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B-BI
Bakerloo Bakery Baffo (J.B.) Banfi Banzaï Barclay James Harvest Baricentro
I Baronetti Luciano Basso Franco Battiato Beggars Opera Bella Band Ben Biglietto Per l'Inferno Birth Control
L'onda lunga del British blues a cavallo di Sessanta e Settanta ha originato una serie di esperienze decisamente interessanti, spesso arricchite dai fermenti del nascente progressive: i Bakerloo sono una di queste, anche se la loro parabola è davvero brevissima. Nascono come Bakerloo Blues Line nel 1968 ad opera del brillante chitarrista Dave Clempson, che alla fine si ritrova con il bassista Terry Poole e il batterista Keith Baker: accorciata poi la sigla, il trio realizza prima un 45 giri e quindi il primo album omonimo () per la Harvest, sempre nel 1969. Tra le sette tracce del disco non mancano certo espliciti richiami al blues più canonico con tanto di chitarra slide: ad esempio "Bring it Home", con Clempson impegnato anche all'armonica e al canto, ma le perle vanno ricercate altrove. Si va dall'attacco scintillante di "Big Bear Ffolly", a "Drivin' Bachwards", breve rivisitazione di Bach, con basso, chitarra, batteria jazzata e la tromba dell'ospite Jerry Salisbury a esprimere compiutamente la tendenza imperante alla contaminazione. Nei brani più estesi questo fermento si palesa ancora meglio: "Last Blues", in particolare, parte come classica ballata e poi vira a un torrido rock-blues ch'esalta le doti strumentali di Clempson e della sezione ritmica, mentre "Gang Bang" è un martellante esempio di hard rock che poi si apre, a sorpresa, sulle percussioni di Baker lanciate in un assolo chilometrico. La chitarra solista torna protagonista nel lento incedere di "This Worried Feeling", maestoso blues con la voce e il pianoforte ben integrati nel disegno. Dove il trio sbriglia davvero le sue potenzialità è però nell'atto conclusivo di "Son of Moonshine": quindici minuti di hard-blues stradaiolo e nervoso tra il basso pulsante, le note lunghe e strappate, il drumming ipnotico che si avvitano a lungo in un clima esasperato di tensione acida, veramente avvolgente. Esaltato dalla critica inglese, Clempson sarà poi reclutato dai Colosseum, ponendo di fatto fine alla breve e memorabile avventura dei Bakerloo, e Poole e Baker vanno a fondare quindi i May Blitz, senza però suonare nei due dischi del gruppo. Varie le ristampe in CD con bonus-tracks, ma anche in vinile da Akarma. |
"Bakerloo" |
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Formazione australiana, i Bakery si formano a Perth nel 1970. La band realizza nel 1971 un primo singolo per la RCA: il lato A offre una cover di "Bloodsucker" (Deep Purple), che svela subito l'influenza dell'hard rock inglese della prima ora. Subito dopo, il gruppo è scritturato dall'etichetta Astor di Melbourne per la quale esce un secondo singolo come "No Dying in the Dark / Trust in the Lord" (Luglio 1971), che riscuote un buon successo e fa da apripista al primo album pubblicato in Agosto, "Rock Mass for Love", che però suona davvero molto diverso. Si tratta di una vera e propria messa, registrata nella cattedrale St. George di Perth, con preghiere e sermoni che si alternano alla musica: è un esempio del cosiddetto Rock di Dio ("God Rock"), inserito in quella tendenza di rock cristiano che troverà la sua consacrazione nel famoso musical "Jesus Christ Superstar", e di grande seguito anche in USA. Ascoltato oggi, tuttavia, il risultato complessivo è imbarazzante, oltre che noioso. Gli spunti sonori, basati sull'organo e il piano di Rex Bullen e la discreta voce di Tom Davidson, sono anche interessanti (ad esempio la grintosa "Consider the Havens"), ma le parentesi predicatorie spezzano la necessaria continuità stilistica in maniera irritante. A volte preghiere e musica convivono, come in "The Lord's Prayer", dove brillanti inserti di jazz-rock fiatistico non riescono però a legare con l'enfasi predicatoria. La fresca chiusura di "Do You Really Care", un rock-blues alla Cream, non riscatta un disco che oggi suona davvero datato. Comunque sia, i Bakery cambiano subito strada e con Mark Verschuer voce solista al posto di Davidson, il quintetto realizza un album di "hard prog" decisamente superiore: si tratta di "Momento" (), pubblicato nel 1972. Sette tracce dominate dalla chitarra solista di Peter Walker, con la corposa presenza dell'organo e tracce di blues e psichedelia: ad esempio l'iniziale "Holocaust", a lungo sospesa in una dimensione rarefatta e ipnotica, con piano e sax in evidenza prima che Walker sfoderi la sua buona tecnica chitarristica. Il pezzo forte è "The Gift", grintoso hard rock aperto da solenni note dell'organo di Rex Bullen, e poi sviluppato su cadenze tiratissime con un tour de force del batterista Hank Davis e combinazioni incrociate di chitarra e organo. Bello anche il riff chitarristico di "S.S. Bounce", ben cantata da Verschuer: è una sorta di rock'n'roll melodico molto intrigante, con l'apporto del classico piano a martello. Oltre a un paio di episodi più brevi, come "When I'm Feeling", con tanto di armonica a bocca, spiccano nella sequenza "Living with a Memory", con l'organo in grande spolvero e inserti di flauto, e infine l'ottimo epilogo di "Faith to Sing a Song", con il refrain vocale scandito dai soli pirotecnici del chitarrista e una progressione ad effetto del tema dominante. L'album rimane il miglior prodotto della band australiana, che prosegue la sua attività fino al 1975, quando si scioglie senza altre realizzazioni. CD Radioactive Records. |
"Momento" |
Il tastierista lecchese Giuseppe "Baffo" Banfi (nato nel 1954) fa parte del rinomato Biglietto per l'Inferno per tutta la prima fase, culminata nell'album del 1974. Dopo lo scioglimento del gruppo nel 1975, sviluppa invece un progetto solista già in cantiere da tempo, con un'ispirazione elettronica molto vicina ai corrieri cosmici tedeschi. In totale autonomia, il musicista realizza nel 1978 il suo primo disco di cinque tracce, "Galaxy My Dear" (), dove col nome J.B. Banfi si destreggia con discreta verve tra effetti di ogni tipo e synth come l'ARP 2600. Nella lunga title-track posta in apertura le sonorità avvolgenti delle tastiere si accompagnano a ritmi programmati (Farfisa Rythm Machine), in un flusso ipnotico di buon effetto, che ricorda a tratti Klaus Schulze. Brani come "Audio Emotion" enfatizzano gli echi del cosmo, mentre "Gang" s'inscrive in una trama più frammentaria che però intriga, sostenuta da una pulsazione costante e inserti di piano Fender. L'atmosfera si fa più delicata in un episodio come "Paradox: Streams", una tessitura di suoni che si avvicendano come piccole onde. Aperta da un vento celeste, la sterminata coda di "Goodbye My Little Star" è invece la traccia che più richiama le ardite sonorità dei grandi Tangerine Dream: una sorta di cavalcata astrale, tenuta insieme da una frase ad effetto ripetuta, che si prolunga maestosa e a suo modo incombente, tra interferenze e remote esplosioni. Naturalmente votata a una certa ridondanza, questa musica è un consapevole omaggio ai pionieri teutonici, e lo stesso Schulze, che conosceva Banfi fin dai tempi del Biglietto, apprezzò talmente questo esordio da volerlo nella sua scuderia: infatti il secondo disco del tastierista, cioè "Ma, dolce vita", uscirà nel 1979 per l'etichetta Innovative Communication del maestro berlinese. Firmato stavolta come Baffo Banfi, è un album diverso dal primo e meglio prodotto. Sono cinque episodi ancora basati sui sintetizzatori (Moog Modular System), quattro dei quali pervasi perfino nei titoli da un tono più sereno, quasi melodico a tratti e prossimo alla New Age: ad esempio "Vino, donne e una tastiera", dal ritmico incedere, ma vibrazioni positive arrivano anche dall'incipit di "Oye cosmo va" e dalla gioiosa atmosfera di "Quella dolce estate sul pianeta Venere". Se il breve "Astralunato" ha le cadenze di una vera canzone che utilizza il Vocoder, l'epilogo è invece una traccia lunghissima come "Fantasia di un pianeta sconosciuto", che abbraccia il rigore futurista della cosiddetta Berlin School attraverso una rete algida ma affascinante di suoni artificiali in crescendo, per certi versi già dentro gli anni Ottanta. Nel successivo "Hearth" (1981) suonano anche altri strumentisti, ma è l'ultimo atto della collaborazione tra Banfi e la IC di Schulze. Dopo anni in veste di produttore, il tastierista si ripresenterà solo nel 2015 con "Frontera", disco firmato con Matteo Cantaluppi. Il solo "Galaxy My Dear" è stato ristampato: in CD da Vinyl Magic 2000 e in vinile da Wha Wha Records. |
"Galaxy My Dear" "Gang" |
Formato nel 1971 ad Antwerpen, il gruppo belga Banzaï si stabilizza come quintetto intorno al 1972, guadagnando rapidamente una buona reputazione nei diversi festival dell'epoca, anche in Olanda, dove infatti l'etichetta Delta li mette sotto contratto. Nel 1974 escono sia il singolo "Hora nata"/"Good Morning Life" che l'unico album appunto intitolato "Hora Nata"(). La musica dei Banzaï, sostenuta da una strumentazione molto corposa e un ricco apparato percussivo, ha un'evidente matrice prog-sinfonica, con debiti verso i capiscuola del genere, ma anche con qualche ricordo del Canterbury Sound più morbido. A parte il breve e incalzante episodio d'apertura "You Always Like An Entree?", dove si ascolta anche il sax di François Maes, il resto della sequenza è composto da micro suites piuttosto accattivanti. E' soprattutto la lunga "Obelisk" a denotare il gusto estremamente mosso e variegato della band, tra dinamiche fratture ritmiche quasi in stile fusion, ben sostenute dal bassista Evert Verhees, e belle variazioni sul tema affidate alle tastiere di Peter Torfs e alla chitarra solista di John Mc O, uno strumentista eclettico protagonista in questo caso di un gran finale. In "Hattrick" l'atmosfera rimanda invece ad altre formazioni olandesi dell'epoca, come i Kayak ad esempio, con la chitarra che punteggia vivacemente le liquide tonalità del synth, e una sezione ritmica che asseconda poi gli spunti dell'organo. Un brano come "Try", costruito sul pianoforte di Torfs e il vibrafono, richiama da vicino la lezione degli Yes, specie nelle parti cantate, e nel sontuoso arrangiamento, fitto di sterzate ritmiche e numeri ad effetto dei solisti. Sullo stesso versante si muove la lunga suite "Three Magicians", posta in coda e ancora più magniloquente: le voci trasognate, i preziosismi classicheggianti del tastierista, e i lunghi soli chitarristici compendiano l'essenza del prog-rock più sofisticato del periodo, suonato con gusto. La band belga si scioglie infine nel 1976, dopo un ultimo singolo intitolato "Talking About My Love"/"On The Rocks", in una chiave decisamente più melodica e leggera. In seguito, il solo bassista Verhees rimane musicalmente attivo, come produttore e poi anche animatore di band come The Caravan nei tardi anni Ottanta. Ristampe in CD a cura di Pseudonym. |
"Hora Nata" |
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I BJH sono una formazione inglese di pop sinfonico di grande seguito, soprattutto in patria. Nati nel 1967 a Oldham dalla fusione di due band minori dedite al blues, per circa un anno si fanno conoscere come The Blues Keepers. Adottata quindi la sigla definitiva, realizzano prima un singolo per la Harvest (1968), e finalmente nel 1970 il primo album omonimo: è una sequenza divisa tra rock songs molto tirate con la chitarra elettrica in primo piano, a partire dall'iniziale "Taking Some Time On", e altri brani più ambiziosi, come "When the World Was Woken", che lasciano già intuire il loro debito verso maestri del rock-pop sinfonico come Procol Harum e Moody Blues. Anche senza far gridare al capolavoro, la musica è comunque di buona fattura, come ad esempio in "Mother Dear", dominata da belle armonie vocali e chitarre acustiche, nella cornice orchestrale curata da Robert Godfrey (più tardi con gli Enid), o nella lunga coda sinfonica di "Dark Now My Sky". Il successivo "Once Again" (1971) precisa meglio le caratteristiche del quartetto (chitarra/voce, tastiere, basso e batteria): nella scaletta spicca tra l'altro uno dei maggiori hits dei BJH, cioè "Mooking Bird", lunga e romanticissima ballata di grande effetto, ben interpretata dalla voce di John Lees. Il morbido pop sinfonico del gruppo risalta anche in "Galadriel" e "Happy Old World", a riprova che la vera dimensione della band è questa, come testimonia del resto l'utilizzo, a volte anche invadente, di una vera orchestra sinfonica in tutta la prima fase. Passati quindi all'etichetta Polydor nel 1973, realizzano ancora diversi album di buon livello, a cominciare dal riuscito "Everyone is Everybody Else" (1974), che tra l'altro è il primo a fare a meno dell'apporto orchestrale, e probabilmente anche uno dei loro vertici assoluti. In fondo la ricetta sonora è semplice, ma di sicuro effetto, con pezzi abilmente costruiti su accattivanti melodie rivestite da arrangiamenti maestosi, protagonisti le tastiere morbide di Stuart Wolstenholme e soprattutto i raffinati soli chitarristici di John Lees che aggiungono un tocco inconfondibile. Tra i nove brani della raccolta, soprattutto la solenne "Child of the Universe" in apertura, con piano e synth in evidenza, quindi "Paper Wings", tra chitarre acustiche e mellotron, passando per "The Great 1974 Mining Disaster", davvero evocativa, fino alla splendida chiusura di "For No One", danno la misura del perfetto equilibrio raggiunto. I dischi che seguono, tutti gradevoli e un poco simili tra loro, consolidano ulteriormente lo stile e il nome del gruppo: in particolare "Gone to Hearth" (1977) è un enorme successo commerciale in Germania. Spiccano l'iniziale "Hymn", un lento crescendo ad effetto sull'organo e le chitarre acustiche, la più melodica "Hard Hearted Woman" e il brioso rock chitarristico di "Leper's Song", mentre il gruppo fa dell'autoironia con "Poor Man's Moody Blues" (cioè i Moody Blues dei poveri, come li definiva la critica), facendo quasi il verso alla celebre "Nights in White Satin". Intanto il seguito in patria si fa più tiepido dopo l'album "XII" (1978), l'ultimo inciso con Wolstenholme, poi rimpiazzato da turnisti nei dischi successivi fino allo scioglimento, avvenuto nel 1997. Altre notizie su questa longeva band britannica nel sito ufficiale. |
"Everyone Is Everybody Else" |
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Guidato dai fratelli Giovanni e Francesco Boccuzzi, tastieristi in precedenza artefici dell'isolato progetto Festa Mobile, questo quartetto di origini pugliesi (Monopoli) porta avanti per due album un jazz-rock caldo e colorato, di estrema creatività. Già l'esordio di "Sconcerto" (1976), pur se in parte penalizzato da una produzione non eccelsa, offre già un saggio della loro scintillante personalità. Molte idee, una tecnica eccellente e soprattutto nessun complesso nel mescolare le carte al di là delle formule più abusate, col rischio semmai di confondere un poco l'ascoltatore. Prevalgono in linea generale gli elementi ritmici e spesso trascinanti: in tal senso, si segnalano episodi come "Meridioni e paralleli" o anche la stessa title-track, fino all'epilogo brillante di "Comunque...(Todo Modo)". Nella sequenza però non mancano alcune isole di suggestiva rarefazione, con un uso peculiare del synth, spesso grande protagonista: è il caso della lunga "Lido bianco", con il basso di Tonio Napoletano in bella evidenza, fino alla più breve "Della venis". Con il successivo e ultimo album "Trusciant" (1978), realizzato per la EMI come il precedente, la formazione mostra di aver sviluppato una vena più raffinata e matura, con la felice alternanza di momenti jazz serrati e pulsanti ("Vivo") e altri più meditativi, come "Font'amara", con parti di pianoforte e synth di notevole atmosfera evocativa. Nella ricetta sonora del Baricentro entrano pure spunti di sapore quasi funky-jazz ("Flox" ad esempio), ma anche interessanti richiami a certe sonorità etniche del meridione, come nella bellissima title-track, costruita sul pianoforte e ricca di vivaci breaks in stile folk, ben guidati dalla batteria di Piero Mangini e dal ricco reparto percussivo, dove spicca l'argentino Luis Agudo: lo stesso titolo del disco, del resto, allude all'omonima tribù di zingari della costa pugliese. Nonostante l'indubbia qualità della proposta, l'avventura del gruppo si esaurisce rapidamente dopo un paio di singoli, come "Endless Man" (1978), sigla televisiva di stampo elettronico, e poi anche "Tittle Tattle" (1984), in un mercato discografico sempre meno attento alle musiche più esplorative. Tirando le somme, il Baricentro resta comunque uno dei migliori esempi italiani nell'area della contaminazione tra jazz e rock, purtroppo senza fortuna. Una volta chiusa questa esperienza, Giovanni Boccuzzi rimane molto attivo sia come arrangiatore che compositore, specie per la RCA: scrive colonne sonore e sigle televisive, e si dedica anche all'insegnamento. Le ristampe sono diverse, in CD e vinile. |
"Trusciant" |
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Dal fitto sottobosco del rock-prog italiano dei Settanta vengono fuori a posteriori artisti mai approdati agli onori della ribalta discografica, e che pure raccontano bene il fermento musicale della provincia italiana di quegli anni. Un caso del genere è quello dei Baronetti, formazione che prende corpo a Lecco verso la metà del decennio: tra i componenti spicca il chitarrista e bassista Franco Cefalù, che aveva militato in precedenza nel Laboratorio Nuove Ricerche, altro gruppo dell'area lecchese. Se di questi ultimi, che pure divisero il palco in qualche occasione con i più noti conterranei del Biglietto per l'Inferno, non rimane alcun documento sonoro, dei Baronetti è sopravvissuta invece la registrazione di un concerto tenuto del 1977 a Bobbio Pellice (Torino), da cui è stato appunto ricavato il CD "I Baronetti 1977", realizzato nel 2013 da Giallo Records. Si tratta di sette brani più che sufficienti a mostrare le discrete possibilità del quintetto lombardo, ovviamente influenzato dal prog sinfonico e barocco più celebrato, con particolare riferimento al super trio Emerson Lake & Palmer. Le tastiere di Roberto Isacco sono sempre in primo piano, fin dall'iniziale "Toccata in la maggiore di Paradisi", che ripropone con una certa brillantezza la famosa sonata del compositore settecentesco Pietro Domenico Paradisi (1707-1791), che molti ricorderanno anche come sigla del vecchio Intervallo della RAI. L'altra citazione classica è "Promenade e la grande porta di Kiev", da Mussorgsky, che Keith Emerson aveva riproposto a suo tempo: qui il tastierista è abile a riunire i due diversi episodi, ben supportato dalla batteria di Massimo Pedrazzoli. Tra le tracce firmate dal gruppo spicca la lunga "Preludio - Coniunctio Oppositorum", una mini suite sviluppata sulle trame fantasiose e incalzanti delle tastiere, con un massiccio utilizzo del sintetizzatore e l'ottimo apporto dii basso e batteria. Nella stessa scia classicheggiante di buon livello si inscrive anche "La caccia", mentre nella briosa "Tempo al tempo", oltre al vivace synth di Isacco, si segnala anche la chitarra solista di Cefalù. Se l'epilogo di "Sirio" è una scorrevole fantasia in stile space-rock, l'unico episodio della raccolta che offre parti vocali è "L'alba", con il sognante canto solista di Piero Donato immerso in una corposa miscela tastieristica, tra echi più melodici e mediterranei di buona fattura. Sicuramente non esente da qualche ingenuità, il solo disco postumo dei Baronetti è tuttavia un ascolto interessante per gli appassionati più curiosi. |
"I Baronetti 1977" "Tempo al tempo" |
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Il compositore veneziano Luciano Basso rappresenta il rock progressivo italiano più colto, fortemente debitore della musica classico-sinfonica. Formatosi in Conservatorio, il tastierista realizza con i conterranei de Il Mucchio due 45 giri tra il 1972 e il 1973, prima di dedicarsi alla sua attività solista. Il primo album è "Voci" (), interamente strumentale e pubblicato su etichetta Ariston nel 1976: in un'ottica squisitamente "prog" è sicuramente il suo progetto più noto. Alle sue tastiere si affiancano soprattutto il violino (Luigi Campalani) e la chitarra (Michele Zorzi), oltre a basso, violoncello e batteria e le cinque composizioni suonano come un riuscito punto d'incontro tra la tradizione classica e le formule tipicamente prog, con una fluidità di arrangiamenti che rende l'ascolto sempre interessante. Il pianoforte è spesso in primo piano insieme al violino, come nel "Preludio", episodio che dopo un intro cameristico vira con bella naturalezza verso suggestioni fusion sottolineate da chitarra elettrica e basso. Nelle due "Promenade", l'organo è invece protagonista di serrati fraseggi vicini al rock barocco dell'epoca, impreziositi da inserti di clavicembalo in uno schema di grande tensione ritmica. La seconda "Promenade" incorpora elementi sinfonici e jazz in una scrittura dinamica e cangiante, con gli archi in appoggio ad organo e pianoforte. La summa di questo disco pregevole si ritrova nella lunga title-track, che procede tra pause e riprese sull'onda classicheggiante del pianoforte: ancora da sottolineare nel ricco spartito l'elemento ritmico della batteria (Riccardo Da Par) e la chitarra elettrica elegante di Zorzi. Due anni dopo, Basso si ripresenta con "Cogli il giorno" (1978) : è un lavoro ugualmente affascinante, seppure più impegnativo del precedente. Facendo a meno delle percussioni, l'artista si avvicina ulteriormente alla musica classica, in bilico tra suggestioni sinfoniche, operistiche, ma anche sperimentali e aperte, all'insegna di una vera musica "di confine." Il pianoforte è più che mai lo strumento dominante, fin dalla delicata apertura di "Cogli il giorno I", ma anche nella conclusiva "Aliante", stavolta affiancato dal fagotto, dal sitar e dalla chitarra elettrica in un clima sospeso tra mondi diversi di grande effetto. Il flauto leggiadro di Giorgio Baiocco sale al proscenio in "Mattino?", dominata da un'atmosfera impressionistica che comunica serenità. Se la lunga "Cogli il giorno II" è forse la composizione più sperimentale, con il pianismo di Basso al centro di un fitto reticolo di suoni (sax soprano, archi e sitar), il momento più pregnante sta nella magnifica "Ruotare": in questa solenne partitura si segnala la voce della soprano Uerea Tonetta Badelucco, ma anche i fiati e i breaks di chitarra, con alcuni effetti di synth, contribuiscono al suggestivo risultato. In seguito, a partire da "Frammenti tonali" (1980) e fino al più recente "Free Fly" (2007), il compositore ha continuato la sua attività di ricerca sonora con dischi raffinati e sempre tentando di conciliare fecondamente musica moderna e tradizione. Altre informazioni sulle sue attività nel sito ufficiale. |
"Voci" |
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Un musicista totale come il siciliano Franco Battiato (1945-2021) può anche fare a meno di una etichetta come quella 'progressiva', ma in realtà nessuno come lui la merita per l'atteggiamento sempre aperto alle contaminazioni e al gusto di andare oltre. Trasferitosi a Milano nel 1965, realizza il primo singolo nel 1967 ("La torre/Le reazioni"), senza riscuotere particolari consensi. Gli anni Settanta segnano però il suo riscatto, soprattutto quando viene scritturato dall'etichetta Bla Bla, attenta ai fermenti musicali più innovativi. Il primo album è "Fetus" (1972), con la sua copertina "scandalosa" (un feto appunto), dove la forma canzone viene trasfigurata in una coraggiosa chiave elettronica e sperimentale, acquistando uno spessore inedito. Il disco è un concept basato sul romanzo "Il mondo nuovo" di Aldous Huxley: si segnalano nella sequenza "Cellula", la lunga "Meccanica" e la chiusura più melodica di "Mutazione". Segue quindi "Pollution" (ancora 1972), dove si conferma l'audacia dell'autore, capace di mescolare squarci di musica classica al parlato e al rock ("Il silenzio del rumore"), tra sintetizzatori in libertà e testi recitati al contrario ("Areknames"), rumore puro e derive vocali affascinanti ("Plancton"). Con "Sulle corde di Aries" (1973) Battiato porta a maturazione il discorso in una raccolta più ponderata e temi strumentali di grande suggestione. È un disco più articolato e con numerosi ospiti quali Daniele Cavallanti (Aktuala) ai fiati, e interventi di voci sopranili: l'iniziale "Sequenze e frequenze" è una lunga cavalcata elettronica con un breve testo molto evocativo, mentre la splendida "Da Oriente a Occidente", con il canto accorato e l'atmosfera medio-orientale, sottolinea fin nel titolo il tipico incontro tra due culture che caratterizza l'opera del musicista. La mistura di elettronica, sperimentalismo, tecnica del collage sonoro e liriche al limite del 'non-sense', rendono assolutamente essenziali per ogni appassionato della scena alternativa italiana questi dischi, fino allo stesso "Clic" (1974), uscito anche in versione inglese: è il trionfo dell'elettronica senza confini, una rassegna colta e fantasiosa pur nel rigore delle scelte sonore, come dimostrano episodi di grande effetto, da "I cancelli della memoria" alla famosa "Propiedad prohibida", passando per "No U Turn" e la rarefatta "Nel cantiere di un'infanzia". Dopo lavori sperimentali e molto più ostici (da "M.elle le Gladiator" al rarefatto "L'Egitto prima delle sabbie", del '78), la ricerca dell'artista catanese, che ha esplorato fin qui le più ardite forme musicali, recupera quindi una paradossale immediatezza con "L'era del cinghiale bianco" (1979), l'album della svolta e del successo commerciale. In fondo però, anche qui, tra fascinose atmosfere arabe e citazioni assortite usate come puri suoni, l'idea di 'contaminazione' respira più che mai: lo dimostrano "Il re del mondo" e la fortunata title-track. La tecnica del puzzle sonoro e linguistico in forme di intelligente melodia prosegue in dischi di grande successo che varcano anche i confini, come "Patriots" (1980) e "La voce del padrone" (1981), acquistando una sua inconfondibile leggerezza nella quale pure si avverte continuamente il gusto di sintetizzare anni di ricerca e curiosità. Con "Genesi" (1987) Battiato approda infine all'opera vera e propria, ma spiazzante come sempre sfodera ancora dischi di suadenti canzoni, tra dialetto siciliano e richiami arabi, come il bellissimo "Fisiognomica" (1988), che include un pezzo straordinario quale "L'oceano di silenzio", quindi "Caffè de la Paix" (1993), oppure, a sorpresa, di aggressivo rock elettronico, come nel disco del 1998 "Gommalacca". In seguito, l'artista siciliano ha esordito anche come regista nel cinema ("Perdutoamor", 2003) e ha firmato alcuni apprezzati album di covers, come i tre volumi di "Fleurs", usciti tra il 1999 e il 2008. Tutte le informazioni nel sito ufficiale. |
"Sulle corde di Aries" |
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Beggars Opera - Questa band scozzese formata a Glasgow nel 1969, prende il suo nome dall'opera settecentesca di John Gay, e ha conosciuto una discreta fama al tempo delle prime contaminazioni tra rock e classica. L'esordio di "Act One", pubblicato su Vertigo nel 1970, è un disco che dimostra buona tecnica strumentale, ma poche idee originali: prevale l'aspetto più appariscente, con due pirotecniche riprese del famoso autore di operette Franz Von Suppè, "Poet and Peasant" e "Light Cavalry". L'arrangiamento esalta soprattutto l'organo di Alan Park, specie nel secondo brano, posto in chiusura, ma il picco di questa smania iconoclasta è "Raymond Road", quasi dodici minuti che affastellano in un collage improbabile celebri motivi di Mozart, Grieg e Rossini tra gli altri. Molto meglio "Memory", un frizzante episodio firmato dall'ospite Virginia Scott (mellotron e voce), che preannuncia l'evoluzione del gruppo. I Beggars mettono da parte certo facile effettismo e finalmente fanno valere le loro qualità in "Waters of Change" (1971). Nove tracce mirabilmente equilibrate tra brani lunghi arrangiati con bella fantasia e brevi intermezzi strumentali, dove fanno capolino tracce della nativa Scozia (specie "Lament", che riecheggia antiche cornamuse). Sale in cattedra l'estro di Ricky Gardiner, chitarrista dal riff tagliente, mentre la voce solista di Martin Griffiths si conquista i suoi spazi in "Time Machine" e soprattutto in "I've No Idea", nelle morbide parentesi aperte dal mellotron della Scott, presenza in qualche modo decisiva. E' un progressive melodico esente da forzature, che scorre con bella fluidità corale e piccole invenzioni strumentali. "Festival" è una vivace danza campestre dal passo trascinante e un flauto ficcante, mentre più enfatico e solenne è "Silver Peacock", con un grande lavoro tastieristico di Alan Park e il mellotron ancora seducente. Brillante anche il finale di "The Fox", col suo ritmo serrato, le pause e le ripartenze continue. E' uno dei piccoli gioielli del prog inglese minore, anche se lo stato di grazia dura poco. Il seguente "Pathfinder", del '72, è un disco meno omogeneo, con qualche ammiccamento commerciale di troppo. Sono comunque di rilievo pezzi come "Hobo", con la chitarra e il pianoforte in evidenza, e la consueta perizia melodica che altrove si abbina anche a un rock più grintoso come "The Witch". Curiosa ma efficace anche la cover di Jim Webb, "MacArthur Park", mentre gli altri brani soffrono di un eccesso di riferimenti stilistici (ad esempio "From Shark to Haggies", letteralmente divisa in due), che non giovano all'unità del disco. Dopo "Get Your Dog Off Me!" (1973), con il cantante Linnie Paterson (ex Writing On The Wall) che rileva Griffiths, il gruppo emigra in Germania, dove la band è popolarissima, ed escono un paio di album a cura dell'etichetta Jupiter, a cominciare da "Sagittary" (1974). Gardiner lascia nel '76, e la prima fase termina nel 1980 con "Life Line". Dopo aver collaborato con David Bowie e Iggy Pop, lo stesso Gardiner riprende quindi le redini del gruppo insieme a Virginia Scott e prosegue l'attività anche dopo il 2000 con nuove incisioni: tutte le informazioni nel sito ufficiale. Varie le ristampe oggi in circolazione, in CD e vinile. |
"Waters Of Change" |
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Bella Band - Messa insieme a Firenze verso la metà dei Settanta, la Bella Band lascia alle cronache della musica italiana un solo disco e qualche rimpianto per una parabola interrotta troppo in fretta. In effetti l'esordio di "Bella Band" (), che la Cramps pubblica nel 1978, si riallaccia al migliore jazz-rock tricolore, ma con un mood peculiare che rende l'album ancora oggi molto godibile, senza forzature cervellotiche ma al tempo stesso con un tasso tecnico notevole. La sequenza è interamente strumentale e include quattro sole tracce, ciascuna delle quali dotata di una sua personalità ben definita. Nella bella apertura di "Faidadiesis" è soprattutto il sax di Roberto Buoni a guidare le danze con un motivo che torna a più riprese trascinando poco a poco il resto del gruppo in una partitura aperta dal ritmo nervoso: grande lavoro del basso (Tonino Camiscioni) e della batteria di Mauro Sarti (ex-Campo di Marte), ma si fa apprezzare soprattutto la chitarra solista di Luigi Fiorentini, mentre nella seconda parte spadroneggia il synth pirotecnico di Riccardo Cioni. Se la fusion è sicuramente la cifra dominante, il quintetto inietta nella formula corpose dosi di sonorità vicine al prog che arricchiscono alcuni episodi. Basta ascoltare la più lunga "Promenade", dall'inizio brumoso sul piano elettrico, i fiati e la chitarra, per cogliere a fondo il versatile talento della band: la traccia lievita lenta e ariosa sui fiati e le tastiere, costellata però da breaks e pause atmosferiche dove risaltano le qualità d'insieme e dei singoli, in particolare la chitarra sempre brillante che duetta a lungo col basso prima che il clarinetto torni protagonista insieme alle tastiere nel suggestivo finale. E' probabilmente l'apice del disco, ma i due restanti brani non sono affatto da meno. "Cipresso violento", in coda, procede liquido sui tasti del piano elettrico finché si ravviva in una serie di picchi ritmici coi fiati (sax e clarinetto) ancora in cattedra insieme alle tastiere, mentre "Porotopostrippa sul pero" porta alla ribalta una vigorosa ritmica funky affiancata dal moog di Cioni e dai guizzi di fiati e chitarra dal gusto accattivante. Ancora eccellenti qui il basso e il clarinetto di Buoni, che trova spunti virtuosistici da segnalare. Il disco passa inosservato e la band toscana si scioglie nel 1979, nonostante una buona attività live portata avanti con i nuovi innesti di Fabrizio Federighi al basso e di Daniele Trambusti alla batteria. In seguito, Buoni e Sarti hanno suonato insieme nel gruppo Dennis & the Jets, all'insegna del rock'n'roll più classico. Varie le ristampe in CD. |
"Bella Band" |
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Ben - Dallo storico catalogo Vertigo, ecco un'altra formazione inglese piuttosto misteriosa, che ha lasciato alle cronache un solo album omonimo (), realizzato nel 1971. Il quintetto (fiati, tastiere, chitarra, basso e batteria) si forma nel 1968 e denota una vena decisamente orientata verso un accattivante jazz-rock, senza parti liriche, che ha modo di esaltarsi soprattutto nella lunga suite iniziale "The Influence". Divisa in sette segmenti, e costruita sul basso petulante di Len Surtees, la composizione procede tra pause e mordenti riprese, finché entrano in gioco la chitarra di Gerry Reid, che inanella accordi tipici del jazz, e soprattutto il duttile lavoro di flauto prima e sax poi da parte di Peter Davey, in fondo la vera anima del gruppo britannico, e non a caso firmatario unico degli altri tre brani. Pur senza far gridare al miracolo come altre esperienze coeve del genere, l'intera sequenza si mantiene su livelli più che discreti, senza cadute di tono. "Gibbon", ad esempio, vive ancora sul binomio di fiati, clarinetto incluso, e piano elettrico (Alex Macleery), in lunghe sequenze cerebrali, con una serie di corpose sterzate ritmiche a ravvivare lo schema. Più rarefatta, ma sempre interessante, è "Christmas Execution", incorniciata tra due frasi di flauto e tastiere: i cinque si abbandonano a lunghe improvvisazioni, con il basso a fungere da raccordo, in una parte centrale di bella tensione e ancora dominata dalla chitarra solista. Nel lungo episodio finale di "Gismo", l'unico momento dove compaiono inserti vocali di puro accompagnamento, la tipica musicalità del quintetto torna a dipanarsi con vivacità sotto l'impulso virtuoso del sax, tra improvvise cesure nelle quali si segnalano i fraseggi del piano elettrico, e poi di chitarra e flauto, in un tessuto sonoro di fattura sempre notevole, per tecnica e affiatamento. Alla fine i Ben, dei quali ancora oggi si continua a sapere molto poco, firmano comunque un disco di buon impatto, e sia per le soluzioni timbriche che per gli incroci stilistici messi in campo, anche molto rappresentativo del fervore creativo che animava la scena britannica del tempo. Dopo lo scioglimento precoce della band, nel '71, il batterista Dave Sheen suonerà tra l'altro con i Mirage, altro gruppo inglese di jazz-rock collegato alla scuola di Canterbury. Tra le diverse ristampe oggi disponibili si segnalano quelle di Akarma del 2003, sia in CD che in vinile. |
"Ben" |
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Biglietto Per l'Inferno - Questo rinomato gruppo, che si forma a Lecco nel 1972 dalla fusione di due altre band locali, ha lasciato traccia del suo passaggio nel progressive italiano con un folgorante disco omonimo (). Pubblicato nel 1974 dalla Trident in seguito alla brillante esibizione del gruppo al "Be In" di Napoli l'anno prima, è ancora oggi molto considerato da collezionisti e semplici appassionati di tutto il mondo. La corposa strumentazione comprende due tastiere (Giuseppe Banfi e Giuseppe Cossa), e il sestetto lombardo dimostra soprattutto una straordinaria disinvoltura nel mescolare sonorità morbide e sinfoniche a passaggi d'incisivo hard rock, con una qualità tecnica e una grinta che catturano. La convivenza tra i due registri è stimolante, e frutta momenti davvero emozionanti, come nella celebre "Confessione": pianoforte, organo e la splendida chitarra elettrica di Marco Mainetti si avvicendano in lunghe sequenze mozzafiato, impreziosite dal fantasioso flauto del cantante Claudio Canali e indovinate parti di synth. Questo brano, da solo, giustifica l'acquisto dell'album e insieme spiega la fama che circonda il Biglietto. In realtà è l'intera scaletta che offre ottime cose, in una sequenza priva di punti deboli: "Una strana regina", ad esempio, ancora fitta di spezzature e ripartenze continue, o anche "L'amico suicida", lungo brano dai tempi più dilatati, ma sempre punteggiato da grandissimi dialoghi strumentali, con chitarra e flauto in evidenza, e il piano a supporto in stile jazz. In estrema sintesi, l'album è un esempio di riuscito gioco d'insieme pur nel rispetto dei singoli e della loro capacità d'improvvisare: vale a dire il rock progressivo al suo meglio, integrato oltretutto da liriche assai incisive, percorse a tratti da un forte sapore anticlericale. Imperdibile. Molto apprezzato da critica e pubblico, nonché attivissimo dal vivo, anche in Svizzera, il gruppo lecchese si sciolse però nel 1975 in seguito al fallimento dell'etichetta Trident, e solo nel 1992 è stato pubblicato da Mellow Records un secondo album registrato nel 1975 con la produzione di Eugenio Finardi e mai realizzato all'epoca, nonostante l'interesse dimostrato per il progetto anche dal noto tastierista tedesco Klaus Schulze: si tratta de "Il tempo della semina". Nonostante l'assenza di una vera post-produzione finale, che penalizza soprattutto le parti vocali, è una sequenza ancora notevole: il piglio trascinante di brani come "Viva lotta pensa" o l'atmosfera più pacata di "Solo ma vivo", fino alla lunga title-track, con la chitarra e il flauto in evidenza, confermano in pieno il valore dei lecchesi. Dopo lo scioglimento, il tastierista Giuseppe 'Baffo' Banfi è comunque rimasto attivo, realizzando tre dischi vicini alle sonorità dei cosmici tedeschi, mentre il cantante Claudio Canali è entrato in convento. Solo nel 2009 la formazione è tornata attiva con altri progetti discografici e la nuova denominazione Biglietto per l'inferno.Folk: ad esempio "Tra l'assurdo e la ragione", pubblicato nel 2010, che in realtà propone vecchi brani in una nuova versione. In seguito, stavolta con la vecchia sigla del gruppo, è uscito l'album "Vivi.Lotta.Pensa" (2015). Tutti i dischi comunque sono stati più volte ristampati, sia in CD che in vinile, e nel 2004 la BTF ha realizzato anche il cofanetto celebrativo "Un Biglietto per L'Inferno": 3 CD, un libro e un DVD. |
"Biglietto per l'Inferno" |
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Famosi esponenti del Krautrock, i Birth Control nascono a Berlino nel 1968 e vantano una ricca discografia, seppure altalenante. Dopo un paio di 45 giri nel 1969, il gruppo realizza l'album omonimo l'anno seguente, ma il meglio viene più avanti, a partire da "Operation" (1971), dove l'accoppiata tra l'organo di Reinjhold Sobotta e la potente voce del batterista Bernd Noske firma i momenti più felici: "Just before the sun will rise" e poi "The work is done", fino alla tumultuosa "Pandemonium". Brani dai pesanti accenti hard rock, con tinte dark qua e là, dove si segnala anche il chitarrista Bruno Frenzel. Un po' fuori contesto, invece, il clima orchestrale della finale "Let us do it now", coi fiati in evidenza e citazioni classiche. Più organico suona al confronto "Hoodoo Man" (1972), realizzato col nuovo tastierista Wolfgang Neuser. Lo stile è il consueto impasto di heavy rock martellante e coloriture prog, a partire dall'iniziale "Buy!", con organo e synth in bella evidenza intorno al canto solista e ficcanti inserti della chitarra elettrica. Una ricetta sperimentata che trova il suo apogeo nella lunga "Gamma Ray", torrida jam che ricorda l'hard rock inglese dell'epoca, arricchito da un fitto lavoro percussivo. L'organo di Neuser sale in cattedra soprattutto in "Suicide", brano più atmosferico con intriganti cambi di tempo, mentre la progressione incalzante della title-track ricorda da vicino certe cose di ELP, e sfoggia un maestoso organo da chiesa. Molto buona anche "Get Down to Your Fate", tesa e mordente sull'organo e la chitarra solista di Frenzel dopo un'apertura psichedelica con tanto di vibrafono. Dopo "Rebirth" (1973), con un paio di cambi in organico, e il successivo "Live", la band sterza verso sonorità più morbide e decisamente prog. Il rinnovato quartetto realizza infatti "Plastic People" nel 1975, con un suono che richiama subito i Gentle Giant nella title-track d'apertura: l'organo di Zeus B. Held e l'uso del synth disegnano un paesaggio sonoro ricco di intermezzi evocativi davvero pregevoli. Si avvicendano atmosfere esotiche ("Tiny Flashlights") e vigorosi squarci di rock barocco ("Trial Trip"), oltre a episodi piuttosto cerebrali con l'apporto del violino ("My Mind"). Un bel disco, anche se il successivo "Backdoor Possibilities" (1976) sembra il vero apice dei Birth Control in chiave progressive. Si tratta di un "concept" in sei parti, incentrato su un grigio uomo d'affari che al cospetto della morte ripensa alla sua vita: niente di originale forse, ma la musica è brillante e fantasiosa, tecnicamente eccellente fin dall'attacco di "Physical and Mental Short Circuit". Cambi di tempo pirotecnici, col synth in grande spolvero, caratterizzano tutto il disco insieme all'ottima orchestrazione delle voci. Bella la progressione sinfonica di "Futile Prayer", che cresce sulla voce di Noske, mentre "Film of Life" abbina toni umbratili a ripartenze vivaci e "Behind Grey Walls" è una splendida traccia con la voce, l'organo e la chitarra solista di Frenzel sugli scudi. Segue un lento declino, a cominciare da "Increase" (1977), realizzato con una formazione diversa che torna al più classico hard rock in tutti i dischi seguenti. Alla morte di Bernd Noske (2014), la storia sembra finita, ma non è così: altre notizie nel sito ufficiale. |
"Backdoor Possibilities" |