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Paese dei Balocchi Paladin Pangea Panna Fredda The Alan Parsons Project Gigi Pascal e la Pop Compagnia Meccanica Paternoster

Patto Pavlov's Dog Pax Pentacle Pentola di Papin People Phoenix Pholas Dactylus Picchio Dal Pozzo Piero e i Cottonfields Pierrot Lunaire

Ping Pong Pinnacle Planetarium Plat Du Jour Pollen Pop Mašina Poseidon Procession Progresiv TM Prosper Psiglo

 

 

 

  Paese dei Balocchi   - Band nata a Roma nel 1971 sulle ceneri di un precedente gruppo beat chiamato Under 2000, che realizza alcuni singoli nel 1970. Una volta finita quell'esperienza, due dei componenti reclutano altri elementi per creare un quartetto chiamato appunto Paese dei Balocchi, arrivato all'appuntamento discografico nel 1972. L'album omonimo, realizzato per la CGD e prodotto da Adriano Fabi, è dominato dalle tastiere di Armando Paone, compositore di tutti i brani, per illustrare questo viaggio immaginario che si richiama soltanto nel nome al mondo di Collodi. Suddivisa in diversi segmenti, talvolta brevissimi, la sequenza si snoda su organo, mellotron e synth in abbondanza, con rari momenti davvero corali e appena più energici: è il caso di "Impotenza dell'umiltà e della rassegnazione", un brano tumultuoso che lascia spazio alla vigorosa chitarra elettrica di Fabio Fabiani. I testi cantati dallo stesso tastierista sono invece molto introspettivi, seppure poco elaborati nel complesso del disco: a parte la brevissima "Narcisismo della perfezione", si segnala soprattutto la malinconica "Canzone della speranza", sorretta dagli archi. Proprio l'apporto di una sezione d'archi, ben integrata con il resto del gruppo e diretta con grande finezza da Claudio Gizzi, è spesso decisiva negli equilibri della musica, senza essere invadente come in altre esperienze del prog italiano. Molto intrigante risulta un pezzo come "Vanità dell'intuizione fantastica", costruita sul basso di Marcello Martorelli e poi irrorata ancora dalle trame organistiche di Paone, in un gioco di pause e riprese di buon effetto. Sicuramente non manca alle musiche proposte dal Paese dei Balocchi una certa suggestione arcana, nel segno di una dimensione pensosa, quasi contemplativa, ma alla lunga il disco soffre di una certa monotonia di fondo. Il difetto più evidente è una scarsa capacità di costruire trame sonore davvero compiute, lasciando invece l'impressione di uno sviluppo frammentario, così che gli spunti anche felici delle tastiere, delle chitarre e le rare impennate ritmiche, non prendono mai corpo come potrebbero. Pur con questi limiti, il disco ha comunque il timbro inconfondibile del progressive italiano più oscuro dei primi anni Settanta: esemplare in tal senso è la splendida "Evasione", una composizione di grande atmosfera che può anche richiamare la ricerca dei corrieri cosmici tedeschi, ma in una chiave più morbida, con dosati interventi di chitarra e piccole accelerazioni interne. Si tratta insomma di un tentativo ambizioso, tutt'altro che banale, di allargare l'area sonora del rock progressivo in una direzione più originale, senza compromessi o facili scorciatoie, che dunque merita una certa attenzione. Dopo qualche avvicendamento in organico, la band romana non trova nuovi sbocchi discografici e si scioglie nel 1974. Ristampe a cura di Mellow Records e BTF/Vinyl Magic.

"Il Paese dei Balocchi"

  Paladin   - Un gruppo inglese originario di Arlingham (Gloucestershire), formato nel 1970 da Peter Solley (tastiere) e Keith Webb (batteria), entrambi reduci dall'esperienza con la band di Terry Reid, che apriva i concerti dei Rolling Stones nel tour americano del 1969. Già nel disco d'esordio omonimo, pubblicato nel maggio 1971 dalla Bronze, la formazione palesa grandi ambizioni e tecnica eccellente, provando a miscelare tra loro heavy rock, ballate vicine al pop e anche suggestioni di latin-rock. Ad esempio "Dance of the Cobra", tra i momenti migliori, con le percussioni africane di Webb in grande spolvero e un rutilante assolo di batteria che prepara il finale, o anche "Fill Up your Heart", con l'organo frizzante di Solley protagonista di un prog sempre molto tirato, tra le voci anche corali, il basso pulsante di Peter Beckett e una chitarra solista (Derek Foley) che a tratti ricorda Santana. Fluido prog-rock melodico ben cantato e suonato è anche quello di "Bad Times", in apertura, con organo e batteria a spartirsi la scena e la chitarra a supporto, mentre altrove i toni cambiano. Se "Flying High" è una morbida pop-song ben cantata da Lou Stonebridge, e "Carry Me Home" un pezzo di taglio americano un po' ordinario, con piano e chitarra intorno al tema cantabile, la chiusura è la celebre "The Fakir", esotico brano del noto compositore Lalo Schifrin con basso e percussioni ancora in cattedra. Un disco piacevole, seppure disuguale, che resta la prova migliore della band. Nonostante le scarse vendite, infatti, i Paladin realizzano un secondo album come "Charge!" nel 1972, valorizzato da una bella copertina di Roger Dean. L'attacco di "Give Me your Hand" tiene fede al titolo del disco ("carica!"): è un robusto rock dal motivo melodico incisivo, in progressivo crescendo con il duo ritmico in evidenza, così come "Well We Might", quasi un Boogie Rock col piano a martello. E' musica trascinante, ma non troppo originale. Brani come "Good Lord", scandito dal basso, o anche lo strumentale "Get One Together", mostrano una band di validi strumentisti all'opera, ma quello che manca è un repertorio meglio focalizzato e meno dispersivo. Così invece anche i brani più interessanti della sequenza, come "Mix your Mind With the Moonbeams", segnato dal fine lavoro tastieristico di Solley, e il folk-rock finale di "Watching the World Pass By", con tanto di violino, non salvano l'insieme da un sapore di déjà vu, solo in parte riscattato da qualche trovata ad effetto dei singoli: un vero peccato, considerato il notevole livello tecnico del quintetto inglese. La perdurante mancanza di risultati commerciali, porta infine la formazione a sciogliersi nel 1973. In seguito, Solley suona tra l'altro con gli Snafu e quindi coi Procol Harum. Ristampe disponibili in CD e vinile.

"Paladin"

"Bad Times"

  Pangea   - Uno dei molti progetti dimenticati del prog italiano, Pangea è il nome di una band effimera nata intorno a Mauro Paoluzzi, noto musicista e autore, ma soprattutto produttore, del giro milanese. Con lui, impegnato tra chitarra, batteria e voce, sono coinvolti due membri dei Madrugada come Gianfranco Pinto (tastiere) e Billy Zanelli (basso), oltre al rinomato fiatista Claudio Pascoli e alla stessa moglie di Paoluzzi, Luciana, alla voce. Questo ensemble firma un solo album, "Invasori", interamente firmato da Paoluzzi e realizzato per la Phonogram all'inizio del 1977: ne uscirono soltanto poche copie promozionali e venne poi lasciato al suo destino, senza nessuna vera distribuzione, a causa delle mutate strategie produttive della label. In realtà si tratta di un disco piuttosto interessante, una sorta di concept formato da dieci episodi, sempre in bilico tra canzone pop e spunti progressivi in odore di "space rock". L'iniziale title-track ad esempio riecheggia da vicino i Pink Floyd di "Wish You Were Here", con largo uso di synth e sonorità rarefatte, mentre altrove si ascoltano vivaci episodi strumentali di sapore etnico con flauto e percussioni in evidenza ("Corallo"), melodie arricchite da ritmi "funky" ("Monj"), fino a intriganti canzoni di gusto fiabesco ("Piccolo re"). Il livello generale è comunque discreto, con arrangiamenti curati e a volte molto personali: ad esempio "Arcipelago", un crescendo di buona suggestione con tastiere, fiati e chitarra elettrica in evidenza, o anche la lunga progressione di "Xanadù", costruita sul pianoforte e ancora segnata dai fiati. "Naufragio", con la chitarra acustica e le voci sommesse in primo piano mostra invece il lato più intimista del gruppo, mentre in "Bazar" il sax di Pascoli spicca in uno schema di morbido jazz-rock. Pur soffrendo di una certa varietà di toni, "Invasori" rimane un esempio più che dignitoso del tardo prog italiano dei Settanta, a lungo relegato nell'oblio e oggi recuperato grazie alla ristampa AMS del 2007 (con una nuova copertina) e in seguito inserito anche nel cofanetto "Progressive Italia - Gli anni '70 vol.6".

"Invasori"

  Panna Fredda   - Gruppo formato a Roma nel 1969 sulle ceneri di un gruppo Beat chiamato I Figli del Sole, ribattezzato poi Vun Vun dal nome del club romano dove la band si esibiva abitualmente. Dopo due 45 giri realizzati finalmente con la sigla Panna Fredda nel 1970, e alcuni cambi in organico, il quartetto realizza l'album "Uno", pubblicato però dalla Vedette solo nel 1971, cioè con mesi di ritardo rispetto alla registrazione, quando ormai la band è in via di scioglimento. Da notare che alcuni brani avranno una buona promozione radiofonica, ad esempio nel programma "Per voi giovani", condotto all'epoca da Paolo Giaccio, ma nonostante ciò il disco non ebbe riscontri accettabili, soprattutto a causa della carente distribuzione da parte della stessa etichetta. Comunque sia, nelle sei tracce dell'album i quattro componenti danno vita a un rock innovativo, non sempre efficace ma interessante per il tentativo di uscire dai confini della canzone più melodica. Lo testimonia anche la ripresa, sia pure parziale, di "Heaven" dei Gracious nel brano "Un re senza reame". Anche se la sequenza non riesce a proporre uno stile davvero omogeneo, di sicuro gli spunti degni di nota non mancano. Oltre alla vivace chitarra elettrica di Angelo Giardinelli, spesso in primo piano come la sua bella voce, insieme all'organo di Lino Stopponi e alla discreta presenza del basso di Pasquale Cavallo, la musica della band si avvale ad esempio di alcuni effetti speciali all'epoca abbastanza inediti, già nell'iniziale "Paura", e di larghi interventi di clavicembalo in un pezzo come "Il vento, la luna e pulcini blu": è forse il momento più ambizioso della scaletta, per via di sonorità sperimentali, tra spunti di chitarra acustica, fratture ritmiche ed effetti elettronici. E' un album che vive di atmosfere oscure, anche frammentarie, sottolineate dalle stesse voci, con qualche residuo melodico e cantabile che affiora qua e là, ad esempio in "Scacco al Re Lot", tra i migliori, che cita anche un frammento dell'inno italiano. Nelle liriche di "Un uomo", firmate da Giardinelli come le musiche, si recupera la figura incompresa di Cristo, secondo un leiv-motiv di molto pop italiano, in qualche modo ereditato dallo spirito pacifista del Beat anni Sessanta. A conti fatti, il merito principale dei Panna Fredda, e di altre band minori di quella stagione, rimane proprio lo sforzo di allargare i confini della musica italiana in una fase di passaggio molto delicata tra due decenni. Il batterista Roberto Balocco ha suonato in seguito nell'unico album dei Capsicum Red. Ristampe con bonus-tracks dei singoli a cura di BTF e della tedesca Mayfair.

"Uno"

"Scacco al Re Lot"

  The Alan Parsons Project   - Ingegnere del suono noto soprattutto per "The Dark Side of the Moon" dei Pink Floyd, l'inglese Alan Parsons (classe 1948) è stato anche produttore e musicista. Nel 1975 forma con il pianista e autore scozzese Eric Woolfson un gruppo di studio supportato dall'orchestra, che non suonerà mai dal vivo: il sodalizio frutta dieci dischi e grandi successi. L'album d'esordio per The Alan Parsons Project, e forse il migliore, è "Tales of Mystery and Imagination - Edgar Allan Poe" (), pubblicato nel 1976: ispirato ai racconti dello scrittore americano, è una sequenza di eccellente fattura nel solco di un prog-rock sinfonico e melodico. La versione digitale include effetti sintetici e aggiunte, come la voce di Orson Welles in "A Dream Within a Dream". "The Raven", con Parsons che canta utilizzando il "vocoder", è un gran pezzo: incisiva la chitarra elettrica di Ian Bairnson e anche l'orchestra diretta da Andrew Powell, come nella suite strumentale "The Fall of the House of Usher", apoteosi del mondo gotico di Poe. "The Tell-Tale Heart" è un duttile rock cadenzato sulle chitarre e valorizzato dal canto vibrante di Arthur Brown, mentre "The Cask of Amontillado", cantata da John Miles, evoca i Beatles e punta sulla maestosa progressione dell'orchestra. Nel successivo "I Robot" (1977) il tema della civiltà robotica, ispirato da Isaac Asimov, giustifica sonorità più sintetiche fin dalla title-track, con il coro e il synth di Parsons in evidenza. Tra le pagine pop spiccano "Some Other Time" e "Don't Let It Show", con l'organo di Woolfson di sfondo alla voce di Dave Townsend, ma il disco sta soprattutto nel crescendo pulsante di "Breakdown" o in "The Voice", mistura disco-funky orchestrale, fino alla grintosa "I Wouldn't Want To Be Like You". Bella la sequenza finale, da "Total Eclipse", che riecheggia György Ligeti, a "Genesis Ch1 v32", con il coro e l'arrangiamento sontuoso. Con "Pyramid" (1978) si torna ad un "art pop" romantico per raccontare la vita e la morte attraverso l'antico Egitto. E' tra i dischi più noti del Project, con diversi temi saccheggiati da spot e sigle televisive: ad esempio "Hiper-Gamma-Spaces", con i synth protagonisti, o l'attacco di "Voyager". Si segnalano "What Goes Up", cantata da David Paton, il morbido pop sinfonico di "The Eagle Will Rise Again", e il mordente "Can't Take It With You", scandito dalla chitarra "floydiana" di Bairnson. L'orchestra di Andrew Powell domina invece "In the Lap of the Gods", momento sinfonico per eccellenza. "Eve", disco del 1979 dedicato al mondo femminile, è invece deludente: nonostante ospiti eccellenti, come la vocalist Clare Torry in "Don't Hold Back", la sequenza vive di canzoni rifinite ma poco eccitanti: un esempio è "Damned If I Do", cantato da Lenny Zakatek e piccolo hit negli States. Meglio lo strumentale "Lucifer", mix sperimentato di synth, coro e orchestra. "The Turn of a Friendly Card" (1980), concept sul gioco d'azzardo, recupera il prog sinfonico degli inizi. Per la prima volta Wollfson canta, e molto bene, la struggente ballata "Time", picco dell'album insieme allo strumentale "The Gold Bug", col celebre tema di sax. Il vertice però è la suite del titolo divisa in cinque parti: se la chitarra solista di Bairnson si fa notare in "Nothing to Lose", "The Ace of Swords" è dominata dalle tastiere di Parsons, mentre le due parti omonime evidenziano la voce romantica di Chris Rainbow e l'arrangiamento orchestrale. Dopo il picco commerciale di "Eye in the Sky" (1982), altra raccolta notevole con il grande hit della melodica title-track, la famosa "Sirius" e quindi "Mammagamma", brano creato grazie a software computerizzati, il gruppo prosegue fino a "Gaudì" (1987), ultimo atto del sodalizio. Woolfson, scomparso nel 2009, riutilizza poi musiche composte per APP in alcuni fortunati musicals come "Gambler", e Parsons incide altri dischi a suo nome. Notizie nel sito ufficiale.

"Tales of Mystery and Imagination - Edgar Allan Poe"

  Gigi Pascal e la Pop Compagnia Meccanica   - Nato come Giancarlo D'Auria, il cantante napoletano Gigi Pascal muove i primi passi nella stagione beat degli anni Sessanta: in questa ottica infatti escono i primi singoli da lui firmati tra il 1969 e il 1970, come "Alla fine della strada", che gli procurano una piccola fama locale. Solo in seguito, con la sigla allargata alla Pop Compagnia Meccanica, c'è il tentativo di approcciare in superficie la moda del progressive, senza snaturare troppo uno stile che resta ben lontano dalle esperienze maggiori. Nel 1973 viene così pubblicato l'album "Debut" per la piccola etichetta Fans/Phonotype. Si tratta di otto brani che non escono quasi mai dal tipico formato della canzone breve, per una durata complessiva che resta inferiore ai trenta minuti. Con il cantante suona un quartetto che nelle note di copertina viene indicato con i soli nomi di battesimo, ma oggi sappiamo che il batterista è Fulvio Marzocchella, musicista che vanta collaborazioni con nomi di spicco quali Nico Fidenco, Patty Pravo e Umberto Bindi. Anche se la sequenza, nella sua semplicità, rimane piuttosto gradevole, è difficile trovare per gli appassionati prog dei momenti di grande interesse, dato che Pascal è quasi sempre protagonista dei pezzi con il suo tipico vibrato melodico, come si nota già nell'attacco di "La tua voce". Se i testi sono poco interessanti, musicalmente la parte migliore è quella svolta dalle tastiere: l'organo di Mario caratterizza l'intera scaletta col suo timbro caldo e vivace, ad esempio in "Ormai". Si nota lo sforzo di uscire dal seminato con qualche fuga organistica di ascendenza classica: è il caso dello strumentale "Fuga in Si minore", ben giocato sulla ritmica incalzante, in un susseguirsi di pause atmosferiche e riprese, fino al lungo assolo di batteria. In "Crescente", basato sul binomio di organo e chitarra, la voce di Pascal è particolarmente energica in uno schema ritmico concitato. La title-track mette insieme in modo frammentario nuove fughe d'organo, un testo parlato e riff di chitarra, mentre "Un concerto" è una canzone di onesta fattura. Nello strumentale di chiusura, "Io mi diverto", si nota la verve del gruppo, con il ricco fraseggio dell'organo, il coro e la batteria sempre dinamica a guidare le danze. Episodio decisamente minore degli anni Settanta, "Debut" dimostra in ogni caso la capacità di penetrazione di certi modelli musicali d'oltremanica anche nell'ambito del pop leggero italiano.

"Debut"

  Paternoster   - La scena austriaca non è stata molto prolifica per il rock progressivo, e i Paternoster restano tra i pochi nomi degni di essere ricordati. La band si forma a Vienna nei primi Settanta per sciogliersi poco dopo la pubblicazione del suo unico album. Il disco omonimo, composto di sette brani e realizzato nel 1972 per la CBS, divide da sempre gli appassionati tra entusiasti e perplessi. Il quartetto austriaco sembra influenzato sia dal primo krautrock che da certa psichedelia inglese, ma a colpire sin dal primo ascolto è la sconcertante voce del tastierista Franz Wippel, che lascia un segno indelebile su tutta la sequenza, nel bene e nel male. Non si tratta certo di un vocalist dotato: il suo canto è generalmente monocorde e spesso decisamente sgraziato, ma proprio per questo adeguato, paradossalmente, all'atmosfera sinistra della musica e delle liriche. Si apre con la straniata recita in latino del "Paternoster", e si procede tra quadretti di vita comune osservati come dietro un velo di assoluta estraneità: è il caso di "Stop These Lines", con l'organo gotico e la chitarra piena di effetti psichedelici di Gerhard Walter a sostenere la voce solista. A parte sporadiche fughe strumentali, come nell'attacco ritmico di "Old Danube", col basso in evidenza insieme all'organo, la musica procede come in stato di trance, assecondando umori molto neri. Esemplare in questo senso è "Blind Children", sempre con l'organo da chiesa in primo piano insieme al canto angosciato, e ficcanti inserti ritmici nel mezzo che spezzano solo temporaneamente il "mood" disperato del brano. Il testo di "The Pope is Wrong" aggiunge una nota di sprezzante antipapismo alla ricetta, secondo una tendenza diffusa nell'underground tedesco, mentre l'epilogo di "Mammoth Opus 0" ripropone la miscela gotico-barocca del disco su basi più vivaci, con insistite variazioni dell'organo fino al termine. A prescindere dalla prova del cantante, il disco dei Paternoster resta un esempio di prog psichedelico dalle tinte particolarmente cupe, non privo di suggestione: merita un ascolto, pur senza guadagnarsi il titolo di album fondamentale. CD a cura di Ohrwaschl Records.

"Paternoster"

  Patto   - Quello dei Patto è il classico esempio di una band di grande talento stranamente mai giunta al successo. A formarla sono appunto il cantante Mike Patto e il chitarrista Peter Halsall, già insieme in band inglesi minori, affiancati da Clive Griffiths (basso) e John Halsey (batteria). In questa formazione il gruppo incide il primo disco omonimo () nel 1970 con la Vertigo: il fondamentale approccio rock-blues si esalta nella potente vocalità di Mike Patto (un Joe Cocker più duttile) e nell'eccelsa tecnica chitarristica di Halsall, in otto tracce che riservano più di una sorpresa. Splendida l'apertura di "The man", irresistibile crescendo di pathos intorno alla voce, ma si procede poi con bollenti blues elettrici ("Hold me back" o "Red glow") esemplari di un suono compatto e insieme imprevedibile, ricco di aperture progressive. Lo si nota in pezzi meno convenzionali come "Time to die", con la chitarra acustica e il sofisticato apporto del duo ritmico, in "Government man" (con un inserto di vibrafono), ma soprattutto nella lunga "Money bag": qui un elegante fraseggio jazzato, con la chitarra di Halsall e il basso che s'incrociano, crea una tensione sciolta solo dalla calda voce solista. Disco eccellente, seguito da una replica dello stesso livello e appena più melodica come "Hold Your Fire" (1971) . I brani si compattano fino a un perfezionismo assoluto, che tuttavia non diventa mai routine. La lunga title-track, che apre sontuosamente le danze, prelude alla raffinata "You, you point your finger", limpido manifesto generazionale esaltato da una voce profetica. Magnifico il blues-jazz confidenziale di "How's your father", tra guizzi di chitarra e un piano in stile boogie. Il ritmo torna imperioso e la voce roca quanto serve in brani come "See you at the dance tonight" e "Give it all away", ma l'episodio più intrigante stavolta è "Air-raid shelter", frantumato nel ritmo da una chitarra capace di improvvise fiammate insieme alla batteria. Nella chiusura di "Magic door" torna anche il vibrafono a impreziosire la bella trama melodica. Il gruppo ci riprova quindi nel 1972 con "Roll'em smoke'em put another line out", pubblicato stavolta dalla Island, ma le cose non cambiano e la band si sfalda. Patto e Halsall si ritrovano poi nei Boxer tre anni dopo, ma il cantante muore di cancro nel 1979. Cd a cura di Mercury e Akarma.

"Hold your fire"

  Pavlov's Dog   - Formato a St. Louis nel 1973 dal batterista Mike Safron, questo gruppo a lungo dimenticato, che si richiama nel bizzarro nome allo scienziato russo premio Nobel nel 1904 per le sue ricerche sul riflesso condizionato, ha realizzato uno dei migliori dischi in stile progressive pubblicati negli Stati Uniti nel corso dei Settanta. In effetti, un album di debutto come "Pampered Menial" (1975) si configura come un vero 'unicum', per una serie di fattori. Su tutti domina la straordinaria presenza vocale di David Surkamp (di origini indiane), che caratterizza da solo l'intera scaletta, ma c'è poi da rimarcare la folta strumentazione del settetto, che comprende tra l'altro due tastiere, incluso il mellotron di Doug Rayburn, viola e violino (Siegfried Carver) e il flauto. Nonostante le suggestioni classicheggianti siano presenti in tutti i pezzi, bisogna pure sottolineare che la band rimane abbastanza americana nella scrittura, sempre piuttosto sintetica e asciutta (solo un titolo oltre i cinque minuti), e in certi arrangiamenti che sanno condire atmosfere barocche con incisive zampate di genuino rock per chitarra elettrica e pianoforte. La miscela produce comunque una sequenza di titoli emozionanti che lasciano il segno: dall'attacco romantico di "Julia", splendida performance vocale di Surkamp con pianoforte, flauto e mellotron di sfondo, passando per la sferzante "Song Dance", con la chitarra solista di Steve Scorfina che inanella riff incisivi, fino alla più roccheggiante "Natchez Trace", brano che vede organo e piano al proscenio, prima che il violino riannodi brillantemente i fili per il gran finale. Stupenda è anche la chiusura del disco, "Of Once and Future Kings": introdotta da un flauto arcano in un quadro di nostalgia medievale, prima sostiene e poi sigilla il canto accorato di Surkamp tra un violino languido e note tiratissime di chitarra. Magnifico suggello davvero per un piccolo capolavoro. Segue nel 1976 "At the Sound of the Bell": è un disco che privilegia stavolta un pop raffinato e meno sanguigno, che non manca però di attrattive. Si segnalano la romantica "She Came Shining" in apertura, poi "Valkerie", con il sax in evidenza, e anche l'epilogo di "Did You See Him Cry", tra mellotron e bei cambi di tempo. Dopo un altro disco come "Third" (1977) la band interrompe quindi l'attività fino al 1990, quando esce finalmente "Lost in America". Recentemente però i Pavlov's Dog sono tornati nuovamente attivi in una nuova formazione, pubblicando prima "The Adventures of Echo & Boo and Assorted Small Tails" (2010), e quindi "Live and Unleashed" nel 2011. Altre notizie sulla band americana nella pagina Facebook.

"Pampered Menial"

  Pax   - Anche il Perù ha sfornato alcuni gruppi interessanti in ambito rock e psichedelico, con una singolare predilezione per quello più duro, già a partire dall'ultimo scorcio degli anni Sessanta. I Pax, una band formata a Lima nel 1969 dal chitarrista Enrique "Pico" Ego Aguirre (ex-Los Shain's), fanno parte appunto di questa nuova ondata che ebbe vita piuttosto breve, pur lasciando un segno nella scena sudamericana. Dopo un primo 45 giri come "Resurrection of the Sun" / "Firefly" (1969) il gruppo si stabilizza come quintetto, incluso il bassista e chitarrista americano Mark Aguilar, e pubblica nel 1972 il suo primo e unico album per l'etichetta Sono Radio: "May God and Your Will Land You and Your Soul Miles Away". Sono otto tracce perlopiù improntate a un vibrante hard rock chitarristico, con apporti solo sporadici di piano e organo, oltre a qualche isolato spunto melodico più vicino alle radici latine. Bisogna sottolineare che il quintetto non mostra nessun complesso d'inferiorità verso certe sonorità anglo-americane, come si vede dall'attacco di "A Storyless Junkie", torrido episodio dominato dalla vibrante chitarra solista di Aguirre e ben cantato dal grintoso Jaime Orue Moreno, e poi ancora nella cadenzata e oscura "Deep Death", dove la sei corde è affiancata dalle note psichedeliche dell'organo. Nella stessa scia scorre pure "Pig Pen Boogie", con riff in serie e un gran lavoro di batteria, mentre "Rock an' Ball" è un rock'n'roll quasi da manuale, col piano suonato a martello sotto la chitarra, ma nella sequenza c'è spazio anche per altri sapori. È il caso soprattutto della delicata "For Cecilia", una melodia sviluppata sulla chitarra acustica e sorretta dagli archi fino al solo elettrico in coda, e poi di un brano intrigante quale "Green Paper", ancora con la chitarra acustica in evidenza e le voci quasi in stile west-coast. Più canonico, comunque efficace, invece è il rock abrasivo di "Sittin' on My Head", nel quale trionfa una chitarra davvero alla Hendrix, e la solita voce energica in primo piano. Senza essere un capolavoro, il disco dei Pax ha il merito di aver accompagnato la musica rock peruviana verso nuovi orizzonti, in un'epoca anche storicamente difficile per la cultura giovanile del paese (dal 1968 caduto sotto la dittatura militare del generale Alvarado), e anche se penalizzato forse, a tratti, da una qualità di registrazione non impeccabile, può stupire piacevolmente l'ascoltatore. Varie le ristampe, in CD e vinile, con bonus-tracks che includono i singoli e anche covers di pezzi famosi: da "Dark Rose" (Brainbox) a "Smoke on the Water" (Deep Purple).

"May God and Your Will Land You and Your Soul Miles Away"

  Pentacle   - Un gruppo francese formato a Belfort nel 1971, responsabile di un solo ma apprezzato album nella sua breve storia. Il quartetto arriva in sala di registrazione anche per l'appoggio di Christian Decamps (Ange) in veste di produttore, e "La Clef Des Songes" (), pubblicato nel 1975, è davvero un disco pregevole, pienamente inserito nell'area del prog sinfonico e romantico. Sei episodi ben calibrati tra le tastiere di Claude Menetrier e la chitarra solista di Gerald Reuz, che si disimpegna bene anche nelle parti vocali, a cominciare dall'efficace title track posta in apertura. Tra incisivi riff chitarristici, il canto trasognato e il pathos delle tastiere i Pentacle mostrano un sound maturo e abbastanza personale, con delicati accenti lirici tipicamente francesi. Il suono dell'organo caratterizza "L'ame du guerrier", altro episodio di rilievo, scandito da pungenti inserti di chitarra e improvvise accelerazioni ritmiche, con il synth di Menetrier in bella evidenza. Se "Les Pauvres" è una composizione più intimista, con la chitarra acustica, il piano e la voce sofferta in primo piano, più il synth tenuto di sfondo, "Complot" è invece un altro brano corposo di ampio respiro, ben bilanciato tra le parti liriche e la progressione del tema principale delle tastiere: nei piccoli breaks ritmici che si aprono svetta ancora la chitarra solista di Reuz. La chiusura è affidata alla composizione più lunga del disco, "Le Racounteur": accanto alle sonorità più sognanti, i larghi spazi di synth e le prolungati variazioni chitarristiche mostrano un lato più roccheggiante che non scalfisce però l'anima fondamentalmente romantica di questo valido quartetto. In generale, l'elemento più caratteristico è proprio il chitarrista, nel quale una limpida qualità tecnica si unisce alla discreta varietà dei suoi interventi, eleganti e mai gratuiti. Anche per questo, "La Clef Des Songes" rimane uno dei manifesti più genuini del prog transalpino dei Settanta. Cd Musea.

"La Clef Des Songes"

  Pentola di Papin   - Una delle tante band senza infamia e senza lode del pop italiano, venuta fuori oltretutto quando il progressive aveva già offerto le sue cose migliori. Il gruppo è lombardo, originario di Sondrio, e prende corpo nel 1976 dall'unione di musicisti attivi da qualche anno in oscure band minori della zona. L'unico album conosciuto della Pentola di Papin (vale a dire la pentola a pressione) è "Zero - 7", pubblicato nel 1977 dalla piccola etichetta Disco Più. La mediocre qualità della registrazione non aiuta di certo ad apprezzare la musica proposta, ma in ogni caso il pop-rock di questo quartetto (tastiere/voce, chitarra, basso e batteria) dominato dalle tastiere di Ferruccio Bettini e dalla chitarra elettrica di Angelo Lenatti, con qualche effetto fin troppo ridondante di synth, come ad esempio la lunga "Introduzione", con interludi psichedelici col basso in evidenza accanto all'organo, o anche "Stacco I", ripercorre largamente, e in netto ritardo, modelli già affermati del progressive italiano più noto, senza mai trovare soluzioni davvero originali. La sequenza si compone infatti di sette brani piuttosto disomogenei, caratterizzati da parti vocali fin troppo melodiche ed enfatiche ("Una vecchia storia", costruita sul pianoforte) e testi in stile quasi cantautorale, senza spunti strumentali di particolare rilievo: la scrittura appare episodica, senza un'accettabile articolazione dei temi, come si vede anche nello strumentale di coda "Conclusioni", che replica senza fantasia il binomio tastiere-chitarra, con piccole accelerazioni della batteria. Dopo la pubblicazione del disco, passato inosservato, e in assenza di una significativa attività live al di fuori del circuito locale, del gruppo lombardo si perdono in fretta le tracce, con l'unica eccezione del chitarrista Lenatti, che firma da solista tre 45 giri in stile disco negli anni Ottanta, a partire da "Ogni giorno di più" (1982). La ristampa in CD a cura della Vinyl Magic (1993) presenta una copertina diversa da quella del 33 giri originale.

"Zero - 7"

  People   - Effimera meteora della scena psichedelica giapponese, il progetto People nasce dall'incontro di cinque artisti attivi nel rock nipponico, tra i quali spicca il noto chitarrista Kimio Mizutani. Il titolo dell'album, "Ceremony ~ Buddha Meet Rock", pubblicato nel 1971, dice tutto sulle intenzioni del gruppo: trovare un punto di contatto tra lo spiritualismo buddista e il linguaggio del rock, in questo senso collegandosi al fenomeno delle Messe Beat tipiche degli anni Sessanta e al rock d'ispirazione religiosa. Ovviamente la chiave musicale è qui prettamente orientale: le otto tracce privilegiano infatti l'aspetto ipnotico-estatico, con pochi temi elementari portati a lenta saturazione per ingenerare il classico effetto di "trance" che, per certi versi, si concilia bene con il rock psichedelico. Nella lunga "Shomyo-part 1", ad esempio, il suono del gong e delle percussioni di Rarry Sunaga introduce una sorta di mantra scandito dalla chitarra solista di Mizutani e dal coro salmodiante l'invocazione riferita al celebre Sutra del Loto ("Nam myoho renge kyo") capace di portare all'illuminazione, mentre sullo sfondo rintocca il timbro ossessivo dell'organo di Yusuke Hogucki. Un episodio che cattura il nucleo vero di tutta l'operazione, nei pregi come nei limiti. E' una sequenza ricca di pause e sfumature, nella quale il silenzio vale quanto le voci e il suono, ma che può risultare anche indigesta. "Flower Strewing" è un brano esemplare: ancora le percussioni, con l'apporto più rarefatto del chitarrista, sostengono il coro fino al termine e senza variazioni. In "Gatha" Mizutani si destreggia anche al sitar, introducendo una nota ancora più esotica nell'atmosfera generale, mentre privilegia la chitarra acustica in "Prayer-part 1", dove si ascoltano anche note frammentarie di pianoforte. Il rovescio di questo clima spirituale, a suo modo coerente e rigoroso, è invece "Prayer-part 2", una sorta di estasi erotica dove un tessuto rock molto corposo, con Mizutani in grande spolvero, si accompagna ai gemiti orgasmici delle voci femminili, subito prima della chiusura di "Epilogue", dominata dai suoni naturali in un crescendo orchestrale. Il disco firmato dai People rimane un episodio indubbiamente minore del rock nipponico, ma anche una chiara testimonianza di quello spirito di contaminazione, a volte iconoclasta, che ha nutrito la musica degli anni Settanta. CD Phoenix Records.

"Ceremony ~ Buddha Meet Rock"

  Phoenix   - Sicuramente la più famosa band romena degli anni Settanta, i Phoenix si formano a Timisoara nel lontano 1962. Il primo nome è Sfintii (Santi), poi cambiato perché il regime comunista non vuole riferimenti religiosi. Guidato da Nicolae Covaci (chitarra e voce) il gruppo incide i primi singoli intorno al 1965, in una chiave beat ispirata ai gruppi inglesi dell'epoca. Dopo due EP tra il 1968 e il 1969 che accrescono la loro fama in patria, dal 1970 il gruppo si avvicina prima a suoni blues-psichedelici e quindi ad un folk intriso di paganesimo e mitologia, collaborando non a caso con l'istituto di etnografia dell'università di Timisoara. Un primo risultato è l'album "Cei ce ne-au dat nume" ("Quelli che ci hanno dato il nome") uscito nel 1972. Il quintetto allinea undici tracce tra folk e rock, con vivaci intrecci chitarristici che insieme alle voci in lingua madre danno vita a un paesaggio sonoro affascinante. Spiccano la misteriosa "Jocul Timpului", dominata dal flauto dolce di Covaci, la ficcante "Introducere", col basso di Iosif Kappl in evidenza, e il cadenzato rock di "Vara", fino allo splendido trittico finale. "Nunta" è un hard rock che impasta le voci corali e le chitarre acide di Covaci e del cantante Mircea Baniciu. Il violino di Kappl si ascolta in "Negru Voda - Balada", imprevedibile mistura di folklore, rock'n'roll, melodia e improvvisazione, e trascinante è pure la finale "Pseudo-Morgana", caratterizzata dal basso. Il versatile talento del gruppo, tanto famoso quanto inviso alla censura, che vieta la realizzazione della rock-opera "Mesterul Manole" (a parte un EP uscito nel 1973), si conferma con "Mugur de fluier" (1974), disco maturo e riflessivo che lascia emergere il lato folk e sonorità più composite. Scandita dalle cinque riprese di "Lasa, Lasa", la sequenza affina le parti vocali ("Strunga"), coniugate spesso a una ritmica battente ("Pavel Chinezu, leat 1479"), con le chitarre in primo piano insieme alle percussioni. Si segnalano la trascinante "Muzica si muzichie", e l'uso del flauto dolce nella melodica title-track, mentre l'epilogo di "Dansul codrilor" ("Danza dei boschi") è un ficcante folk-rock elettrico che porta al proscenio il violino di Kappl in un crescendo che lascia il segno per la voce di Mircea Baniciu e il lavoro creativo del basso. L'apogeo dei Phoenix resta comunque il successivo "Cantafabule"(), doppio album realizzato nel 1975 con il batterista Ovidiu Lipan e per la prima volta un tastierista, Günther Reininger, impegnato soprattutto al synth. La meravigliosa apertura di "Invocatie", fosca e avvolgente sulle chitarre, il synth e la voce di Baniciu, è una pietra miliare del rock romeno. Un lungo elenco di creature leggendarie (ispirate al romanzo settecentesco "Istoria Ieroglifica" di Dimitrie Cantemir) introduce un'atmosfera da bestiario medievale, con belle pause in chiave acustica, suggestive armonie vocali e continue riprese del tema iniziale: un gioiello. Colti richiami al Medioevo, addirittura in lingua francese ("Norocul Inorogului"), con flauto e chitarre acustiche protagoniste ("Stima casei"), si alternano a vibranti pagine rock ("Pasarea Calandrinon"), fino al tentativo di fondere le due anime: ad esempio "Delfinul, dulce dulful nostru" e anche "Vasiliscul si Aspida". Un paio di tracce fuori contesto ("Pasarea Roc...k And Roll"), non inficiano il valore di un disco sigillato dalla delicata chiusura di "Phoenix", la creatura simbolo del gruppo. Raggiunto l'apice creativo, la band va alla deriva: Covaci fugge in Germania con i compagni, dove però i nuovi progetti non hanno successo. Nel 1990 il gruppo torna in Romania, ma solo nel 2004 appare un nuovo disco intitolato "Vino,Tepes!". Altre notizie nel sito ufficiale. Ristampe Second Harvest.

"Cantafabule"

  Pholas Dactylus   - Il nome dei Pholas Dactylus (che è poi quello di una conchiglia) resta legato a uno dei progetti musicali più affascinanti della scena progressiva italiana. La band prende forma nel 1972 tra musicisti d'area lombarda attivi fin dagli anni Sessanta in gruppi minori come Puritani e Macus 67: la formazione assume dapprima il nome di Spectre e quindi opta per la sigla definitiva, cominciando a esibirsi con immediato successo nei festival pop dell'epoca. Oltre al Davoli Pop di Reggio Emilia, resta memorabile soprattutto la loro partecipazione al Meeting Pop Festival di Genova del 1972, dove si esibiscono per due serate di fila su richiesta dello stesso pubblico in delirio. Notati a questo punto da Vittorio De Scalzi, l'album d'esordio viene pubblicato per la sua etichetta Magma: "Concerto delle menti" (), uscito nell'Aprile del 1973, si presenta davvero come un disco dai tratti personalissimi e con pochi riscontri nel panorama italiano di quegli anni. Tanto per cominciare, il sestetto (due tastiere, chitarra, basso, batteria e voce solista) ha il suo focus nelle parti vocali, dato che i testi, visionari e decisamente psichedelici, sono in pratica un lungo poema che Paolo Carelli non canta, ma piuttosto declama in maniera enfatica e teatrale. Come un autentico viaggio mentale, che richiama i trip allucinogeni dell'acid-rock californiano, il "concerto" dei Pholas si dipana in una successione di spunti e atmosfere che variano dal free-jazz più innovativo all'impronta avvolgente e quasi "dark" garantita dai due tastieristi Maurizio Pancotti e Valentino Galbusera. Il vero punto a favore di questa proposta sembra però la chitarra solista del talentuoso Eleino Colladet, sempre capace di rilanciare l'anima multiforme del gruppo con una serie di brillanti riff in chiave jazz, che scandiscono i tempi dell'intera sequenza. Il risultato complessivo è davvero notevole: un mosaico sonoro ricco di pathos e progressioni strumentali trascinanti, mentre la voce recitante, ora evocativa e ora più grintosa, ci accompagna in una sfida continua al senso comune, tra richiami biblici e suggestive immagini che invitano a superare le "porte dimensionali". Una mordace critica di ogni conformismo, l'utopia di una lingua senza barriere (ad esempio i frammenti di esperanto qua e là) e squarci di vera poesia immaginifica convivono nel ribollente impasto di questo disco straordinario, rimasto purtroppo senza seguito. Nonostante i molti consensi critici e una serie di acclamatissime esibizioni, anche di spalla a nomi prestigiosi come i tedeschi Amon Düül II, i Pholas Dactylus non avranno infatti un futuro discografico, e si sciolgono alla fine del 1973. "Concerto delle menti", ristampato in CD da Vinyl Magic e in vinile da Black Widow, resta comunque un album da non farsi scappare: insomma, quel che si dice un "must" del rock progressivo italiano più coraggioso. Nel 2011 Paolo Carelli è tornato alla ribalta come voce ospite nel disco d'esordio del gruppo Labirinto di Specchi intitolato "Hanblecheya" (Lizard). Più avanti, lo stesso cantante-poeta, con Pancotti, Linati e altri elementi, riforma quindi i Pholas per realizzare nel 2019 un nuovo disco intitolato "Hieros Gamos" (AMS), dedicato alla memoria dello scomparso Giampiero Nava, batterista della prima formazione.

"Concerto delle menti"

  Picchio Dal Pozzo   - Una formazione originaria di Genova con pochi dischi all'attivo, ma in realtà attiva fin dal 1973. A cominciare dalla dedica del primo disco a tale Roberto Viatti (buffa italianizzazione per il grande Robert Wyatt), l'esperienza dei Picchio Dal Pozzo si configura come un esplicito omaggio alla scena musicale di Canterbury. Nel quartetto di base spiccano i fiati di Giorgio Karaghiosoff e le tastiere di Aldo De Scalzi, coadiuvati da Andrea Beccari (basso e corno) e Paolo Griguolo (chitarre), ma con loro suonano diversi ospiti del giro genovese, come Vittorio De Scalzi e anche membri dei Celeste (Ciro Perrino e Leonardo Lagorio), oltre a Pucci Cochis dei Jet. Strutturato in otto episodi, il primo album omonimo () pubblicato nel 1976 dalla Grog dello stesso De Scalzi, mantiene fino in fondo le promesse. Dopo l'intro liquida e atmosferica di "Merta", nella sequenza brillano brani decisamente raffinati come "Cocomelastico", scandito dai fiati e dal basso di Adrea Beccari, e quindi la mini-suite in tre tempi "Seppia": episodi nei quali il timbro del sax e dell'organo rievocano l'atmosfera cerebrale, trasognata e a tratti burlesca e surreale, della migliore tradizione canterburiana, con echi in particolare dei rinomati Henry Cow. Di grande effetto soprattutto la tensione ritmica di "Sottotitolo", arricchita da vocalizzi, effetti elettronici e percussioni assortite, mentre più articolata scorre "Napier", per l'uso massiccio del flauto (lo suonano in quattro!) e le continue fratture ritmiche in una sorta di caos organizzato, con note di pianoforte e intermezzi vocali affogati nella scorribanda fiatistica. E' una formula sonora ricca e indubbiamente molto personale, che deflagra poi in "La floricoltura di Tschincinnata", mentre "La bolla" e soprattutto la conclusiva "Off" si placano nel dialogo assorto di piano e flauto, con vocalizzi trasognati a supporto. Un esordio di tutto rispetto nel panorama italiano dell'epoca. Solo quattro anni più tardi, però, la band realizza per l'etichetta l'Orchestra il secondo e ultimo album, "Abbiamo tutti i suoi problemi" (1980), col nuovo sassofonista Roberto Romani. Brani inediti del periodo 1977-1980 hanno invece visto la luce in "Camere Zimmer Rooms", edito dalla Cuneiform nel 2001. Da solista, Aldo De Scalzi vira poi verso sonorità world e new age in album come "Maccaia" e "Mirag", e in seguito firma con Pivio alcune colonne sonore di successo: ad esempio per il film "Il bagno turco" del regista Ferzan Ozpetek. Varie le ristampe oggi disponibili, anche in vinile.

"Picchio Dal Pozzo"

  Piero e i Cottonfields   - Personaggio minore del pop italiano, Piero Cotto si guadagna comunque un piccolo posto nelle cronache musicali degli anni Settanta. Originario di Asti, sul finire dei Sessanta il cantante vive negli States, dove suona la chitarra in una formazione chiamata Majority One. Terminata quell'esperienza e rientrato in Italia, Cotto mette insieme un suo gruppo e nel 1972 realizza il 45 giri "Due delfini bianchi"/"Via Mazzini 31" per la Joker: grazie alla partecipazione del pezzo al Disco per l'Estate, lo stesso anno viene quindi realizzato l'album "Il viaggio, la donna, un'altra vita", uscito per l'etichetta Music (Saar). Il disco si compone di nove tracce, tutte comprese tra i tre e i cinque minuti di durata: si tratta senza dubbio di canzoni, lontane dalle ambizioni altisonanti del progressive vero e proprio, ma in ogni caso gradevoli perché suonate con discreta vena dalla formazione. La felice vena melodica di Cotto, cantante dal timbro ruvido che un poco lo avvicina al primo Ivano Fossati e simili, è l'ombelico vero della sequenza: i suoi musicisti mostrano comunque un certo spessore, anche all'interno d'un disegno sonoro molto unitario. Interessante il lavoro del tastierista Adelmo Musso in "Silvia", per l'uso del synth, e soprattutto in "Cantico", un crescendo di bella intensità drammatica costruito sul pianoforte, dove il leader fa valere le sue doti vocali affiancato dal coro femminile, e si ascoltano prima il flauto e quindi la chitarra elettrica di Aldo Russo nel finale. Probabilmente è l'episodio più felice dell'album, ma di livello apprezzabile sono pure "E' mia madre", denso di riferimenti biografici e venato di nostalgia, ancora con il ficcante flauto di Maurizio Scarpellini in evidenza, o anche la title-track, costruita sulle chitarre e le percussioni di Luciano Saraceno, con il flauto delicato in appoggio: nel testo si coglie in pieno lo spirito nomade e genuinamente libertario di un'intera generazione. Gli altri brani sono tipici esempi di pop melodico, a volte datati per l'uso intensivo di coretti e stilemi strumentali, proposti però con buon mestiere, come "Due delfini bianchi", sostenuta da un ritmo trascinante e dalla valida interpretazione di Cotto, o anche "Regina d'Oriente". Tra il 1973 e il 1974 escono due altri singoli, prima che la band si disperda. Cotto prosegue da solista, e dopo un singolo portato a Sanremo ("Il telegramma", 1975), pubblica un disco cantato in inglese e intitolato semplicemente "Piero Cotto" (1978). In seguito collabora con il gruppo Gialma 3, in occasione dell'album "Gialma Planet" (1982), ed oggi è ancora attivo come cantante. Ristampa a cura di AMS.

"Il viaggio, la donna, un'altra vita"

  Pierrot Lunaire   - Fondati nei primi anni Settanta, i romani Pierrot Lunaire costituiscono l'ala più colta del progressive italiano. Vengono alla ribalta nel 1974 con un disco omonimo piuttosto interessante, che non a caso richiama fin dalla sigla la musica di Arnold Schoenberg. Con una formazione triangolare basata sulle ricche tastiere di Arturo Stalteri, le chitarre di Vincenzo Caporaletti e l'organo e la chitarra di Gaio Chiocchio (autore principale del materiale) il gruppo si destreggia tra suggestioni elettroniche e composizioni di forte influenza classica ("Ouverture XV"), col pianoforte in evidenza specie in "Lady Ligeia". Non mancano però momenti più sperimentali a struttura aperta, come "Arlecchinata" e "Mandragola". È un'opera prima eterogenea e non sempre calibrata, ma piena di idee e visioni, con liriche trasognate dai riferimenti esotici e letterari ("Raipure", ad esempio), e una certa freschezza di fondo. Dopo l'uscita di Caporaletti, che si dedica principalmente al jazz prima di trasferirsi più tardi negli Stati Uniti, e l'arrivo in organico della soprano gallese Jacqueline Darby, esce il secondo disco a nome del gruppo, cioè "Gudrun" (), pubblicato dalla It solo nel 1977, cioè quasi due anni dopo la registrazione, per problemi insorti con la label Vista. La musica del gruppo, affiancato in tre brani dal batterista Massimo Buzzi, è ormai sempre più vicina alla classica contemporanea e all'avanguardia, con spunti sperimentali di grande fascino sottolineati dalla duttile voce femminile, e suona come il viaggio d'una creatura fantastica attraverso uno scenario di guerra. Sono lunghi episodi dominati da sonorità elettroniche, come la suggestiva title track coi suoi molteplici richiami classicheggianti e medioevali a base di flauto e clavicembalo accanto al synth, ma nella sequenza entrano pure rarefatte parti di pianoforte ("Dietro il silenzio") e rivisitazioni colte ad effetto: è il caso della celebre romanza settecentesca "Plaisir d'amour", di Jean-Paul-Égide Martini, pubblicata anche come singolo. Tra i momenti di maggiore impatto si segnalano poi "Giovane madre", contrassegnato dalle tastiere incalzanti, e soprattutto i picchi drammatici della splendida "Morella", con la voce multiforme della Darby protagonista insieme a chitarra e pianoforte. L'album, per quanto fuori dai canoni più tipicamente rock, meritava certamente maggior fortuna, ma in una stagione travolta da fenomeni quali punk e disco-music ben pochi se ne accorsero. Dopo un paio di collaborazioni ai progetti di altri artisti dell'epoca, ad esempio "Tu ti nni fotti" della cantante-attrice Muzzi Loffredo e l'opera pop "L'Eliogabalo" di Emilio Locurcio, i Pierrot Lunaire si sciolgono e i membri prendono strade diverse: Gaio Chiocchio continua a scrivere per diversi cantanti ("1950" per Minghi, tra l'altro) e in seguito dirige l'etichetta discografica It, prima dell'improvvisa scomparsa nel 1996, mentre Arturo Stalteri inizia una carriera solista con album di elettronica minimalista come "Andrè sulla luna" (1979) e altri, sempre in bilico tra musica classica e nuove sonorità, come si può constatare nel suo sito ufficiale. Nel 2011 è stato infine pubblicato da MP Records "Tre", disco che include registrazioni inedite della band oltre a composizioni già note eseguite però da altri artisti. Ristampe a cura di MPR e BMG (CD) e Sony/BMG e Akarma (vinile).

"Gudrun"

  Ping Pong   - Uno dei molti gruppi minori, e spesso dimenticati, della scena italiana dei primi anni Settanta, i Ping Pong si formano tra Bologna e Modena, e schierano tra gli altri il bassista inglese Alan Taylor. Il disco d'esordio "About Time" è pubblicato nel 1971 per una piccola etichetta e interamente cantato in lingua inglese. E' una raccolta di dieci pezzi piuttosto brevi, dominato da flauto, sax e pianoforte, in una miscela alterna di rock, pop, jazz: oltre alla vivacissima title-track iniziale, segnata da un flauto davvero pirotecnico, si segnalano "Dark Morning Skies", ben cantata da Taylor, e la chiusura in chiave jazz dello strumentale "Funny Wife", ancora col sax in evidenza insieme alla batteria. Meno efficaci e irrisolte, invece, un paio di morbide ballate in scaletta. A differenza di questo primo disco, il secondo album omonimo (1973) è stato ristampato su CD da Mellow Records: ora la musica del sestetto, stavolta con i testi cantati in italiano, oscilla piacevolmente tra momenti più leggeri e altri strumentalmente più validi, con richiami al prog vero e proprio e accattivanti sfumature jazz. Nel filone più chiaramente pop e melodico rientrano ad esempio l'apertura de "Il miracolo", valorizzata però da un testo di spessore, e poi la più scherzosa "Caro Giuda", che chiude la scaletta. Altri pezzi offrono invece una dimensione più complessa, sicuramente apprezzabile, come la lunga "Suite in 4 tempi", con la sua atmosfera sofisticata, quasi sospesa, e liriche in tono: il pianoforte di Celso Valli e la chitarra di Mauro Falzoni, insieme alla ritmica, seguono qui una scansione tipicamente jazz, supportati a dovere dai fiati di Paride Sforza, soprattutto flauto e sax. Altri titoli, in particolare "Il castello", suonano invece come un singolare punto d'incontro tra le diverse anime del gruppo, con il grintoso motivo melodico s'una base rock che viene spezzato ad arte dalle staffilate del sax. Resta insomma dominante una vena leggera, ma raffinata e tutt'altro che banale, anche per le buone parti vocali di Giorgio Bertolani: piuttosto intrigante in questo senso è l'atmosfera di "Viene verso di me", articolata sulla chitarra acustica, il vibrafono e l'organo, con improvvise accelerazioni interne e i picchi espressionistici del flauto nel mezzo. Alla fine, seppure disuguale nei toni, il disco è di piacevole ascolto e suonato come si deve, ma di non facile collocazione nell'ambito del progressive italiano più canonico. Dopo lo scioglimento, tutti o quasi i componenti del gruppo si ripresenteranno a partire dal 1975 sotto la nuova sigla Bulldog. In seguito, il tastierista Celso Valli si è affermato come rinomato autore, arrangiatore e produttore, con numerose collaborazioni di prestigio nel mondo del pop italiano: da Mina a Renato Zero, passando per Laura Pausini, Eros Ramazzotti, fino a Bocelli e Vasco Rossi.

"Ping Pong"

  Pinnacle   - Formazione inglese originaria di Liverpool che si stabilizza soltanto con l'arrivo del tastierista David Mylett. Il quintetto registra quindi il suo primo e unico album "Assassin" nel 1974, in un piccolo studio della città di Chester. Ne vengono stampate mille copie con una copertina che per un errore, lasciato immutato dall'etichetta Stag Music, reca il titolo "Assasin", con una sola esse. La sequenza è composta da otto tracce mai troppo lunghe, dominate da un vibrante hard rock venato però di sapori space, proprio grazie al moog e all'organo Farfisa di Dave Mylett, che rende la ricetta di base più interessante e non troppo monocorde: ad esempio "Cyborg", che per il resto offre il consueto ritmo serrato di basso e batteria, oltre alla chitarra solista di Paul Thomas. Più alterna invece la prova del cantante Owen McCann, autore di gran parte dei testi, che non sempre è all'altezza della musica, pur sgolandosi parecchio. L'iniziale title-track, aperta e scandita dal basso rombante di Alan Lawrence, mostra l'anima sanguigna e più vera dei Pinnacle, con la chitarra solista spesso trainante e ben sostenuta da una sezione ritmica agguerritissima, in un modo che sembra quasi anticipare un certo metal, portato avanti con indubbia energia e coerenza, tra qualche effetto speciale e le sonorità delle tastiere a supporto. Il batterista Neil McKenna apre con le sue cadenze marziali un altro esempio di rock tiratissimo come "Time Slips By", dove tuttavia l'organo di Mylett si ritaglia il suo spazio sotto il canto, prima che la chitarra torni in cattedra: è uno di quei brani martellanti che a tratti richiamano la verve dei maestri Hawkwind, sia pure con minor fantasia di scrittura. A modo suo, il chitarrista Paul Thomas sa farsi valere lungo tutto il disco: lo si apprezza soprattutto in "The Chase", dove si adopera con grinta ed effetti vari, o anche in "The Ripper" (a proposito del famoso Jack lo squartatore), tra rullate poderose di batteria e la voce un po' ripetitiva di McCann. Effetti di moog aprono "Astral Traveller", l'unica traccia della sequenza che tocca i sei minuti, prima di una cavalcata impetuosa nel più classico hard rock di scuola inglese, mentre l'epilogo è affidato a "Bad Omen": qui i toni sono più morbidi, con la voce in primo piano tra effetti misurati di chitarra e i ricami del basso, in un lento crescendo in realtà privo di vero sviluppo. Insolito sigillo per un album segnato da un rock piuttosto basico con qualche ambizione prog più defilata, non certo privo di interesse comunque per chi ama l'underground britannico più genuino dei Settanta. Ristampe disponibili sia in CD che in vinile.

"Assassin"

  Planetarium   - A lungo circondati dal mistero, i Planetarium sono un'effimera formazione italiana che realizza il solo album "Infinity", pubblicato dall'etichetta Victory nel 1971, dal quale furono tratti anche due 45 giri. La band nasce sulle ceneri del gruppo beat Gli Scooters, originari di Ovada, che tra il 1965 e il 1970 realizzano diversi 45 giri (tra cui "Le pigne in testa") e ben due album come "Sentimental" (1968) e il live "Gli Scooters alla Capannina" (1969). Sciolto il sodalizio, Alfredo Ferrari (tastiere), Mirko Mazza (chitarra), e Franco Sorrenti (chitarra solista) formano poi i Planetarium insieme al batterista Giampaolo Pesce e al bassista Piero Repetto, entrambi ex-Miguel: è appunto questa la formazione che realizza "Infinity". Il disco è interamente strumentale e ha una strana impostazione di fondo, descrittiva e orchestrale, che comunque riesce abbastanza suggestiva anche per la discreta qualità dei musicisti. Gli otto titoli in inglese alludono alle diverse fasi della vita sulla terra prima e dopo la comparsa dell'uomo, secondo una sintetica cronologia ideale (da "The beginning" a "Infinity"), mentre la musica si sviluppa tra momenti lirici ("Love", con pianoforte e archi protagonisti), improntati a una certa solennità, e altri appena più mossi o decisamente drammatici (come "War", con tanto di allarme antiaereo e ritmo marziale), ma sempre con un certo senso della misura e un discreto equilibrio tra le parti. In primo piano soprattutto l'organo, il pianoforte e il flauto, con morbidi inserti della chitarra elettrica di Mirko Mazza ("Life" ad esempio), e più spesso di chitarra acustica. Anche per via del largo uso di effetti sonori (pioggia, vento, armi automatiche) il disco somiglia alla colonna sonora per un documentario sulle tappe della storia umana. E' un episodio piuttosto anomalo della stagione progressiva italiana, senz'altro minore, ma nel complesso decisamente gradevole e rilassante, oltre che prodotto a dovere. La ristampa digitale è della Vinyl Magic, ma esiste anche una riedizione in vinile della colombiana Real.

"Infinity"

  Plat Du Jour   - Una band francese dimenticata, originaria dell'area di Rouen, che prende forma nel 1974 e si esibisce per un anno circa tra Francia e Olanda. Dopo un primo scioglimento, il gruppo rinasce quindi nel 1976 con una diversa formazione a cinque, e l'anno seguente realizza finalmente il suo unico album omonimo () per l'etichetta Speedball. In linea con i fermenti dell'epoca, ormai placati i furori dell'era sinfonica, i Plat Du Jour suonano un prog dalla chiara inclinazione fusion, spesso sperimentale e segnato da una matrice psichedelica che aggiunge un fascino "sulfureo" alle sei composizioni, solo tre delle quali offrono vere parti vocali. Il sax di Alain Potier è spesso protagonista delle trame strumentali, come si nota nell'iniziale "5 & 11", tra i picchi del disco, articolata tra pieni e vuoti in un clima misterioso e vocalizzi umorali che ricordano a tratti Napoli Centrale. Importante negli equilibri di base anche il contributo della chitarra elettrica di Vincent Denis, quasi sempre distorta allo spasimo, e di una dinamica sezione ritmica: il risultato è un jazz-rock mai di maniera, teso e imprevedibile, con spazi improvvisativi di grande effetto. A parte "L'homme", pacato intermezzo d'atmosfera costruito sulla chitarra acustica e la voce del bassista Rodolphe Moulin, tutta la sequenza conserva un brillante senso ritmico, evidente soprattutto in "Totem": le cadenze sincopate intorno al canto di François Maze, a volte supportato dal coro, hanno qualcosa di febbrile che si esalta poi nel lungo interludio psichedelico dell'organo di Jacques Staub in combutta con una chitarra solista particolarmente acida. Più lenta e ipnotica è invece "Autoroute", costellata però da brillanti breaks di basso e batteria, col piano elettrico e la chitarra ancora in grande evidenza, mentre tra gli episodi cantati il più originale è "Zilbra": il vivace attacco sul ritmo del Samba è seguito infatti dal morbido e sensuale canto solista, cullato da sapienti tocchi chitarristici e dal basso, prima di un finale inatteso, aspro e martellante con una voce esasperata in primo piano. Degno epilogo del disco è lo strumentale "Rock'n'Speed", altro jazz-rock di forte impatto, tiratissimo dietro il sax, il piano elettrico e l'organo, con pause rarefatte e sincopi che portano poi l'album a spegnersi dolcemente. Con almeno cinque brani su sei di alto livello tecnico-espressivo, e una non comune capacità di abbracciare suggestioni diverse, l'unico documento sonoro firmato dai Plat Du Jour si guadagna senz'altro un posto di rilievo nell'ambito del prog transalpino dei Settanta e merita una riscoperta. Ristampe di Mellotron Records (vinile) e Paisley Press (cd).

"Plat Du Jour"

  Pollen   - Questa formazione canadese, del Quebec francofono, passa come una meteora nelle cronache musicali dei Settanta, anche se l'unico album inciso mostra talento e idee di grande valore che avrebbero meritato miglior sorte. A fondare i Pollen nel 1972 sono il cantante Tom Rivest e il chitarrista Richard Lemoyne, che si stabilizzano poi in quartetto per una serie di raffinati spettacoli che li impongono all'attenzione del pubblico locale. Dopo un tour in Quebec nel 1975 di spalla ai Gentle Giant, il gruppo realizza finalmente l'atteso album omonimo () nella primavera del 1976. Composto di sei episodi di alto livello, il disco si colloca nella famiglia del progressive romantico-sinfonico, ma con tratti personali di grande fascino, non strettamente derivativi. L'attacco di "Vieux corps de vie d'ange" è un magnifico esempio dello stile-Pollen: un lirismo vivace che esalta la bella voce di Rivest al centro della trama elegante delle tastiere di Claude Lemay, soprattutto nello splendido crescendo finale. È un rock colto e sofisticato, impreziosito dall'uso del vibrafono di Sylvain Coutu, capace di sprigionare un pathos espressivo piuttosto raro nella scena nordamericana. L'altro pezzo forte della sequenza è senza dubbio "Vivre la mort", introdotto dalla voce istrionica sullo sfondo dell'organo e poi sviluppato attraverso passaggi strumentali mozzafiato, con la chitarra solista di Claude Lemay e il synth che si rincorrono in un crescendo drammatico ad effetto. S'un diverso registro, "L'indien" è una limpida ballata acustica per voce e chitarra, con breve intermezzo d'organo: è un canto purissimo che riecheggia la libertà dei grandi spazi naturali attraverso immagini di profonda bellezza. Contagioso il ritmo brioso di "Tout'l temps", con le voci corali all'interno d'una trama sostenuta dalle tastiere, mentre la raffinata "L'etoile", cullata dalle note del flauto e della chitarra acustica, accentua un clima favolistico che torna nella chiusura di "La femme ailée". Qui però, dopo la delicata introduzione, la lunga coda strumentale riporta in primo piano complessi dialoghi di organo, synth e chitarra tra continui cambi di tempo, componendo un vivace arazzo dalle tinte gotiche. Si tratta insomma di un lavoro eccellente, ma purtroppo senza seguito. Dopo la fine del progetto, Tom Rivest incide alcuni dischi da solista, mentre Lemay suona prima con i Maneige e più avanti con Céline Dion. Ristampe in CD a cura di ProgQuébec e Belle.

"Pollen"

  Pop Mašina   - Tra le molte proposte che arrivano dalla ex-Jugoslavia si segnalano anche i Pop Mašina ("macchina pop"), una formazione che nasce a Belgrado nel 1972 come quartetto, per trasformarsi poi in un classico power-trio. Nell'album di debutto intitolato "Kiselina"(), uscito nel 1973, la band serba sfodera in effetti un piglio vicino all'hard rock inglese, ma con iniezioni prog qua e là che rendono la proposta piuttosto originale, nonostante la produzione non proprio eccelsa. La chitarra solista di Zoran Božinović è dunque la vera protagonista del disco, coadiuvata a dovere dall'ottimo bassista Robert Nemeček, che non a caso firma quasi tutti i pezzi e si destreggia anche alla chitarra acustica nella morbida parentesi di "Mir". I testi in lingua madre, imperniati sul tema delle droghe, spiegano il titolo "Kiselina" (cioè "acido"), anche se la title track è un episodio strumentale tra i più spiazzanti, con la sua atmosfera quasi jazz: l'ospite Slobodan Marković guida le danze con il suo piano elettrico, affiancato da una chitarra psichedelica e dal ritmo dispari di Mihajlo Popović. Ben più sanguigne, eppure mai banali, sono tracce come "Na Drumu Za Haos", un hard rock affilato con chitarra e basso in grande spolvero tra coretti stranianti, o anche "Tražim Put", dove il chitarrista domina a lungo la scena con riff prolungati, fino alla più fosca "Svemirska Priča" (cioè "il racconto dell'universo"), con un giro ossessivo di basso e variazioni chitarristiche di bella personalità. A volte i due registri si fondono: ad esempio in "Pesma Srećne Noć" ("canto della notte felice"), un brillante rock melodico con la presenza dell'organo accanto alla chitarra di Božinović. L'impressione è quella di una band che non si accontenta di ricalcare pedissequamente le formule dei maestri britannici, ma sa integrarle con spezie prog-psichedeliche: lo si nota anche nella finale "Slika iz prošlih dana", che poi è una ballata acustica con tanto di flauto elegante sotto il morbido canto solista. Il successivo "Na Izvoru Svetlosti" (1975) è ancora interessante, ma la discrepanza tra i due registri si è fin troppo accentuata. Torridi hard rock da manuale come "Zemlja Svetlosti" o "Secanja", dominati dalla chitarra solista, si alternano a momenti totalmente diversi: "Rekvijema Za Prijatelja", con l'organo e gli archi protagonisti, richiama i migliori Procol Harum, mentre "Na Izvoru" è un curioso intermezzo strumentale, con piano e chitarre acustiche in evidenza, quasi in stile country. La chiusura è la brevissima "Kraj II", dove si ascoltano i violini e perfino l'oboe: bello, ma fuori contesto. Nel 1976 esce anche il live "Put Ka Suncu", ma lo stesso anno i Pop Mašina vanno in pezzi, e anche Božinović, dopo un ultimo 45 giri registrato con nuovi elementi nel 1977 ("Moja Pesma"/"Uspomena"), deve gettare la spugna. Ristampe di Atlantide in CD e vinile, con bonus-tracks.

"Kiselina"

  Poseidon   - Uno dei molti gruppi tedeschi di seconda fascia, i Poseidon si formano a Karlsruhe nel 1974 e lasciano alle cronache del prog un solo album di medio valore. All'origine c'è una band di nome Prussic Acid, messa insieme nel 1969, che dopo varie traversie si compatta intorno alla nuova sigla per incidere "Found My Way" (1975), prodotto e pubblicato in proprio in circa mille esemplari. Nonostante tutto, il disco gode di una discreta qualità d'incisione e il quintetto germanico mostra buone qualità di base, oltre a un affiatamento che viene dalla lunga esperienza comune. I sei brani dell'album, in particolare, mostrano la predilezione per un progressive morbido dai contorni melodici, con i testi in lingua inglese e, più in generale, un'ispirazione musicale priva di grosse sorprese o picchi d'intensità, ma indubbiamente orchestrata con cura intorno alle tastiere di Tony Mahl e alla chitarra solista di Theo Metzler, con richiami discreti allo space-rock e alla psichedelia. Fin dall'iniziale "The Trip", i Poseidon scelgono però uno stile pacato, attento alle sfumature come allo sviluppo melodico del tema, con moderate accelerazioni ritmiche all'interno dello schema. Nella sequenza, oltre al lento crescendo di "Swimming Against the Stream", sviluppata tra voci corali ed effetti di sintetizzatore, si segnala un episodio vivace come "How Heavy the Days", con la chitarra solista in evidenza e interessanti cambi di tempo. Il synth domina anche lo strumentale "Surprise" insieme al basso di Horst Meinzer, mentre la chitarra di Metzler trova sonorità quasi floydiane nel brillante epilogo di "Found My Way", prima di lasciare ancora spazio alle tastiere in una serie di godibili variazioni. Insomma, un esempio piuttosto gradevole di prog che se poco aggiunge di nuovo al genere, tuttavia si fa ascoltare fino in fondo. Dei cinque membri. solo il batterista Rudi Metzler, che suona nel 2011 con il gruppo psichedelico Trigon, e il secondo chitarrista Wilfried Sahm, attivo con la band Checkpoint Charlie, sembrano aver proseguito l'attività musicale. La ristampa in CD della Garden Of Delights (2001) include ben otto bonus-tracks registrate dal vivo.

"Found My Way"

  Procession   - I torinesi Procession incidono due dischi nella prima metà dei settanta e poi escono di scena. Il gruppo (due chitarre, basso, batteria e voce solista) fa il suo esordio discografico con "Frontiera" (1972), un classico concept realizzato per l'etichetta Help e dedicato al problema dell'emigrazione interna, molto sentito in quegli anni, basato sui testi di Marina Comin. Quello offerto dal quintetto nelle nove tracce del disco è un rock schietto e frontale, dominato dalle chitarre elettriche di Marcello Capra e Roby Munciguerra, insieme alla buona voce di Gianfranco Gaza, in brani prossimi all'hard rock, suonati con il giusto pathos: soprattutto "Uomini e illusioni" e le due parti di "Solo", oltre alla più articolata "Un mondo di libertà". Non manca tuttavia qualche brano dall'atmosfera più delicata, come "Anche io sono un uomo", stavolta con l'apporto episodico del mellotron. Un discreto esordio, comunque, anche se accanto alle parti più convincenti e grintose non mancano punti deboli, tra ingenuità e piccole sbavature. Due anni più tardi, dopo alcuni avvicendamenti in organico, i Procession pubblicano con la Fonit un secondo album come "Fiaba". In questo caso, il gruppo cerca soluzioni più sofisticate con l'innesto tra l'altro del percussionista Francesco Froggio Francica (ex RRR) e di flauti e sax (Maurizio Gianotti): la musica acquista così una duttilità strumentale di stampo fusion, come si nota già nel brano d'apertura "Uomini di vento", distante dal grintoso e genuino hard prog degli esordi. Più vario e curato del precedente, spesso acustico, il disco non è sempre convincente, ma sicuramente interessante. Vanno segnalate in particolare le belle liriche e l'atmosfera suggestiva di "Un mondo sprecato", e quindi la trama strumentale di "Notturno", con efficaci parti di flauto, chitarra acustica e synth. In coda a "C'era una volta", episodio favolistico con il sax protagonista, c'è da segnalare la magnifica performance vocale di Silvana Aliotta (già Circus 2000). Dopo lo scioglimento della band nel 1975, Gaza farà parte poi degli Arti + Mestieri al tempo di "Giro di valzer per domani". Una nuova edizione del gruppo, capeggiata dal chitarrista Roby Munciguerra, ha poi realizzato l'album "Esplorare" nel 2007: contiene gran parte del vecchio materiale rieseguito ex-novo, più una traccia inedita. Nel 2012 è uscito anche "9 gennaio 1972", una vecchia registrazione live della band. Marcello Capra, lasciati i compagni dopo il primo disco, ha intrapreso una originale carriera da solista, privilegiando stavolta la chitarra acustica, come nel primo album a suo nome, "Aria mediterranea", uscito nel 1978. Numerose anche le sue collaborazioni, e dagli anni Novanta fino ad oggi altri dischi di buon riscontro critico: tra questi "Imaginations", quindi "Preludio ad una nuova alba", fino a "Fili del tempo" (2011), e altri ancora. Sempre molto attivo, il chitarrista ha una sua pagina Facebook .

"Frontiera"

  Progresiv TM   - Band romena originaria di Timişoara, formata nel 1972 dal bassista Ilie Stepan con il primo nome di Classic XX, poi mutato l'anno seguente. Nel 1974 esce il singolo "Anotimpuri"/"Amintiri", dopo di che il quintetto di base subisce un paio di defezioni e si stabilizza come sestetto con l'arrivo di Mihai Farcaş (batteria, piano) e Gheorghe Torz (flauto). Nel 1976 esce quindi per l'etichetta di stato Electrecord l'album di debutto "Dreptul de a visa" (), cioè "il diritto di sognare", che segnala il gruppo come una delle migliori realtà del prog-rock romeno. Con l'apporto sporadico delle tastiere, nei sette episodi di questo heavy prog melodico è l'eclettica chitarra di Ladislau Herdina a balzare in primo piano, fin dall'attacco di "Omul e valul" ("l'uomo è un'onda"), un rock sincopato intorno all'ottima voce di Harry Coradini, con il basso di Stepan in evidenza e le spirali flautistiche di Torz che aggiungono leggerezza all'insieme. Chitarra e flauto sono l'asse portante di "Ruşinea soarelui", con frizzanti dialoghi tra le voci e il tessuto ritmico, e di altri brani come "Clepsidra", ma non mancano tracce più pacate: ad esempio "Nimeni nu e singur" ("nessuno è solo"), con il testo parlato cullato da un flauto elegante, dal coro e dal pianoforte di Farcaş. Prevale tuttavia un rock a carattere melodico, come ribadiscono "Odată doar vei răsări" e l'accattivante "Va cădea o stea", melodia trascinante sulle voci corali e intrecci di basso e chitarra, mentre la sequenza finale "Dreptul de-a visa/Poetul devenirii noastre" è un compendio dell'album, tra rock chitarristico, flauto e grandi parti vocali: brillante qui la chitarra solista di Herdina, affiancata da un basso sempre creativo e dalla batteria. Dopo un breve scioglimento, Herdina e Coradini rifondano il gruppo con tre musicisti provenienti dal gruppo Red and Black: il quintetto realizza quindi un secondo disco come "Puterea Muzicii" (cioè "il potere della musica"), pubblicato nel 1979. Si tratta di un concept basato su un poema ottocentesco di Ion Heliade-Rădulescu. A parte la mancanza del flauto, la novità principale sta in un secondo chitarrista come Florin Ochescu e nella scelta di arrangiamenti più morbidi e orchestrali: emblematica l'apertura di "Oameni şi fapte", che inserisce la chitarra solista sullo sfondo dei violini e del piano di Liviu Tudan. Si tratta di un pop-rock melodico che funziona bene in "Legămănt" e nella stessa title-track, con la voce di Coradini sempre efficace, mentre altrove il risultato non convince ("Opţiune pentru pace"). La chitarra solista si fa notare comunque nella briosa "Sete de pădure", insieme al gioco delle voci, ma in chiave di prog-rock il momento migliore è senza dubbio la lunga "Pas candid către realitate", dove parti vocali ben orchestrate e incisivo rock chitarristico trovano un intrigante punto d'incontro tra pause e riprese. Ancora suonato a dovere da musicisti eccellenti, il disco è l'ultimo atto della formazione romena, sciolta poco dopo la pubblicazione. Nel 1983 Herdina ha poi riformato il gruppo con altri elementi. Ristampe a cura di Granadilla (CD e vinile).

"Dreptul de a visa"

"Ruşinea soarelui"

  Prosper   - Gruppo tedesco di Bottrop, nel bacino della Ruhr, formato nel 1973 col nome di Prosper I. Per un paio d'anni si susseguono diversi cambi di organico: tra gli altri fa parte della band anche Jürgen Pluta, che poi entra come bassista nei Wallenstein. La fase successiva inizia nel 1975, con la sigla ridotta semplicemente a Prosper, e un nuovo quintetto che ruota intorno al chitarrista Evert Brettschneider, già membro dei Contact Trio, e al tastierista Ernst Müller, che firmano gran parte del repertorio. L'esordio è sempre del '75, quando viene realizzato l'album "Broken Door" (), autoprodotto in circa 500 esemplari, e per molti anni relegato nell'oblio prima della ristampa Garden of Delights. Si tratta di otto brani che offrono una formula sonora decisamente interessante, non troppo in sintonia col resto del krautrock coevo: sin dall'apertura di "Beginning", ad esempio, lo stile si colloca a metà strada tra rock psichedelico e una sorta di fusion dai contorni misteriosi. Il mellotron e il piano elettrico di Müller convivono con il chitarrismo vagamente jazz di Brettschneider, creando un'atmosfera ipnotica e indubbiamente originale, che connota un po' tutta la sequenza. Sulla stessa lunghezza d'onda "Dance of an Angel", con la chitarra solista in primo piano, effetti di synth e un ottimo lavoro del batterista Friedhelm Misiejuk, e anche "Birds of Passage", particolarmente intrigante per la sua dimensione sospesa dominata dalla chitarra acustica e dal synth. Sporadiche le parti cantate dal secondo chitarrista Fritz A. Fey, molto efficace comunque nella malinconica "Burning in the Sun", episodio che dimostra le possibilità del gruppo tedesco in diversi registri espressivi. Belle anche la title track, con il mellotron ancora protagonista, e la solare "Your Country", che scivola sulle note d'una chitarra contagiosa e s'un ritmo trascinante ch'evoca paesaggi americani. La sicura personalità dei Prosper si conferma anche nella coda strumentale del disco: la lunga "When the Sun Touches the Water" è in pratica un frastagliato crescendo in stile fusion che raccoglie intorno all'intensa chitarra solista un fascinoso gioco di suggestioni, tra percussioni assortite, piano elettrico ed effetti elettronici. Dopo altri avvicendamenti, il solo bassista Matthias Geisen riparte nel 1979 con altri musicisti, senza trovare però sbocchi discografici: solo nel 2006 viene pubblicato l'album di inediti "Second Running - The Basement Tapes" in edizione privata.

"Broken Door"

  Psiglo   - Una delle glorie del prog sudamericano anni Settanta, i Psiglo (la "p" iniziale vuole associare "secolo" con "psicologia" e "psichedelia") si formano a Montevideo nel 1970 e si fanno conoscere con un singolo emblematico come "En un lugar un niño"/"Gente sin camino", pubblicato nel 1972. Subito il gruppo uruguagio esibisce un hard-rock melodico di eccellente qualità tecnica ma soprattutto una forte impronta socio-politica nei testi, ben interpretati da Ruben Melogno. Un secondo 45 giri (ancora del '72) fa da preludio al primo album realizzato dal quintetto, "Ideación" (1973). Otto episodi dove il piglio rock grintoso e trascinante del quintetto, fin dall'iniziale "Siénteme", si coniuga con delicate proposte melodiche: ad esempio la dolce "Catalina", con l'apporto degli archi. Nella scaletta spiccano i mordenti riff chitarristici di Luis Cesio ("En un lugar un niño" e la conclusiva "Piensa y lucha" soprattutto), oltre alla notevole presenza di un vocalist duttile e potente come Melogno, che caratterizza fortemente ogni brano. Intensa anche "No pregunten por qué", dolente denuncia di miseria e degrado, con le percussioni e la chitarra acustica protagoniste intorno alla voce solista, mentre lo strumentale "Nuestra calma", dominato dall'organo di Jorge García, recupera atmosfere alla Santana meno convincenti. Il secondo album del gruppo è "Psiglo II"(): registrato nel 1974, viene subito censurato dalla dittatura militare e sarà pubblicato solo nel 1981 in Argentina, con l'esclusione della ballata "Héroe de Papel", poi edita nella ristampa in cd. Composto di sei tracce, il disco rimane il miglior contributo della band uruguagia al prog latinoamericano: pur rispettando la matrice rock dell'esordio, la sequenza suona più matura e rifinita, mentre i testi proseguono la loro coraggiosa denuncia politica e libertaria. L'attacco è lo splendido hard-prog di "Cambiarás Al Hombre", un inno alla consapevolezza e alla speranza, con l'organo di García in bella evidenza e la chitarra pungente di spalla, insieme al canto vibrante di Melogno. Organo e chitarra elettrica sono l'ossatura del suono-Psiglo anche in "No Tiene Razón De Ser", con una bella parentesi onirica e psichedelica, e ancora del lungo strumentale "El Juglar y Yo", fitto di spezzature ritmiche e un piano jazz che introduce una seconda parte struggente, con un testo recitato sottolineato dal flauto. Sonorità jazzate caratterizzano anche "Gil 1038", forse l'episodio più ambizioso e ricco di variazioni sperimentali, dove si ascolta anche il sax, mentre il testo di "Construir, destruir" è il manifesto esemplare di un libero sentire in tempi difficili. La band si scioglie nel 1975, e i suoi membri si spostano in Spagna, tranne il batterista Gonzalo Farrugia (morto suicida nel 2009) che suona invece in Argentina con i Crucis. Testi, biografie e molte altre notizie qui .

"Psiglo II"

 

 

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