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CM-CZ
Collegium Musicum Color Comus Cornucopia Coronarias Dans Corte dei Miracoli
Cos Cosmos Factory Country Lane Crack Cressida Cruciférius Crucis Culpeper's Orchard Curved Air Czar
Nati a Bratislava nel 1969 su iniziativa del poliedrico tastierista Marián Varga (già nel gruppo Prúdy), i Collegium Musicum sono la risposta slovacca al prog sinfonico-barocco di formazioni come i Nice. L'esordio del 1971 è un album omonimo di tutto rispetto: se "Hommage a J.S. Bach" è la vera apoteosi per il valido tastierista, impegnato all'organo sulle orme del grande compositore, le altre tracce sono più articolate. La lunga "If you Want to Fall", cantata così così in inglese dal bassista Fedor Frešo, scorre tra blues e rock, con la chitarra solista che affianca le tastiere debordanti del leader, e nella stessa scia le due parti di "Strange Theme", tra frequenti accelerazioni e l'apporto dei fiati, mentre "Concerto in D" chiama in causa anche l'orchestra: è una bella rilettura da Joseph Haydn con il virtuoso contributo organistico di Varga e una ritmica valorizzata dal pregevole lavoro del basso. Il successivo "Konvergercie" (ancora del '71), è il disco più rinomato della formazione slovacca: si tratta di un doppio album che vede l'ingresso del chitarrista Frantisek Griglák (poi nei Fermáta), e composto di quattro lunghe suites di tono più variegato. Nell'iniziale "P.F. 1972", ad esempio, il raffinato lavoro all'organo e al piano di Varga convive con un suggestivo coro di bambini e la chitarra solista, che poi si fa più acida in "Suita po tisíc a jednej noci", registrata dal vivo: qui vengono elaborati alcuni temi di Rimskij-Korsakov, tra frequenti sterzate ritmiche e il basso in evidenza. La chitarra solista apre pure "Piesne z kolovrátku", prima che il pianoforte accompagni la voce di Pavol Hammel (anche lui ex-Prúdy) nell'unica suite cantata, ricca di intermezzi acustici, spezzature e melodie corali in un insieme più rock, con la chitarra di Griglák protagonista e un solenne finale con l'organo a canne. Anche la chiusura di "Eufónia" parte energica sul binomio di organo e chitarra, ma incorpora poi effetti e distorsioni in stile psichedelico, di ostica assimilazione. Forse troppo lungo qua e là, è comunque un disco ambizioso di notevole caratura tecnica. Nel successivo "Collegium Live" (1973), realizzato stavolta da un trio senza chitarra, si confermano le qualità della band, con un classic-rock dai toni dark, che si esprime al meglio in tracce quali "Burleska" o le due parti molto inventive di "Si Nemožná", con un lungo e incisivo assolo al basso di Frešo. Il bassista lascia prima di "Marián Varga & Collegium Musicum", altro live uscito nel 1975, e suonato da un quintetto che include il nuovo chitarrista Jozef Farkas. Il prog barocco mostra un raggiunto equilibrio soprattutto nell'attacco vivace di "Mikrokozmos", pieno di breaks con chitarra e organo sugli scudi, e poi in "Hudba k vodometu C.1", ma offre anche suggestioni jazz-rock con la sezione ritmica protagonista, come in "Nech zije clovek". I successivi dischi della band, a partire dal discreto "Continuo" (1978), provano a rinverdire la formula con l'innesto di parti vocali più estese (Ludovít Nosko) e vigorose sonorità rock, con la chitarra che guadagna spazio. L'ultimo album di studio è "Divergencie" (1981), che precede lo scioglimento, ma Varga resta sempre attivo e collabora soprattutto con il cantante Pavol Hammel. Ristampe Opus ed Enigmatic Records. |
"Konvergencie" |
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Gruppo ungherese originario di Debrecen, basato sui tre fratelli Bokor (Attila, Gyula e Tibor) che lo mettono insieme nel 1975. L'anno seguente arrivano anche László Pólya al violoncello e il chitarrista Emil Lámer, e il quintetto pubblica prima un 45 giri nel 1977 e quindi l'album d'esordio omonimo () nel 1978. Devoti al prog romantico di scuola inglese, caso ancora inedito nel loro paese, i Color devono molto alle belle armonie vocali dei tre fratelli, spesso decisive nell'economia degli otto pezzi in scaletta, insieme a una scrittura gradevole e ben equilibrata tra le variegate tastiere di Gyula Bokor, il mellotron del fratello Tibor e le chitarre. Il suono è sempre dinamico, senza eccessi o virtuosismi: lo si vede già nell'apertura di "Álmatlanul", con vivaci parti vocali, soliste e corali, al centro di uno schema ritmico di buona fattura, tra maestose aperture sul mellotron e la chitarra di Lámer. Anche il resto della sequenza segue questa formula, con una nota di merito per il violoncello che segna i momenti migliori: bella soprattutto l'atmosfera di "Ikaruszi Zuhanás", con tastiere e violoncello intorno al canto a due voci ben congegnato, e poi "Hárommilliárd év" ("tre miliardi di anni"), aperta dalle tastiere e poi sviluppata sul tema cantabile, con spazi di chitarra, violoncello e synth, oltre al buon lavoro alla batteria di Attila Bokor. "A Nap Siet", dopo l'intro di violoncello, vede salire al proscenio il pianoforte classicheggiante di Gyula e il basso che introduce una seconda parte caratterizzata dalla chitarra ad effetto e dal canto energico di Tibor. Tra i picchi del disco sta pure la melodia malinconica di "Elképzelt világ" (cioè "mondo immaginario"), costruita con grande perizia sui cori e gli inserti visionari di mellotron e synth, anche se il momento topico è probabilmente la lunga suite finale, "Panoptikum": tra pause e riprese congegnate ad arte, gli spunti delle ricche tastiere, di violoncello e chitarra solista, oltre alla consueta varietà delle voci, è davvero un riuscito manifesto di prog sinfonico ed eclettico, che mostra tutte le qualità della band ungherese. Pólya e Lámer lasciano l'anno seguente, mentre entra in formazione il chitarrista Miklós Felkai: il nuovo quartetto realizza due singoli nel 1980, e solo nel 1982 un secondo disco intitolato "Új Színek" (cioè "nuovi colori"). Decisamente più incline ad un rock-pop in stile AOR rispetto all'esordio, e con le voci sempre protagoniste, l'album alterna ancora belle melodie come la nostalgica "Féltelek", costruita sulla chitarra acustica, a vigorose escursioni rock con la chitarra solista in primo piano insieme al synth: ad esempio l'iniziale "Az orvos válaszol", o anche "Úgy kell". Solo a tratti melodia e rock, chitarra e tastiere trovano un discreto punto d'incontro: succede soprattutto in "Arról jöttem én", tra i momenti migliori della sequenza. Dopo l'abbandono di Attila Bokor, oggi produttore di cinema, e prima di sciogliersi, il gruppo registra un terzo disco come "Color 3", pubblicato postumo nel 1999. Ristampe a cura di Mambo. |
"Color" "Hárommilliárd év" |
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Gruppo che spicca nel panorama del prog-folk inglese dei primi Settanta grazie a due album di ottimo livello, seppure variamente giudicati. L'esordio discografico dei Comus (personaggio di John Milton ispirato all'omonimo dio greco del Caos) con "First Utterance" (1971) è davvero folgorante. Il sestetto, con una strumentazione quasi del tutto acustica, fa perno sulle chitarre di Glenn Goring e le voci di Roger Wootton e Bobbie Watson per imbastire sette brani di grande suggestione e un repertorio lirico che illustra un mondo pagano intriso di violenza, riti ancestrali e cruda sensualità. A caratterizzare l'album è il contrasto aspro tra la voce maschile e quella femminile, spesso incalzate dal violino di Colin Pearson, nell'attacco di "Diana" e poi in "The bite", ma a tratti la musica incede con ipnotico lirismo sulla chitarra e sulle note del flauto di Rob Young, ad esempio nella lunga "The herald", dominata dalla cristallina voce di Bobbie Watson. Gli episodi più tipici sono però "Drip drip", con un violino ossessivo appaiato dalle percussioni, quindi "Song to Comus", ritmica danza pagana guidata da flauto e violino, fino alla conclusiva "The prisoner", ancora con le due voci protagoniste nel teso crescendo della musica. Un disco di forte personalità, che però non riceve il consenso del pubblico spingendo la band allo scioglimento. Solo nel 1974, messi sotto contratto dalla Virgin, i Comus ritornano in attività con "To keep from crying", e una formazione diversa che comprende anche il tastierista Keith Hale, e due ospiti d'eccezione come Didier Malherbe (Gong) e Lindsay Cooper. Pur confermando le qualità emerse all'esordio, l'album si distacca dal precedente per i toni più fluidi e la maggiore duttilità del repertorio. A parte brevi parentesi, come la fosca "Waves and caves", le voci di Wooton e Watson si distendono più accattivanti già nell'iniziale "Down(like a movie star)", vivace pop-song, e in brani come "Touch down", "Perpetual motion" e soprattutto nell'ariosa melodia di "Children of the universe". Molto interessanti anche "Get yourself a man", una progressione di sonorità elettroniche con il sax di Malherbe in evidenza, e l'intensa title-track, che cresce lentamente sui fiati e la bella voce della Watson. Roger Wootton appare in seguito in alcuni dischi della band Slap Happy. Altre info nel sito ufficiale. |
"First Utterance" |
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Questo gruppo, passato come una meteora nel cielo dell'underground tedesco, meritava senz'altro maggiore fortuna. Formatisi ad Amburgo nel 1972, i Cornucopia passano a realizzare il loro primo e unico disco l'anno seguente per la Brain. "Full Horn"(1973) ha tutte le caratteristiche, in effetti, per disamorare un ascoltatore distratto e poco incline a formule lontane dall'ovvio: con la loro ricca strumentazione che include chitarra, tastiere, basso, batteria e ben due percussionisti oltre alla voce solista, i sette si producono infatti in quattro brani di grande spessore, di cui almeno tre piuttosto ostici al primo ascolto. Nella lunga e intricata suite della prima parte, "Day of a Daydreambeliever", concepita dal tastierista Christoph Hardwig, il suono si sviluppa soprattutto sulle note dark dell'organo, ma è spezzato di frequente da corposi cambi di tempo e dissonanze al limite dell'improvvisazione, oltre a una serie di effetti elettronici molto cerebrali, supportati a dovere da una robusta sezione ritmica (il vivace bassista Wolfgang Bartl e il batterista Wolfgang Gaudes), mentre il compito di svariare liberamente è affidato alla eclettica chitarra solista di Kay Hendrik Möller. Sempre espressivo ed enfatico, corrosivo come i testi in inglese molto interessanti, anche il canto solista di Wolfang Kause, a tratti raddoppiato da cori suggestivi. Una composizione notevole, anche se a tratti frammentaria. L'altro momento di grande spicco dell'album è "Spots On You, Kids", che dopo un intro di sapore bandistico vira attraverso l'organo di Hardwig verso un rock potente e di forte impatto, più unitario nell'arrangiamento ma sempre aperto a soluzioni originali: è un suono audace e sempre creativo, fuori dagli stilemi prog più abusati e con chitarra e batteria nuovamente protagonisti accanto alla voce. Dei due restanti pezzi più brevi, "Morning Sun, Version 127" stempera il tono in una ironica pop-song, mentre il colpo di coda di "And the Madness...", tra suoni stranianti, ritmiche circensi e voci prima grottesche e poi accorate, tenute ancora insieme dall'organo, conferma tutto il potenziale ragguardevole di questa pregevole formazione tedesca. In breve: la sola incisione dei Cornucopia, che scompaiono dopo il flop commerciale dell'album, è altamente consigliata a tutti quelli che amano una musica di ricerca, che non conquista facilmente, ma alla lunga rivela un paesaggio sonoro raro quanto affascinante. In mancanza di un adeguato riscontro di pubblico, purtroppo, la band di Amburgo finisce per sciogliersi nel 1974. Varie le ristampe in CD, ma l'unica ufficiale è quella della Repertoire. | |||||||||
E' un gruppo danese, formato nel 1969, che firma un paio di album nella prima metà dei '70. Il primo, inciso da un trio tastiere/basso/batteria, è "Breathe" (1971). L'anno seguente il tastierista Kenneth Knudsen, attivo fin dai primi '60 nel circuito jazz, chiama un nuovo batterista come Ole Streenberg e allarga la formazione al chitarrista Claus Bøhling. Questo quartetto lavora per oltre un anno al nuovo disco: "Visitor" (1975) è una prova indubbiamente interessante, all'insegna d'una fusion elettrica e aperta all'improvvisazione. Gli otto brani, tutti strumentali, oscillano tra momenti introspettivi e umbratili (l'iniziale "Se det", con il basso di Peter Friis Nielsen in primo piano, o "Tied waves" ) e altri dove il notevole livello tecnico dei musicisti e uno spirito estremamente libero nella ricerca di nuove soluzioni raggiunge risultati ragguardevoli, ad esempio in "Don't know", dalla ritmica esasperata. La struttura dei singoli episodi è basata sul piano elettrico di Knudsen (compositore di quasi tutto l'album), coadiuvato da una sezione ritmica mordente e spesso protagonista, mentre la chitarra elettrica di Bøhling rappresenta l'anima più iconoclasta del quartetto, come nella chiusura di "Which witch", dove questo schema, a volte perfino estremo nella sua tensione, offre qualche spezia psichedelica ad effetto. E' insomma un disco impegnativo e spesso ostico, che farà felici soprattutto gli appassionati delle sonorità elettriche in odore di jazz e fusion. Da ricordare che Knudsen, oltre a essere eletto nel 1973 musicista dell'anno dall'Accademia del Jazz Danese, ha suonato poi con i Secret Oyster, sempre con Streenberg e Bøhling, e in seguito ha intrapreso una carriera solista di tutto rispetto. Info nel suo sito ufficiale. |
"Visitor" |
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Altra formazione ligure, la Corte dei Miracoli si forma a Savona nel 1973, ma esordisce solo nel 1976 con un disco omonimo pubblicato dall'etichetta Grog, che rimarrà anche l'unico realizzato prima dello scioglimento. La band nasceva sulle ceneri di un altro gruppo meno fortunato, il Giro Strano, sciolto qualche anno prima senza aver inciso nessun album (ma nel 1992 Mellow Records ha pubblicato il postumo "La Divina Commedia"). E' comunque interessante, nella Corte dei Miracoli, l'idea della doppia tastiera (Alessio Feltri e Riccardo Zegna), con l'esclusione della chitarra fissa in organico. Il disco si compone di cinque brani di livello generalmente discreto, ma non tutto purtroppo funziona a dovere. Se infatti non mancano diversi spunti degni di nota a livello strumentale, come ad esempio nell'apertura di "...E verrà l'uomo", con Vittorio De Scalzi ospite alla chitarra, in linea generale alle buone combinazioni tra i due tastieristi corrispondono mediocri parti vocali. I testi cantati da Graziano Zippo fanno infatti molta fatica a legarsi alla musica, e anzi l'appesantiscono alquanto, inficiando il risultato complessivo. Serviva probabilmente un maggiore lavoro di limatura sulle liriche, a volte decisamente prolisse, per rendere la sequenza più fluida e compatta: peccato, perché tracce come "Verso il sole", ad esempio, o "I due amanti", che chiude l'album, mostrano una band con discrete possibilità, soprattutto per l'uso delle percussioni (Flavio Scogna) e parti di synth e pianoforte piuttosto eleganti. La ristampa digitale è a cura della Vinyl Magic, ma negli anni Novanta escono anche per Mellow Records vecchie registrazioni ancora inedite risalenti agli anni Settanta: si tratta di "Dimensione onirica"(1992) e "Live at Lux"(1993). |
"Corte dei Miracoli" |
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Eccellente band belga, i Cos incidono diversi album in pieni anni Settanta, dei quali vanno ricordati almeno i primi due. Motore del progetto è Daniel Schell (chitarra e fiati), studente dell'Accademia d'Ixelles, che dopo varie esperienze forma un gruppo denominato Classroom con la cantante Pascale Son tra gli altri. Influenze diverse, tra Bartok, Orff e i francesi Magma, portano la band a realizzare musiche per il teatro e poi, mutata la sigla in Cos, a incidere il primo disco: "Poestaeolian Train Robbery" (1974). Il sestetto dimostra ottime qualità strumentali all'insegna di un jazz-rock sofisticato, ispirato alla scena di Canterbury e alla Zeuhl music. Spicca nella sequenza la tensione ritmica di "Hamafam", splendida performance del batterista Robert Dartsch in combutta col piano elettrico di Charles Loos e l'originale apporto vocale di Pascale Son. I vocalizzi della cantante sono decisivi in episodi come "Cocalnut", ricca di sincopi e con la buona presenza del basso (Alan Goutier), e nella più frizzante "Populi", mentre "Halucal" è un intrigante tema per il flauto basso di Daniel Schell. Nella lunga "Coloc", dopo l'intro pianistica, viene fuori l'anima canterburyana dei Cos, attraverso passaggi morbidi e cerebrali che preludono a un articolato assolo alla chitarra di Schell, in uno schema elastico e aperto agli spunti individuali di piano elettrico, voce, basso e batteria. Dopo un'intensa stagione di concerti in giro per l'Europa, arriva quindi la seconda prova discografica. "Viva Boma" (1976), realizzato con un paio di cambi in organico, mostra un band meno aggressiva, più disponibile alle atmosfere morbide e alle suggestioni offerte dalla voce solista ("Nog verder" e "In Lulu", ispirato a Wedekind), ai colori esotici ("Viva Boma", con percussioni africane) e a nuovi effetti elettronici ("Boehme"). "Flamboya" è forse l'esempio migliore di questa vena più sinuosa, impreziosita da calibrati interventi di chitarra elettrica e improvvisazioni vocali sullo sfondo elegante delle tastiere. Il brano più ambizioso è però "L'idiot Léon" (legato a un carattere tipico del folklore di Bruxelles), che ha uno sviluppo composito, con la chitarra solista in bella evidenza in una trama arricchita da oboe, flauto e clarinetto basso. La cantante interpreta per una volta un vero testo nella finale "Ixelles", rarefatta composizione di squisita fattura. Entrambi i dischi sono riediti in CD dalla Musea con molte bonus-tracks. Altre incisioni dei Cos, di minor fama, sono: "Babel" (1978), "Swiss Chalet" (1979) e "Pasiones" (1983). |
"Viva Boma" |
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Una formazione giapponese, di Nagoya, che si forma nel 1970 e realizza alcuni album interessanti, anche se diversi nell'approccio stilistico. L'esordio di "An Old Castle of Transylvania" (1973) rimane il loro disco più tipico, oltre che il più noto nel circuito progressivo. E' uno "space rock" di taglio drammatico e sinfonico, dominato dalle ricche tastiere di Tsutomu Izumi, che firma buona parte dei brani. Di grande effetto l'apertura di "Soundtrack 1984", scandita dal basso di Toshikazu Taki e poi irrorata dal synth e dalla chitarra solista di Hirashi Mizutani, mentre in "Maybe" si ascoltano il mellotron e discrete linee vocali in lingua giapponese. "Soft Focus", ballata per pianoforte e voce, e "Fantastic Mirror", arricchito dal contrappunto incisivo della chitarra, mostrano invece un lato più melodico del quartetto. L'organo di Izumi domina lo strumentale "Poltergeist", esempio di prog più canonico con inserti di violino. Il gioiello è però la lunga suite finale che intitola il disco: divisa in quattro parti, fa emergere un'anima psichedelica e oscura accanto all'enfasi classica del prog sinfonico. Organo, mellotron e chitarra elettrica danno corpo a un suggestivo crescendo di pathos al quale concorre il pulsante lavoro del bassista, specie nel primo segmento "Forest of The Death": tra pause e ripartenze ad effetto, con buoni inserti cantati, è probabilmente l'apice della band nipponica. Nel successivo "A Journey With the Cosmos Factory" (1975) l'ispirazione appare più frammentaria e meno brillante, in un'altalena di toni perfino eccessiva. Evocative ballate costruite sul piano ("Hiver") convivono con bizzarri esempi di synth-pop ("Sunday Happening" o "A Hidden Trap") e rumorismo psichedelico ("Confusion" e "The Cosmogram"). Brani come "Day Dream" e "The Infinite Universe of Our Mind", con belle parti di organo e chitarra, oltre al sinfonico crescendo di "The Sea", non bastano da soli a risollevare il livello disuguale del disco. In confronto, "Black Hole", uscito nel 1976, recupera una certa unità stilistica e anche il piglio "dark" del debutto. Molto bella ad esempio è "The Vague Image", con la sua atmosfera gotica sottolineata dall'organo e il canto enfatico, mentre episodi come "A Wandering Young Man" e soprattutto "Days in the Past", traversati da sinistri bagliori, ritmi ossessivi e taglienti soli chitarristici, riecheggiano i Crimson del secondo periodo. L'iniziale title-track e "Crystal Solitaire", brani lenti e avvolgenti costruiti sulle tastiere, insistono sulle parti vocali tipiche del quartetto, come pure la fascinosa "The Hard Image", mentre "Mirror Freak" è un discreto rock sincopato che esalta ancora la chitarra di Mizutani. Il quarto e ultimo album dei Cosmos Factory è "Metal Reflection" (1977): come promette il titolo, sterza decisamente verso un hard rock più convenzionale, seppure suonato a tratti con discreta vena. Un sigillo in tono minore per una band di buone qualità, anche se fin troppo volubile: il primo e il terzo disco sono comunque da ascoltare. |
"An Old Castle of Transylvania" |
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Questa band della Svizzera francese, per l'esattezza del cantone di Neuchatel, si forma nel 1970 su iniziativa di Olivier Maire (tastiere), Raymond Amey (chitarra solista) e Freddy Von Kaenel (chitarra ritmica). Stabilizzatosi come quintetto l'anno seguente, i Country Lane si mettono in luce dal vivo con la rock-opera "The Story Of Alan And Pearl", prima di poter incidere l'album "Substratum" nel novembre 1972. Pubblicato nel maggio dell'anno seguente, il disco è cantato in inglese e mostra una grande varietà stilistica, pur restando nell'ambito del progressive dell'epoca: è un rock molto vivace e imprevedibile, condito da una bella dose di umorismo irriverente. L'attacco di "With A Sweet Whistle To My Ears" abbina un potente dark rock a una serie di variazioni ritmiche interessanti: notevole la chitarra solista di Amey, con l'organo di sfondo. Il chitarrista si fa notare anche in "It's Only Your Memory Playing The Thought Of A First Love", dove si conferma l'anima frizzante del gruppo svizzero, tra discrete parti vocali e brevi inserti d'organo. Voci corali caratterizzano "In The Morning Sun", una melodia ancora costellata di breaks chitarristici e fraseggi tastieristici, secondo uno schema irrequieto tipico del quintetto. Non a caso "Good Old Time" è un puro divertissement, con tanto di pianino rag-time e voci sopra le righe, in un clima del tutto inclassificabile. Il momento più corposo del disco è la suite finale "The Desgusting Story Of The Captain Bloom", in quattro parti, per un totale di circa venti minuti: affiorano umori canterburyani nel fraseggio serrato e negli spunti onirici delle tastiere, mentre la chitarra solista richiama l'hard rock inglese ("Song To Ivan"). Non mancano neppure atmosfere trasognate e acustiche, sempre incalzate però dal piglio molto dinamico del duo ritmico ("Letter To A Friend"). I Country Lane mostrano insomma qualità strumentali e grande eclettismo, ma "Substratum", per quanto assai gradevole, lascia l'impressione di una creatività dispersiva, non ancora calibrata a dovere. Ristampa digitale Musea. |
"Substratum" |
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Questa formazione spagnola che nasce nel 1977 su iniziativa di Mento Hevia a Gijón, nella regione delle Asturie, è titolare di uno dei dischi più rinomati della scena prog iberica, rimasto poi senza seguito. Peccato davvero, perché il quintetto che realizza "Si todo hiciera crack" () nel 1979 su etichetta Chapa Discos dimostra indubbiamente di aver ben digerito la lezione dei capiscuola del prog sinfonico inglese, ma vi aggiunge una spruzzata di folk-rock, e soprattutto corrobora questa ricetta con una grande freschezza di suoni, facendo anche valere la forza della melodia nella parti cantate in lingua madre. L'album è composto da sette tracce tutte ben suonate, senza sbavature, a cominciare dallo splendido strumentale "Descenso en el Mahëllstrong" posto in apertura, nel quale si ammira il dinamico intreccio tra il pianoforte di Mento Hevia e il flauto di Alberto Fontaneda, vero asse portante della musica dei Crack, nutrita di frequenti cambi di tempo e armonie eleganti al tempo stesso. Un mix suonato con gusto che cattura subito l'ascoltatore. Anche il mellotron di Hevia arricchisce spesso i brani: si segnala in particolare "Amantes de la irrealidad", con la chitarra solista di Rafael Rodríguez in buona evidenza e parti vocali trasognate e romantiche che lasciano il segno. Quasi ogni episodio del disco conosce in effetti la medesima alternanza tra ficcanti parti strumentali e pause atmosferiche che portano al proscenio le voci, così che la sequenza risulta sempre molto vivace e mai noiosa. È il caso soprattutto di "Buenos deseos" e "Cobarde o desertor", dove si segnala ancora l'uso intensivo del synth di Hevia, mentre la lunga title-track in due parti è particolarmente mossa e insieme melodica, con le voci spesso corali, inclusa quella femminile di Encarnación González, e vivaci spunti di synth, chitarra e flauto. Prezioso anche l'apporto del bassista Álex Cabral, ad esempio in "Marchando una del Cid", un pezzo insieme solenne e incalzante per la forte impronta ritmica che rilancia continuamente i temi principali in una girandola sonora di grande effetto. Con il brillante strumentale "Epilogo", ancora per flauto e pianoforte, si chiude degnamente uno dei dischi più giustamente famosi del prog spagnolo, e anche purtroppo la breve e folgorante parabola dei Crack: nel 1980 infatti esce un singolo tratto dall'album ("Cobarde o desertor"/"Marchando una del Cid"), dopo di che il gruppo si scioglie per i consueti dissidi interni. Piuttosto sporadiche ad oggi le ristampe, quasi tutte di marca asiatica: si segnalano soprattutto quelle della coreana Si-Wan Records, anche in vinile, e poi quella della nipponica Crime. Storia e notizie sulla band iberica, compresi tutti i testi del disco, sono disponibili nella pagina ufficiale. |
"Si todo hiciera crack" "Descenso en el Mahëllstrong" |
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Un'altra band che caratterizza il progressive britannico della prima ora. Nel caso dei Cressida siamo di fronte a una delle migliori espressioni del periodo, e i due album usciti a loro nome sono entrambi consigliati. Nel primo omonimo (1970) il quintetto (tastiere, chitarra, basso, batteria e voce solista) è alle prese con dodici brani di breve durata, prevalentemente melodici ma caratterizzati dalle coloriture vivaci dell'organo di Peter Jennings, sin dall'iniziale "To play your little game", dalla ritmica nervosa e la bella voce di Angus Cullen in primo piano, come pure nel vivacissimo "Cressida". Il gruppo è a suo agio anche nei momenti più malinconici, in titoli eloquenti come "Winter is coming again" e soprattutto "Depression", sempre ravvivati però da gustosi cambi di tempo e brillanti inserti chitarristici di John Heyworth. Cullen domina con la sua voce romantica l'episodio più intimista dell'album, "Spring '69", mentre "Down down" (con il mellotron in evidenza) e la conclusiva "Tomorrow is a whole new day", chiudono il disco in una chiave più sinfonica e ariosa. Ancora migliore però è il successivo "Asylum" (1971): John Culley ha rilevato alla chitarra Heyworth, ma la formazione non sembra risentirne. Le idee dell'esordio sono anzi dilatate in una scaletta più ricca e senza punti deboli. Spicca la splendida "Munich", dal sognante arrangiamento orchestrale che si espande tra sinuose linee di basso (Kevin McCarthy), spezzature ritmiche dettate dall'organo smagliante di Jennings in combutta con la chitarra solista, e la voce sempre evocativa di Cullen. E' forse il momento più tipico e rappresentativo dei Cressida: una perfetta istantanea della loro ispirazione compassata eppure sempre imprevedibile, dai contorni davvero molto british. Sono belle, sulla stessa linea, anche la delicata "Lisa", più melodica e accattivante, e il lungo brano posto in chiusura, "Let them come when they will", dalla struttura composita che include fiati e ritmiche molto latine, ma soprattutto l'accorata voce solista, qui davvero intensa. Gli episodi più brevi non sono però meno riusciti, anzi dimostrano la notevole varietà stilistica di un tastierista come Jennings, sempre in bilico tra raffinato pianismo jazz (vedi "Reprieved") e multiforme inventiva nel fraseggio all'organo, come nella title-track iniziale. Purtroppo la storia della band finisce qui, con un disco che rimane comunque tra i più riusciti dei primi anni Settanta. |
"Asylum" |
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Un solo disco all'attivo per questo valido gruppo che appartiene alla primissima ondata del prog transalpino. Lo mettono insieme a Parigi, nel 1967, il bassista e cantante Bernard Paganotti e il batterista Christian Vander con il nome Cruciférius Lobonz e un repertorio soul-psichedelico: sono del quartetto anche François Bréant (tastiere e vibrafono) e Marc Perru (chitarra). Pochi mesi dopo, però, Vander se ne va per formare i Magma e al suo posto subentra Patrick Jean. Nel 1968 la band, abbreviata la sigla in Cruciférius, accompagna dal vivo Ronnie Bird, noto esponente del beat francese, e dopo un'intensa attività live comincia ad elaborare un proprio repertorio. Nel 1969 viene pubblicato il 45 giri "Music Town / "Mister Magoo": è un vivace pop psichedelico venato di jazz, con vibrafono, basso e organo in evidenza, specie nel primo brano di oltre sei minuti. Nel maggio dello stesso anno viene quindi registrato l'album "A Nice Way of Life" (), che in realtà vedrà la luce soltanto all'inizio del 1970: otto tracce di ottimo livello che mostrano la forte personalità del quartetto, capace di muoversi con brio e fantasia tra suggestioni diverse. Vibrante ad esempio l'apertura di "Big Bird" (cover da Eddie Floyd), dove la voce tenebrosa di Paganotti è supportata dal coro femminile, in una successione di pause e brillanti riprese in crescendo. Tra gli altri brani si segnalano "Let's Try", esuberante hard rock segnato dai potenti riff di basso e chitarra, oltre che dal vibrafono, e la stessa title-track, con l'organo di Bréant a guidare le danze e le voci corali. Quasi tutti gli episodi del disco sono caratterizzati da un marcato elemento ritmico, spesso esasperato: è il caso della cover di "Gimme Some Lovin" (Spencer Davis Group), tiratissima dall'inizio alla fine, con il fraseggio dell'organo ancora in primo piano e variazioni ad effetto, oppure "What Did You Do", un rock scandito da un ritmo avvolgente e arricchito dal pianismo di Bréant. Intrigante anche il tema di "Jungle Child", calato in pieno clima R&B, col piano jazz e il refrain vocale ipnotico: episodio molto "sixties", eseguito con bella convinzione e lampi di classe pura, fino al solo chitarristico di Perru. Nonostante la buona accoglienza di pubblico e critica, il gruppo si disperde nei primi mesi del 1970, quando Paganotti decide di stabilirsi in Giappone. Perru e Bréant transitano nei Sandrose prima di fondare i Nemo, mentre Paganotti si aggrega ai Magma nel 1974. Ristampa a cura della tedesca O-Music. |
"A Nice Way of Life" |
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Nel vasto continente sudamericano, la scena argentina è forse quella più ricca di proposte interessanti in ambito progressive, e tra i nomi più influenti c'è senz'altro quello dei Crucis, una band che nasce a Buonos Aires nel 1974 e realizza due dischi di buon livello nei secondi Settanta. Già nel primo, un omonimo uscito nel 1976, il quartetto mostra di aver ben assimilato la lezione dei capiscuola britannici, mettendoci di suo qualità melodiche tipicamente latine. Il leader del gruppo, il bassista e cantante Gustavo Montesano, firma quasi l'intero materiale, ma l'asse dominante è costituito dalle tastiere di Anibal Kerpel e dagli spunti alla chitarra solista di Pino Marrone: accade soprattutto in "Mes", con vivaci fraseggi all'organo e frequenti cambi di tempo, e anche in "Ironico ser", un rock martellante con pirotecnici chitarrismi. Dal lato strumentale sono forse "Determinados espejos" e la conclusiva "Recluso artista" i momenti più convincenti, con squarci di jazz-rock dominati dal synth (nel primo), un tessuto ritmico sempre pulsante e brillanti improvvisazioni dei singoli. Il successivo "Los delirios del mariscal" (1977) viene inciso a Miami, e dietro una produzione impeccabile si nota un gruppo più maturo. Nell'iniziale "No me separen de mi" spicca soprattutto la gradevole voce del cantante, all'interno d'una composizione molto ariosa, ma è anche il solo episodio cantato della sequenza. La lunga title-track, in particolare, mostra bene l'evoluzione dei Crucis, che privilegiano adesso atmosfere più sospese, meno convulse e più calibrate, con la limpida chitarra solista sullo sfondo elegante delle tastiere di Kerpel. In "Pollo frito" il quartetto associa il linguaggio imprevedibile della fusion alle potenzialità dei singoli: ottimo soprattutto il piano elettrico e ancora ficcante la chitarra di Marrone in un brano a tratti trascinante. Il lungo atto finale di "Abismo terrenal" recupera invece il rock più vivace del primo disco, immerso però in una dimensione di space-fusion molto suggestiva e aperta, che esalta anche il batterista uruguagio Gonzalo Farrugia (ex-Psiglo) e il basso di Montesano, oltre all'estroso chitarrista. Allo scioglimento, che segue di poco la pubblicazione, il cantante realizza subito da solista l'album "Homenaje", che coinvolge buona parte del gruppo, mentre in seguito suona a lungo con la band spagnola di tecno-pop Olé Olé. Nel 1992 i due dischi dei Crucis sono stati riuniti in un singolo CD col titolo "Cronología" dalla BMG argentina, mentre le ristampe in vinile sono a cura di Edison e RCA Victor. |
"Los delirios del mariscal" "Pollo frito" |
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Oscuri e oggi dimenticati, i Culpeper's Orchard sono una pregevole formazione danese con almeno due dischi notevoli all'attivo. Il gruppo si forma a Copenaghen e nel 1971 pubblica il suo primo album omonimo (): nove tracce che mostrano un'ispirazione composita ma al tempo stesso già matura, da parte di un quartetto che sa personalizzare influenze stilistiche diverse: rock-blues, pop psichedelico, un pizzico di folk. "Mountain Music part 1" è un vibrante hard-rock con la chitarra solista di Niels Henriksen in evidenza insieme alla bella voce di Cy Niklin, cantante inglese molto versatile che firma gran parte dei pezzi. Nella sequenza, che non ha punti deboli, si avvicendano eleganti ballate che richiamano la lezione dei Procol Harum, come la stupenda "Gideon's Trap", parentesi in stile west-coast ("Hey you people"), e intense escursioni chitarristiche abbinate a ottime parti vocali: ad esempio "Ode to Resistance", introdotta dal flauto e poi sviluppata come un torrido rock'n'roll. Tra i momenti migliori spicca "Teaparty for an Orchard", con l'organo di sfondo al canto solista e raffinate parti chitarristiche, in un contesto più psichedelico. La musica dei Culpeper's Orchard è tanto fluida quanto inventiva, con soluzioni strumentali mai scontate e brillanti parti liriche, come conferma in coda la seconda parte di "Mountain Music". Il gruppo vive un buon momento di pubblico e critica e nel 1972, sostituito il batterista, realizza il suo secondo disco. "Second Sight" è ancora molto bello, anche se meno sorprendente nelle sue sette proposte. L'iniziale "Julia", delicata canzone cullata dal basso di Michael Friis, la lunga "Mind Pollution/Weather Report", che parte in sordina sulla chitarra acustica e poi evolve in un caldo rock-blues elettrico, la briosa "Keyboard Waltz" e la più acida "Classified Ads" sono i momenti più efficaci di un disco che allinea ancora umori folk ("Satisfied Mind") e blues più canonici ("Late Night Woman Blues"). Le influenze americane prendono poi il sopravvento nel successivo album "Going For A Song" (ancora 1972), nel quale Niklin e Friis suonano con tre ex membri del gruppo danese Blast Furnace: dieci episodi dominati da una sorta di country-rock melodico e ben suonato, con qualche parentesi di puro rock'n'roll ("Roger and Out"), ma decisamente meno originale. Solo qualche anno dopo, accorciata la sigla in Culpeper, Niklin e soci realizzano infine "All Dressed Up & Nowhere to Go" (1977). CD di Progressive Line e Karma Music. |
"Culpeper's Orchard" |
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Gruppo inglese che ha il merito di aver creduto prima di altri al connubio di rock e musica classica, i Curved Air (sigla ispirata a un celebre album di Terry Riley) nascono nel 1969 dall'incontro di Darryl Way (violino), Francis Monkman (tastiere/chitarre) e il batterista Florian Pilkington-Miksa, ai quali si unisce poi la cantante Sonja Kristina, già nota per aver preso parte al musical "Hair". Il primo album è "Air Conditioning" (1970), forte di brani come "Vivaldi", disinvolta rilettura del compositore italiano, in una sequenza di dieci tracce che offre molto altro. Ficcanti rock melodici mai banali ("Stretch" e "Propositions"), squarci di psichedelia ("Situations") e malinconia romantica ("Screw") fino all'oscura atmosfera da incubo di "Hide and Sike" completano un esordio di tutto rispetto: il disco registra subito buone vendite e impone la band come una delle novità più stimolanti del progressive britannico. Nel successivo "Second Album" (1971), il quintetto, con l'uscita del bassista Robert Martin rilevato da Ian Eyre, gioca ancora meglio le sue carte, puntando sulla voce duttile e cristallina di Sonja Kristina e sui virtuosismi del violino di Way. Molto bello soprattutto l'attacco dell'iniziale "Young Mother", tra spirali di synth e controtempi ritmici prima del cantato, ampio e solenne, secondato dal violino e molteplici effetti elettronici che punteggiano un po' tutta la sequenza. Più in chiave di rock-song sono episodi quali "Back Street Luv", e anche la sincopata "You Know", con la chitarra elettrica di Monkman in evidenza. Il momento più raffinato è però "Puppets", seducente ballata punteggiata da un gioco percussivo e la voce solista della cantante che spicca s'un morbido tappeto di pianoforte e mellotron. Il gruppo dilata ulteriormente i tempi nella finale "Piece of Mind", quasi tredici minuti nei quali si respira aria di fusion, tra trame sinistre e ossessive di violino, ritmiche irregolari e un crescendo d'intensità davvero intrigante attorno al canto solista. Il successivo "Phantasmagoria" (1972) è però l'ultimo atto del primo periodo. Disco vario e sofisticato, alterna momenti soffusi e acustici ("Melinda", col flauto) a brevi riprese classicheggianti ("Ultra-Vivaldi") e momenti più dinamici, col violino di Way protagonista e l'organo in appoggio: è il caso della title-track e di "Not Quite The Same", coi fiati in evidenza, fino alla vibrante "Cheetah". Stupisce la vena sperimentale di "Whose Shoulder Are You Looking Over Anyway?", per voce filtrata al computer e synth, come pure della successiva "Over and Above", articolata sul vibrafono con dialoghi tra violino e fiati, il fattivo apporto del bassista Mike Wedgwood e il virtuoso canto femminile. A questo punto si susseguono diverse novità, che non sempre giovano alla vita artistica della band. In un nuovo organico, ad esempio col giovane enfant-prodige Eddie Jobson al violino, i Curved Air incidono prima un disco come "Air Cut" (1973), quindi l'organico originale si ritrova di nuovo per l'album "Curved Air Live" (1975). Più avanti, dopo l'abbandono di Monkman, Sonja Kristina e Way si uniscono al batterista Stewart Copeland (poi nei Police) per realizzare "Midnight Wire" (1975) e "Airborne" (1976), che rimane il vero atto finale della formazione inglese. Solo molti anni dopo, la band si è riunita per alcuni concerti-evento ed è tornata finalmente a incidere nel 2008, quando viene pubblicato "Reborn", un disco che offre rivisitazioni del vecchio repertorio insieme a tracce inedite. Altre informazioni nel sito ufficiale. |
"Second Album" |
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Pubblicato nel 1970 da Fontana, "Czar" è l'unico album ufficiale uscito a nome del gruppo inglese omonimo. Formato a Londra nel 1966 con il nome di Tuesday's Children, oltre a realizzare ben sei singoli fino al 1968, questa formazione suona intensamente nei clubs di tendenza (come il Marquee) e soprattutto divide il palco con le band più in voga del periodo: dai Pink Floyd ai Moody Blues, passando per i Kinks e gli Animals. Cambiata quindi la sigla in Czar nel 1970, pubblicano il loro ellepì. Si tratta di un classico quartetto dedito a un prog-rock enfatico, che abbina un massiccio impiego di mellotron (Bob Hodges) a lunghe tirate chitarristiche (Mick Ware), con parti cantate quasi sempre corali. "Tread Softly on My Dreams", che apre il disco, e anche la lunga "Cecelia", con i suoi accenti dark, sono un campione eloquente del suono-Czar, che tende a prolungare all'eccesso riff e temi portanti, anche se potenzialmente validi. In questo senso, meglio i pezzi brevi, dove la vena melodica non viene soffocata dai toni più pomposi: ad esempio la più romantica "Today" o "Follow Me", che per la ritmica mossa e il refrain vocale molto fresco ricorda la lezione dei maestri Beatles. Qui la band londinese suona un pop-rock indubbiamente più agile e compatto, come pure in "Beyond the Moon", mentre altrove domina un cupo romanticismo non sempre articolato a dovere, affogato in un mare di mellotron. Evidentemente influenzato dall'esempio dei primi King Crimson, il gruppo non ha purtroppo l'estro visionario di Robert Fripp e soci, e composizioni come "A Day in September", posta in chiusura della sequenza, ribadiscono i limiti di una proposta interessante negli ingredienti di base, ma poco efficace nell'impasto sonoro e nel risultato complessivo. Sono comunque da sottolineare certe spezie acide per organo e chitarra qua e là, e il tentativo di traghettare il pop tipicamente sixties nelle complesse strutture del progressive che dominerà il nuovo decennio. Varie le ristampe in CD con bonus-tracks, e in vinile da Sunbeam Records. |
"Czar" |