppo uruguagio esibisce un hard-rock melodico di eccellente qualità tecnica ma soprattutto una forte impronta socio-politica nei testi, ben interpretati da Ruben Melogno. Un secondo 45 giri (ancora del '72) fa da preludio al primo album realizzato dal quintetto, "Ideación" (1973). Otto episodi dove il piglio rock grintoso e trascinante del quintetto, fin dall'iniziale "Siénteme", si coniuga con delicate proposte melodiche: ad esempio la dolce "Catalina", con l'apporto degli archi. Nella scaletta spiccano i mordenti riff chitarristici di Luis Cesio ("En un lugar un niño" e la conclusiva "Piensa y lucha" soprattutto), oltre alla notevole presenza di un vocalist duttile e potente come Melogno, che caratterizza fortemente ogni brano. Intensa anche "No pregunten por qué", dolente denuncia di miseria e degrado, con le percussioni e la chitarra acustica protagoniste intorno alla voce solista, mentre lo strumentale "Nuestra calma", dominato dall'organo di Jorge García, recupera atmosfere alla Santana meno convincenti. Il secondo album del gruppo è "Psiglo II"(![]() |
"Psiglo II" |
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