Unreal City -
"Il paese del tramonto" (AMS, 2015)
E' questo il secondo disco pubblicato dal quartetto di Parma, dopo l'esordio di "La crudeltà di Aprile" (2013), molto ben accolto nell'ambiente del prog italiano. Guidati dal poledrico tastierista e cantante Emanuele Tarasconi, che firma da solo tutto il materiale, il quartetto mette insieme sette episodi nuovi di zecca, come sempre improntati a una ripresa delle sonorità più "vintage" del genere: sia nei pregi, ovviamente, che nei difetti.
Quello che qualcuno, con una punta di malizia, chiamerebbe "regressive", trova in effetti ampio sviluppo nell'album. Titoli oscuri e latineggianti, tastieroni come se piovesse, l'immancabile suite posta in coda e per finire anche testi che rispettano in pieno certi modelli di riferimento: grondanti dunque un simbolismo molto classico e a volte oscuro, ma generalmente interessanti. La scrittura musicale del tastierista è sicuramente sinfonica e barocca, con una tendenza all'accumulo di spunti più che al dosaggio dei suoni. Anche per la notevole durata del disco, a volte si ha l'impressione di una vena straripante, che fatica quasi a trovare una sua espressione compiuta per un surplus di idee, ma in alcuni casi l'impatto è sicuramente convincente, denotando la felice ispirazione dei quattro musicisti, oltre che una discreta personalità. Come si vede già nell'iniziale "Ouverture: oscurus fio", unico momento strumentale della sequenza, ma ancora meglio in un episodio come "Caligari", il rock firmato Unreal City è molto dinamico, cangiante e spesso imprevedibile, con il synth e il mellotron quasi sempre protagonisti nel suggerire atmosfere misteriose, che qui si dilatano e prendono corpo grazie anche alla chitarra solista di Francesca Zanetta e al generoso lavoro della sezione ritmica. Repentini cambi di tempo, con fascinosi intervalli sul pianoforte a creare la giusta tensione, e il canto istrionico di Tarasconi, rendono la trama sempre interessante, anche se a volte, fatalmente, un poco frammentaria.
Bello l'attacco serrato de "Lo schermo di pietra", con il synth in grande spolvero e il gran lavoro del batterista Federico Bedostri: il pezzo si sviluppa poi sul cantato e il pianoforte, con aperture melodiche e immagini liriche piuttosto incisive, tra ficcanti riprese ritmiche ancora guidate da organo e synth. Prettamente sinfonica anche l'atmosfera che domina "Il nome di lei", con tanto di clavicembalo al proscenio, una chitarra solista calligrafica e un finale in crescendo di buon effetto. Quanto a "Oniromanzia" è probabilmente il momento più tipico dell'ispirazione che sorregge il suono-Unreal City: apertura maestosa e sospesa, fratturata ad arte dalla batteria, e un valido tema strumentale ricorrente, con il moog che affianca il mellotron in maniera piuttosto efficace. Il seguito è una serie di spunti ripartiti tra eclettiche parti vocali, sterzate e brillanti fughe organistiche dal colore drammatico e forse sovraccarico nel dosaggio.
Tra gli altri brani spicca "La meccanica dell'ombra", per il colore esotico delle tastiere in avvio, anche se il seguito mette insieme, come sempre, una serie perfino ridondante di temi strumentali che sembrano ogni volta voler spiazzare l'ascoltatore: le capacità del tastierista, anche qui abilissimo, non sono certo in discussione, ma probabilmente una scrittura più ponderata e meno dispersiva servirebbe a valorizzare ancora meglio la sua prolifica ispirazione. Come si conferma anche nella lussureggiante e conclusiva suite "Ex tenebrae lux", divisa in quattro parti per un totale di circa venti minuti, e impreziosita dal violino di Fabio Biale, la musica del gruppo parmense ha davvero un grosso potenziale: il rock progressivo classico ha in loro degli eredi di buona caratura, in grado di restituire nuova vitalità a certe sonorità d'epoca. Bello qui soprattutto il suono del pianoforte, e del moog che riprende il tema di "Oniromanzia", mentre il resto replica sia le qualità già viste che qualche lungaggine.
Per tirare le somme, gli Unreal City hanno tecnica, entusiasmo e fantasia in abbondanza: a mio avviso, perciò, possono fare grandi cose, soprattutto se riusciranno a calibrare meglio certe indubbie qualità in un disegno più compatto e sintetico che renda loro piena giustizia. Detto questo, il disco è molto carino e raccomandato senz'altro ai seguaci del prog romantico-sinfonico, che sapranno apprezzarlo nella sue molteplici sfaccettature.
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Pink Floyd -
"The Endless River" (Parlophone, 2014)
Che imbarazzo recensire un disco dei Pink Floyd! Sono un vero monumento del rock mondiale e anche, piacciano o meno, i più grandi innovatori del genere, compresa la parte iconografica, che pure nella musica extra-colta ha la sua importanza: copertine ormai celebri e loghi che hanno fatto storia. E poi, naturalmente, c'è la musica. La band inglese ha prima sconvolto la psichedelia degli anni Sessanta con le galoppate spaziali concepite da Syd Barrett, e poi inventato il superbo techno-rock dei Settanta. Può bastare? Una leggenda assoluta. Il disco in questione è l'ultimo anello di una lunga catena di successi planetari, voluto però dai soli David Gilmour e Nick Mason: Rick Wright non c'è più, e Roger Waters, per anni la vera mente del gruppo, non ha voluto saperne. E' un album che recupera e rimaneggia tracce di vecchio materiale, in particolare le registrazioni rimaste fuori dalla sessione di "The Division Bell" (1994), il precedente lavoro di studio. Questa è la necessaria premessa.
Suddiviso in quattro parti, si direbbe per naturale affinità di suoni e un totale di ben diciotto episodi, con un solo pezzo cantato, "The Endless River" è idealmente dedicato a Wright, e si capisce bene perché ascoltando i tre brani della prima parte. Sono le sue tastiere evocative, il synth vaporoso e inimitabile di "Wish You Were Here" (1975), a dominare la scena: in particolare "It's What We Do" ci precipita di nuovo in quelle atmosfere pregnanti che almeno tre generazioni conoscono a memoria. L'effetto, ovviamente, è duplice: nostalgia e perplessità. Nostalgia legittima verso tutto un periodo d'oro per il rock progressivo e dintorni, e perplessità per l'idea di riproporlo in una veste perfino ovvia, come una minestra riscaldata e infarcita di calibrate spezie postume. Tutto l'album, a pensarci bene, scorre in questa alternanza di stati d'animo, che tiene l'ascoltatore sospeso tra una gloria trascorsa e un presente che sa parecchio di sigillo definitivo, come una pietra tombale sulla storia dei Floyd. Lo dico subito: non si tratta di un capolavoro, e nessuno poteva aspettarselo. Siamo ben al di sotto dei dischi maggiori del gruppo, se non altro perché sono passati quarant'anni. Al tempo stesso, mi sembra ingeneroso parlare di un album-truffa, come si è detto e scritto. La verità sta nel mezzo, probabilmente, e non lo dico solo per salvare capra e cavoli, ma perché a volte è davvero così che vanno le cose, anche nella musica.
Di fatto, la chitarra solista di Gilmour graffia solenne e quasi ieratica, carica di effetti come sempre, per la gioia dei fans più accaniti o anche, all'opposto, dei giovanissimi che sono cresciuti con tutt'altra musica intorno. Gli altri noteranno piuttosto che il progetto si specchia nel passato perfino con umiltà, e si accontenta appunto di riverniciare la musica che fu, da tempo immota sul suo piedistallo dorato: è sicuramente, e filologicamente, vero. A mio avviso però, nonostante questo, non mancano del tutto i momenti che catturano, ma per afferrarli davvero c'è un piccolo segreto: dimenticare. Bisogna dimenticarsi cioè, per quanto possibile, che questo è l'ennesimo disco firmato Pink Floyd. Allora, forse, sgombrata la mente da pregiudizi e attese messianiche, dai ripetuti ascolti si potranno estrarre piccole perle in bilico tra la psichedelia più raffinata e qualche scampolo di techno-rock piuttosto intrigante. Ad esempio la seconda sezione, che dopo l'exploit chitarristico ad effetto di "Sum", passa dal tribalismo percussivo di Mason, molto vicino al periodo cosmico consacrato da "Ummagumma", all'atmosfera melodica e cantabile (pur senza voce) di "Anisina", che la chitarra di Gilmour sottolinea a dovere insieme al sax elegante di Gilad Atzmon. Qui c'è indubbiamente della buona musica, forse la migliore di tutta la raccolta.
Per il resto, suggestioni "ambient" molto evidenti caratterizzano tracce come "On Noodle Street", modulata sul piano elettrico di Wright, che altrove sfodera invece l'organo a canne più maestoso, ben assecondato dalla chitarra di Gilmour in "Autumn '68". Alcuni episodi lasciano spazio all'estro elettrico del chitarrista, ad esempio "Allons-Y (2)", in altri ancora affiorano suggestioni di elegante rock da camera, con tanto di "parlato", come nel tranquillo incedere di "Talkin' Hawkin'". Ci sono diverse tracce brevi e brevissime, spesso trascurabili, e altre che sembrano solo fare da premessa a qualcos'altro, ad esempio "Calling", immersa in un fascinoso reticolo di tastiere, che apre la quarta e ultima parte del disco. Proprio in fondo, c'è l'unico episodio cantato: si tratta di "Louder Than Words", una malinconica canzone con il testo firmato da Polly Samson (moglie di Gilmour) che il chitarrista interpreta nel tono giusto, supportato dal coro, sigillando nel modo più onesto l'intero progetto. La confezione è accurata fin dalla copertina, le intenzioni di fondo dichiarate a priori, e niente comunque potrà offuscare la storia dei Pink Floyd: neppure un disco di scarti ventennali rivestiti a nuovo con generoso puntiglio, che merita una sufficienza abbondante solo perché non finge, non millanta, regalando l'ultima eco della sua passata grandezza a quanti vorranno ancora assaporarla. Poi sarà tempo di voltare pagina, o risalire a ritroso il fiume attraverso i dischi più memorabili, con tutta l'immancabile malinconia del caso.
Per informazioni e contatti: www.pinkfloyd.com/theendlessriver
Banco del Mutuo Soccorso -
"Un'idea che non puoi fermare" (Sony Music, 2014)
Questo ultimo disco firmato dal Banco del Mutuo Soccorso è dedicato, e non poteva essere diversamente, a Francesco Di Giacomo, voce inimitabile e icona non solo della band romana, ma dell'intero prog italiano, scomparso tragicamente il 21 Febbraio di quest'anno. Un album nato dalla fine di qualcosa e qualcuno, può essere anche un nuovo inizio o, più semplicemente, un album veramente valido in se stesso? Il rischio dell'operazione puramente nostalgica è forte in questi casi, ma a mio parere completamente fugato, stavolta, dallo spessore umano e artistico di chi resta. In primo luogo di Vittorio Nocenzi, quindi, che ha voluto, congegnato e messo a punto un progetto che non suona mai superfluo e anzi si lascia ascoltare, dall'inizio alla fine, come una vera (ri)scoperta. Vediamo perché.
Nel doppio CD alcune registrazioni live del Banco, ancora inedite e racchiuse nel periodo 2012-2013, sono integrate dal tentativo di restituire al repertorio del gruppo nuova vita, affidandosi alla voce recitante di attrici e attori, che in molti casi leggono il testo sul mobile tappeto pianistico dello stesso Vittorio Nocenzi. Al primo ascolto, è vero, il risultato può essere spiazzante: bisogna sgombrare la memoria dalle vecchie versioni di alcuni amatissimi cavalli di battaglia del Banco e disporsi ad un ascolto nuovo. L'esempio più straniante, forse, è offerto da "Dopo niente è più lo stesso", il meraviglioso canto di protesta contro ogni guerra che spiccava in "Io sono nato libero". In questa riproposta Nocenzi s'inventa un dinamico arrangiamento quasi "reggae", chitarra e pianoforte in primo piano, sotto la voce di Alessandro Haber. In ogni caso, se il senso dell'operazione era rimarcare il valore autonomo delle liriche, la scommessa è vinta, perché questi versi che hanno più di quarant'anni, anche in una rinnovata confezione sonora inedita balzano in primo piano ancora vitalissimi, nella partecipe lettura di Haber, con un effetto che lascia il segno. E non è certo l'unico esempio.
Non bisogna pensare però che nel disco la parte strettamente musicale resti in ombra: c'è piuttosto una funzionale contaminazione tra le voci e la parte sonora, fino al virtuosismo più acrobatico. Succede soprattutto nel secondo dischetto, quando tocca al grande Toni Servillo prestare la sua voce alla struggente "750.000 anni fa...L'amore?", la perla assoluta inserita nel concept-album "Darwin!". Sulle note del pianoforte, l'attore recita il testo con tono assorto e introspettivo, e dopo l'intermezzo live cantato dallo stesso Di Giacomo con la sua enfasi proverbiale, le due registrazioni vengono a sovrapporsi in un riuscito montaggio, avventuroso ma di grandissimo effetto: come se il lato più emotivo e quello più interiore del pezzo coesistessero grazie alle due voci, originando un esempio di struggente poesia. Davvero molto bello. Altrettanto intensa è la rivisitazione di un classico come "Il giardino del mago": il recitativo eclettico di Moni Ovadia si sposa allo sfondo magistrale di pianoforte e synth, che riecheggiano il vecchio spartito con un dinamismo asciutto ma sempre evocativo. Il frammento "Coi capelli sciolti al vento", viene recitato prima dalla voce della commovente Franca Valeri, e quindi cantato da Di Giacomo. Toccante.
Pur se con un certo equilibrio complessivo, nel primo CD le registrazioni live del gruppo in formazione piuttosto elastica (oltre a Nocenzi e Di Giacomo, ci sono Alessandro Papotto, Rodolfo Maltese, Filippo Marcheggiani, Tiziano Ricci, Maurizio Masi, Nicola Di Già, Pierluigi Calderoni) s'impongono con alcune versioni a pieno organico di grande impatto: bellissime soprattutto le riproposte di "Cento mani, cento occhi" e di "R.I.P.", divisa in due parti. Fa storia a sé la crepuscolare "Interno città", dove la voce recitante di Giuseppe Cederna è immersa in una squisita tessitura jazz, con la tromba di Rodolfo Maltese sugli scudi. Nel secondo Cd, invece, le voci recitanti (tra le altre quelle di Giuliana De Sio e Rocco Papaleo) hanno forse più spazio, ma l'effetto è comunque intenso e spesso affascinante. Vittorio Nocenzi, va sottolineato, ha voluto ripescare anche un paio di brani meno fortunati, contenuti soprattutto nei controversi dischi degli anni Ottanta, e anche qui ha fatto pienamente centro. Mi piace citare soprattutto "Michele e il treno", dove l'intonatissima lettura di Valerio Mastandrea è cullata dal pianoforte magico del tastierista, che poi regala, complice il raffinato gioco percussivo di Pierluigi Calderoni, una coda di grande forza evocativa. E poi "Tirami una rete", dalla melodia malinconica che Di Giacomo interpreta da par suo, valorizzando un testo dedicato a chi resta indietro. "Frevo" è invece una spumeggiante cover del musicista brasiliano Egberto Gismonti, che dimostra tutto l'eclettismo strumentale del Banco, se ancora ce ne fosse bisogno.
Insomma, più che una semplice dedica al passato, il disco omaggia nel modo migliore la figura di Francesco Di Giacomo: rimarcando cioè la forza delle sue liriche e della musica seminate insieme ai compagni nel corso di oltre quarant'anni, spesso remando controcorrente per restare coerenti e soprattutto fedeli a un'idea di musica e di vita: un'idea che non puoi fermare, appunto. Un disco da non perdere per chi ama il Banco da sempre, ma anche per chi vuole conoscerlo meglio.
Per informazioni e contatti: www.bancodelmutuosoccorso.it
The Pineapple Thief - "Magnolia" (Kscope, 2014)
A parte quelli dal vivo, è questo il decimo disco per i Pineapple Thief, formazione inglese di buona fama nel circuito rock. "Magnolia" è una raccolta di dodici tracce che ci restituiscono l'idea di un quartetto abile a destreggiarsi tra suggestioni pop e alternative rock, con qualche spruzzata residua di prog: si tratta in realtà di canzoni, sia pure elaborate con un certo brio e un vivace gusto melodico. Un solo episodio supera i cinque minuti, per dire che non c'è molto spazio per eccessive divagazioni in sede di arrangiamento. Il che, di per sé, non è necessariamente un male.
Sotto la guida del cantante e chitarrista Bruce Soord, unico membro sopravvissuto ai numerosi cambi di organico della band rispetto agli inizi, il quartetto britannico sembra sempre più orientarsi verso un rock ad effetto quanto rassicurante, anche grintoso quando serve, ma più spesso vicino a un certo modello più o meno sfruttato di Brit-pop: dunque quasi sempre improntato a un mood raffinato, romantico e malinconico, a volte piuttosto prevedibile nei suoi sviluppi. L'attacco di "Simple as That", tra i momenti più tipici di questa formula, abbina il duttile canto solista di Soord a un brillante disegno ritmico, scandito dalla chitarra, con improvvise aperture del tema melodico in una chiave più vigorosa e sanguigna, ma senza esagerare. Questa sorta di "giusto mezzo" espressivo è la chiave dell'intero album, in effetti: le idee melodiche si sporcano solo a tratti di sonorità più complesse, senza il coraggio, o la volontà, di trovare un'ispirazione diversa e più intrigante. "Coming Home", costruita sull'arpeggio di chitarra, è un lento crescendo intimista, corroborato strada facendo dagli archi e da una ritmica incalzante, ma senza grosse sorprese. Così come gradevoli scorrono quei momenti più dichiaratamente rock, con la chitarra in evidenza: ad esempio "Sense of Fear", o "Breathe", dominati da potenti riff elettrici intervallati però da inserti lirico-melodici, in una sistematica alternanza di pieni e vuoti strumentali che alla lunga, bisogna dirlo, lascia un sapore di deja vu molto pronunciato.
L'insieme non manca di attrattive, intendiamoci. La produzione è impeccabile, tutto è suonato come si deve, come nella stessa title-track, immersa in un'atmosfera di nostalgico romanticismo grazie alle morbide tastiere di Steve Kitch e alla voce solista, eppure si rimane secondo me all'interno di un pop sempre più "mainstream" che vanta ormai innumerevoli esempi, e dal quale è davvero difficile rimanere colpiti. A questo livello, insomma, le differenze si giocano sulle piccole sfumature, o nel calibro dei singoli musicisti chiamati a rinnovare almeno in superficie sonorità che cominciano a mostrare la corda. Sta di fatto, comunque sia, che i Pineapple Thief sembrano davvero convincenti proprio nelle tracce più melodiche e intimiste che nelle zampate rock, e non sembra un caso. "Seasons Past", modulata sulla voce struggente e il pianoforte, con il contributo determinante del violoncello, è infatti uno dei brani più riusciti della sequenza, come se la band qui fosse nel suo vero elemento naturale. Sulla stessa falsariga, ma ancora più minimalista, scorre "From Me", sempre articolata sul piano e la voce, più gli archi a sostegno. Bello, se piace il genere: però, onestamente, niente di veramente nuovo sotto il sole.
Il sigillo finale è "Bond", che rispetta in pieno quanto detto finora: sapiente costruzione melodica, supportata dall'arrangiamento sinfonico e una tromba solista che si fa notare nel sontuoso spartito. E' un altro pezzo di buona presa, indubbiamente, a testimonianza che la band ha gusto e capacità di scrittura. Tuttavia, devo ammettere che mi aspettavo qualcosa di più da questo disco e se non posso dire che sia brutto, la delusione è comunque notevole. A conti fatti, definirei "Magnolia" un album pop-rock di piacevole ascolto, confezionato come si deve, ma realmente poco adatto agli ascoltatori che amano il progressive più audace e complesso, capace di stupirvi davvero: se siete tra questi, allora il mio consiglio è di rivolgersi altrove.

Per informazioni e contatti: pineapplethief.com
Gazpacho - "Demon" (Kscope, 2014)
E' questo l'ottavo disco per la band norvegese dei Gazpacho, già nota nel circuito prog, ma il primo che mi capita di ascoltare. Il nucleo vero è racchiuso in quattro brani, due dei quali formano una sorta di suite, sia pure separati da un breve intermezzo, mentre una bonus track completa la sequenza dell'edizione "digibook". A questo proposito, mi permetto di fare una considerazione sulla confezione: la grafica è ovviamente in tono con il contenuto, ma il libretto stavolta è praticamente illeggibile, a meno di non volersi rovinare la vista. Perché mai? Se si è convinti di aver scritto dei testi importanti, per farli conoscere non sarebbe preferibile un accostamento meno cervellotico tra il colore dello sfondo e quello dei caratteri? La domanda è retorica, ovviamente. Chiusa parentesi.
Il sestetto di Oslo ha proprio l'anima introspettiva, cupa a tratti, che ci si aspetta dai musicisti scandinavi, e infatti in questo caso il concept alla base del disco è un fantomatico diario, ritrovato in una vecchia abitazione di Praga, che testimonia la presenza inquietante e le varie manifestazioni del diavolo, da cui il titolo stesso. Non aspettatevi però tinte forzate o particolarmente crude, perché il mood sonoro, come pure quello delle liriche, tende piuttosto al romanticismo un poco torbido e misterioso di tanta letteratura mitteleuropea, musicalmente tradotto in un flusso musicale lento e avvolgente, che richiama i Radiohead, ad esempio, e altri nomi del post-prog inglese. Entrando nel merito, la sequenza si apre con "I've Been Walking", che subito cattura l'attenzione nell'alternanza programmatica di pieni e vuoti: la bella voce solista di Jan-Henrik Ohme, grondante un estenuato lirismo di sicura presa, rotola sulle note rarefatte del pianoforte, finché l'atmosfera si articola attraverso brusche sincopi di chitarra e batteria, pause fascinose per violino e piano con remote melodie sullo sfondo, e nuove riprese con l'organo di Thomas Andersen in evidenza nell'impasto. Un manifesto che cattura a dovere l'anima del progetto, con i suoi colori volutamente oscuri, ma insinuanti, che irretiscono l'ascoltatore in un labirinto indubbiamente molto evocativo. Come una sorta di parentesi, segue quindi "The Wizard of Altai Mountains", minimale e cantabile all'inizio, prima di lasciare il campo a una briosa danza popolare: la fisarmonica e il violino di Mikael Krømer salgono al proscenio nella seconda parte di un brano che fa da spartiacque, e prepara lo spartito più intenso di "I've Been Walking part 2". Il pianoforte e il mellotron cullano qui il canto assorto di Ohme, stavolta affiancato da una seconda voce femminile, molto efficace, come quella di Charlotte Bredesen: il tessuto strumentale è un complesso reticolo "dark" di suoni minimali, ancora col violino lamentoso che prende corpo lentamente, tra voci operistiche che sembrano sgorgare da vecchi grammofoni, in un flusso periodicamente spezzato da potenti sincopi ritmiche. Solo nel finale il tema si distende, splendidamente, sulla voce limpida di Ohme e sulle ali del mellotron, in un crescendo di grande effetto. Per me è il momento più alto del disco.
La quarta traccia della raccolta è la lunghissima "Death Room": quasi diciannove minuti all'insegna di una tensione palpabile, che vibra soprattutto nei trilli dissonanti del violino e nelle percussioni irregolari, e naturalmente nella sofferta voce solista che intona l'ultimo atto di questa parabola diabolica. Il pezzo si apre gradualmente, con moderate accelerazioni, nelle cadenze di un'elegia rassegnata e malinconica nella quale trovano ancora posto inserti folk e melodie vagamente "retrò", per piano e fisarmonica, quasi a sospendere il racconto in una dimensione arcana e fuori dal tempo. E' un altro momento estremamente suggestivo, soprattutto per certi accostamenti timbrici e cromatici: forse, però, una maggiore sintesi nello sviluppo del disegno sonoro, già complesso di suo, avrebbe giovato al risultato finale.
In conclusione, il mio giudizio è largamente positivo, con qualche piccola osservazione a margine. Bisogna riconoscere ai Gazpacho il coraggio di esprimersi attraverso storie e soluzioni musicali mai prevedibili, spesso inedite, che sanno quasi sempre lasciare il segno, ma il vero rischio di progetti del genere è quello d'innamorarsi di un'oscurità intellettualistica un poco fine a se stessa: una tentazione che affiora qua e là in questo lavoro, pur senza prendere troppo la mano al gruppo. Più semplicemente, "Demon" è un album che richiede un'attenzione speciale, e dunque ascolti ripetuti, prima di poterlo inquadrare davvero: l'impegno della band norvegese a non accontentarsi e osare, insomma, merita senz'altro un piccolo sforzo in più. Lo consiglio perciò al pubblico più avventuroso e sofisticato, che sicuramente saprà apprezzarlo.

Per informazioni e contatti: gazpachoworld.com
Accordo dei Contrari - "AdC" (AltrOck, 2014)
Giunti finalmente al terzo capitolo discografico, a tre anni di distanza dal precedente "Kublai", i bolognesi Accordo dei Contrari ce la mettono davvero tutta per farci capire di che pasta sono fatti. "AdC", infatti, dura trentotto minuti circa, come un classico ellepì di una volta, e le sei tracce interamente strumentali del disco sono registrate dal vivo in tre sole sedute di studio, con pochissimi effetti sovrapposti all'incisione ("overdubs"). Uno sforzo di autenticità estrema e di rispetto verso l'ascoltatore che non capita spesso di ritrovare nelle produzioni recenti. Ci accostiamo perciò all'ascolto con la curiosità di verificare il risultato di tali premesse, che come sappiamo non sempre è adeguato alle migliori intenzioni: vecchia storia.
"Nadir", che apre l'album, è anche l'episodio più lungo della raccolta, e probabilmente tra i più convincenti. Dopo una sorta di prologo dominato dal synth di Giovanni Parmeggiani, che firma da solo quasi tutti i brani, balza in cattedra una sezione ritmica travolgente che fa la differenza. La batteria di Cristian Franchi segue un ritmo concitato e irregolare, intervallato da chitarre acustiche e nuovi effetti sintetici, surclassati da continue ripartenze in un impasto serratissimo, mentre la vibrante chitarra elettrica di Marco Marzo Maracas e il piano elettrico vengono fuori con grande vitalità: è un brano esuberante e ricco di fratture, un jazz-rock mobilissimo che surclassa l'ascoltatore con un pathos strumentale davvero notevole. La dimensione ritmica è uno degli elementi vincenti del disco, come si conferma anche in "Dandelion": qui al gioco dirompente della batteria si affianca più corposamente la chitarra solista, oltre all'organo di Parmeggiani, creando, a tratti, un effetto di impressionante saturazione sonora. Siamo sempre su livelli eccellenti, per tecnica e intensità dell'insieme.
L'intreccio di "Dua" è invece costruito s'un tema di pianoforte involuto e petulante, con la chitarra libera di svariare e la ritmica che morde come al solito. Nella trama si aprono spazi lasciati all'estro dei singoli, e pause improvvise che preludono a nuove progressioni trascinanti, con l'organo e la chitarra sugli scudi. Tra gli altri brani, sorprende l'intro cameristico di "Seth Zeugma", sotto il segno di violino e violoncello (Vladimiro Cantaluppi ed Enrico Guerzoni) che intrecciano un vivace dialogo col pianoforte, prima di lasciare il campo all'impasto strumentale del quartetto elettrico, vigoroso e dinamico nel suo incedere fratturato. Il maturo amalgama del gruppo è il dato che più colpisce in ogni momento della sequenza, e non solo negli episodi più tirati. Basti citare "Tiglath", una vera isola di suoni rarefatti dove anche il silenzio sembra concorrere al disegno sonoro: piano elettrico, effetti percussivi e isolate note di chitarra sono i protagonisti di un lentissimo crescendo che lascia pure emergere richiami balcanici (si pensa a certe cose degli
Area) dettati dal synth, fino all'ingresso congiunto di chitarra e organo in vista del gran finale. Resta da dire della breve traccia finale, "Più limpida e chiara di ogni impressione vissuta part II", seguito ideale di un brano già presente in "Kublai": prevalentemente acustico, è una sorta di acquerello giocato s'un delicato arpeggio chitarristico, assecondato dal pianoforte, dalla viola e dal violoncello (Marina Scaramagli), che chiude l'album in un clima di squisita eleganza, evocativo e sospeso.
In effetti, a parte l'epilogo, il terzo disco del quartetto bolognese si sviluppa in gran parte nel segno di una forte tensione strumentale, quasi che l'affiatamento raggiunto da Parmeggiani e compagni avesse bisogno di una verifica quanto più possibile concentrata e senza troppe digressioni. L'effetto finale, comunque, è duplice: da un lato rafforza l'idea di trovarsi davanti a un gruppo di sicura personalità, tra i migliori in circolazione, che non ha paura di giocarsi tutto senza rete di protezione, e dall'altro può mostrare il fianco alle critiche di chi apprezza proposte sonore più variegate e articolate, come in certo progressive di ascendenza sinfonico-romantica. Ovviamente la proposta firmata Accordo dei Contrari s'inscrive, semmai, nella scia di un certo Avant-Prog dai tratti "fusion" che guarda avanti senza nostalgie, e in questa direzione non ha paura di mescolare le carte con richiami e influenze più varie di quanto possa apparire al primo ascolto, filtrate con intelligenza e padronanza dei propri mezzi. Ecco perchè, in conclusione, questo nuovo disco merita tutta l'attenzione degli appassionati più esigenti e curiosi, come del resto i due precedenti: se li avete amati, "AdC" non deluderà di certo le vostre aspettative.

Leggi l'intervista a Giovanni Parmeggiani
Per informazioni e contatti: www.accordodeicontrari.com
JPL - "MMXIV" (Quadrifonic, 2014)
Più che un semplice disco solista, questa quinta prova firmata da Jean-Pierre Louveton (JPL appunto) potrebbe definirsi una vera esperienza "in solitaria": il chitarrista francese, che molti conoscono come anima della quotata band Nemo, suona, canta e produce infatti in assoluta solitudine l'intera scaletta, lasciando agli ospiti solo pochi scampoli, come un inserto di tastiere e qualche supporto qua e là nelle parti cantate. Una bella impresa davvero, anche perchè "MMXIV" è alla resa dei conti un buon disco, sicuramente degno di attenzione.
Composto di otto tracce per una durata di un'ora circa, cantato in francese e inglese, l'album è una rassegna sonora piuttosto compatta e brillante. Imperniato ovviamente sul suo strumento solista, quello di Louveton è un prog-rock elegante, ma spesso anche piuttosto "heavy" nelle sue articolazioni strumentali, senza dimenticare mai, comunque, i riferimenti spesso tirati in ballo per gli stessi Nemo: gli
Ange più sanguigni, in particolare, e altre esperienze similari del prog transalpino degli anni Settanta. Ad esempio l'iniziale "Je suis roi", probabilmente il vero picco della raccolta, è sicuramente un campione rappresentativo dell'intero progetto. Architettato con indubbia perizia, e scandito da ipnotici arpeggi chitarristici in un clima quasi space-rock, il brano spicca il volo su graffianti riff di sicura presa incastonati in uno spartito che alterna una cadenza flemmatica, con eccellenti parti vocali e spunti di synth, a vigorose accelerazioni drammatiche di grande effetto. Un biglietto da visita notevole. Molto composita anche la costruzione di "Mad science", che dopo un lungo inserto parlato (la voce è di Terry Cooper) s'un tappeto sonoro vagamente "dark", vira brevemente verso toni acustici prima di sterzare in direzione d'un rock piuttosto abrasivo, dove la chitarra domina a lungo la scena in uno disegno ritmico che resta molto dinamico e serrato.
Trascinante è pure un episodio come "Invisible death", cantato stavolta in inglese: una ficcante progressione chitarristica sottolineata dallo sfondo arioso delle tastiere, ancora s'una base ritmica estremamente tirata. Molto pirotecnici qui i riff di Louveton, come pure in "Superhero", uno dei momenti in stile hard rock più classici del disco, anche se a metà brano l'inserto delle tastiere di Guillaime Fontaine aggiunge uno speciale pathos di sapore esotico-orientale di grande presa. Più riflessiva, anche nelle liriche, è invece la ballata intitolata "L'un contre l'autre": è un pezzo che cresce lentamente sulla voce del chitarrista all'interno di un tessuto chitarristico più pacato e avvolgente, senza grandi picchi ma piuttosto gradevole, come un altro episodio nella stessa scia espressiva, "Le dernier souffle de vent", dove però si ascolta anche il pianoforte nell'impasto strumentale. In queste due tracce si apprezza la discreta voce solista di Louveton e, soprattutto nella seconda, il suo duttile stile chitarristico, ben dosato tra pennellate calligrafiche e vigorose inflessioni di matrice "hard".
A chiudere l'album è proprio la lunga title-track, quasi dodici minuti che sembrano voler tirare le somme, radunando tutti i sapori offerti dalla sequenza, sia musicalmente che nei contenuti lirici. Dunque è un solido hard rock a fare da collante a trame sostenute da un ritmo travolgente e irregolare dentro il quale trovano spazio brucianti riff chitarristici e spunti che richiamano ancora suggestioni mediorientali. Tra cambi di tempo e pause evocative, nelle quali s'innesta un testo che riflette sulla natura umana immutabile, nel fondo, dietro le forme cangianti, la traccia conferma la buona tenuta di un disco decisamente riuscito. E' infatti suonato e cantato con discreta verve, prodotto a dovere dal chitarrista francese, e offre soprattutto una ricetta sonora che non è forse innovativa in termini assoluti, ma proposta con un piglio convincente e una qualità tecnica di prim'ordine. E' specialmente da sottolineare, inoltre, la capacità dell'artista di amalgamare tra loro, con risultati convincenti, i suoni rock più duri con la scrittura più raffinata che discende dalla nobile tradizione del prog romantico. Insomma, per gli amanti del prog transalpino, e del cosiddetto hard progressive, ma non solo, questo è un ascolto che può riservare piacevoli sorprese.

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Marco Masoni - "Il multiforme (paesaggi catartici e operette morali)" (AMS, 2014)
Al suo esordio da solista, il pisano Marco Masoni (voce, basso, chitarre) può definirsi una piacevole sorpresa nel panorama della musica italiana odierna. Fondatore e anima per anni dei Germinale, una delle band più in vista nel rilancio del prog italiano degli anni Novanta, Masoni conferma il meglio di quell'esperienza, ad esempio nella capacità di tenere insieme, brillantemente, la parte lirico-testuale e quella strettamente musicale: il ruolo dei testi è sicuramente esaltato dalla dimensione più libera e cantautorale del progetto, eppure, va detto, anche i seguaci prog più ortodossi non saranno delusi da un disco che non rinnega affatto i trascorsi rock dell'artista.
Come la copertina stessa sottolinea, in una sorta di mosaico dove compaiono volti dell'immaginario rock che lo ha nutrito (dai Pink Floyd ai Genesis, passando per Battisti e Frank Zappa), Masoni è davvero un musicista "multiforme" nel senso migliore del termine: ormai sperimentato anche come produttore e autore, fa proprio delle sue variegate influenze accumulate la vera essenza di questo suo lavoro. Nulla insomma va perduto di quello che viviamo e ci fa crescere, sembra il suo motto, e questa varietà di umori amalgamati con sapienza giova al risultato finale di un disco godibile, più stratificato e profondo di quanto potrebbe sembrare ad un primo ascolto distratto: a mettervi in guardia, del resto, basta quel sottotitolo ironico e impegnativo al tempo stesso. L'attacco è affidato all'accattivante melodia di "Tutti in colonna (La vita non è)": un testo tutto al negativo, che sciorina le false formule buone a definire la vita di molti, partendo dall'autore stesso, è abbinato ad un motivo pop scacciapensieri che cattura subito. E' una delle molte facce del disco, replicata in altri episodi come "Maggio d'improvviso", con le sue immagini di sempre ("la retorica dei panni stesi nei vicoli di Napoli") che in qualche modo rassicurano "sui destini di questo mondo": musicalmente è un pezzo frizzante, ben costruito sul piano elettrico e le chitarre, fino alla bella coda di organo di Edoardo Magoni, che cura tra l'altro tutti gli arrangiamenti dell'album.
Ecco, un altro punto a favore de "Il multiforme" è il livello sempre accurato della confezione sonora che pure, badate bene, non scade mai in quella pedanteria senz'anima che irrigidisce anche le migliori intuizioni in un compito tecnicamente perfetto ma senz'anima. Per sua e nostra fortuna, Masoni sceglie una via diversa: se nelle liriche si mette in gioco senza veli, tra amori e idiosincrasie dichiarate, lo stesso avviene per la parte musicale, che abbraccia suggestioni diverse ma ugualmente importanti a far emergere la sua vera identità artistica. La splendida minisuite "Catarsi", divisa in "Riti sul vuoto (caffè, drappi)" e "Visioni in celebrazione", è un omaggio alle sue radici prog: prima con un occhio ai Pink Floyd più evocativi e flemmatici, con il flauto di Elisa Azzarà e il mellotron in bella evidenza sotto il cantato meditativo, e poi attraverso una corposa sterzata ritmica che vede l'organo e un flauto ancora più ficcante protagonisti assoluti della scena. Richiami espliciti e citazioni raffinate convivono felicemente nello stesso impasto, sempre sorretto da uno stuolo di validi collaboratori, e da una voce forse non straordinaria, ma genuina quanto basta per dare spessore e credibilità alle parole messe in musica.
Altri momenti da citare sono "Perdersi", soffice ballata costruita su chitarra acustica, percussioni e il pianoforte squisito di Giulio Collavoli: "Per perdermi ho perso molto tempo/e non me ne è rimasto più" recitano i versi, quasi un manuale per ritrovare se stessi nella selva di simboli e sovrastrutture che ci assediano; poi "Treno temporale", meditazione sul senso della vita che scorre tra una stazione di partenza "che non ricordi" e un'altra d'arrivo "che non conosci", spezzata da improvvise accelerazioni e dalla chitarra elettrica di Salvatore Lazzara (compagno di strada nei Germinale) che incide a dovere nel finale; per finire con "Mi ha detto Bob Dylan", episodio che omaggia il grande poeta del folk-rock americano, e include qua e là intermezzi sospesi, fatti di note trasognate e ammalianti che lasciano il segno. Non manca neppure qualche graffiante esempio della tipica ironia toscana: ad esempio le pecore che aprono il disco come metafora del conformismo, e poi tornano protagoniste di un surreale e inquietante episodio di cronaca ne "Il suicidio di 500 pecore".
Per chiudere, questo è un disco molto gradevole che si ascolta con interesse fino in fondo, anche se non tutti apprezzeranno, forse, una ricetta sonora dai sapori tanto diversi: per me invece, paradossalmente, è proprio questo il merito principale di Masoni, che alla sua prima prova da solista non ha voluto barare, firmando invece una sequenza che lo rappresenta a tutto tondo, tra influenze composite, nostalgie e ossessioni personali. Un merito niente affatto trascurabile che va sottolineato, in tempi governati dalla furbizia e dal puro marketing: qui c'è musica onesta e ben suonata, senza trucchi.

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Alex Carpani - "4 Destinies" (Festival Music, 2014)
Giunto al suo terzo disco di studio, il tastierista bolognese Alex Carpani, che esordì nell'ormai lontano 2007 con
"Waterline", dimostra una notevole coerenza musicale e una qualità compositiva ancora fresca e stimolante. Nonostante le ascendenze dichiarate dal progressive più classico degli anni Settanta, la sua scrittura non mostra infatti la corda come quella di altri suoi colleghi: in questo caso, inoltre, ha voluto al suo fianco un glorioso fiatista ormai di casa dalle nostre parti come David Jackson (l'ex VDGG), che non si limita a brevi interventi qua e là, ma è coinvolto fecondamente nello sviluppo dei singoli temi proposti. Per il resto, la band responsabile dell'incisione comprende, insieme a membri già sperimentati come il chitarrista Ettore Salati, nuovi musicisti quali GB Giorgi (basso) e Alessandro Di Caprio (batteria), oltre a una seconda voce come Joe Sal: uno schieramento che si mostra rodato e perfettamente funzionale alle trame sonore di "4 Destinies".
In linea con la tradizione prog, il disco allinea solo quattro episodi di lunga durata, dominati da una vena complessa e tuttavia godibile, che poggia ovviamente sul ricco parco-tastiere di Carpani, ma sa integrare con intelligenza gli spunti dei singoli strumentisti, e soprattutto accoglie nello schema di base, personalizzandoli, una discreta serie di richiami e influenze. Una certa omogeneità stilistica che accomuna tutti i brani è anche il riflesso fisiologico della struttura "concept" dell'album, che concede infatti più spazio alle liriche: quattro destini, o percorsi individuali, che attraversano la vita partendo da un unico centro. Nel vivace attacco di "Ther Silk Road", la band aggredisce l'ascoltatore con un fitto lavoro congiunto di organo e chitarra, sostenuto da una batteria molto dinamica, e una verve trascinante che porta spesso in primo piano il sintetizzatore: è una composizione ricca e ariosa, con pause atmosferiche sul pianoforte e la voce dello stesso Carpani, in italiano e inglese, e distribuisce inserti pregevoli di flauto, sax e chitarra solista in un disegno davvero incisivo. Un primo atto di grande effetto, che si riverbera anche sul resto.
L'unità stilistica di cui parlavo, bisogna dirlo, non significa affatto che l'insieme scorra uguale e senza sorprese. Tutt'altro. "Sky And Sea", terza traccia della sequenza, si colloca ad esempio in una dimensione più variegata e sognante, con una prima parte di arpeggi chitarristici, pianoforte e spirali di sax di sfondo al canto solista, qui molto efficace. Il pezzo si evolve gradualmente sull'organo e le chitarre, in una sorta di ascesa dai contorni "dark", sottolineati anche da una ritmica spigolosa e dal mellotron, con una parte centrale più mossa, prima del finale morbido e sfumato che si ricollega all'inizio. Molto sinfonica suona la conclusiva "The Infinite Room", con una raffinata tessitura di sax e piano che cattura l'attenzione in apertura: subito dopo, l' impasto sonoro e le accelerazioni ritmiche con chitarra e organo sugli scudi richiamano da vicino il rock più tipico dei Genesis, e in effetti l'atmosfera è molto evocativa e romantica, specialmente per i toni maestosi del mellotron e per il cantato. Mordente e stratificato è anche "Time Spiral", con la batteria marziale e il pianoforte che guidano insieme l'attacco in crescendo del pezzo, poi articolato sapientemente tra intervalli fascinosi, rotture ritmiche e intensi picchi espressivi con l'organo, il synth e il sax di Jackson ancora in bella evidenza, insieme alle parti vocali: il fiatista inglese si conferma qui l'altro protagonista del disco, e mostra di aver conservato inalterato il suo potenziale espressivo, capace di sfumature e soluzioni imprevedibili che arricchiscono non poco il risultato complessivo.
La terza prova discografica di Alex Carpani, per tirare le somme, non deluderà certo gli appassionati del prog tricolore: "4 Destinies" è concepito e suonato come si deve da cima a fondo, e pur rispettando certi canoni del cosiddetto "vintage prog" più noto, non somiglia mai ad un mero esercizio stilistico come in altri, purtroppo numerosi esempi. Merito principale del tastierista, per l'appunto, è aver saputo rimpolpare la sua ispirazione di riferimento con una scrittura sempre versatile e dinamica, mai troppo compiaciuta né virtuosistica, grazie anche alle qualità dei validi collaboratori che si è scelto, ciascuno in grado di fornire un contributo essenziale alla riuscita del disco. Un ascolto consigliato.

Leggi l'intervista ad Alex Carpani
Per informazioni e contatti: www.alexcarpani.com
Panic Room - "Incarnate" (Firefly Music, 2014)
Per i Panic Room, formazione inglese attiva ormai dal 2006, è questo il quarto disco di studio, senza contare un EP uscito nel 2011. Un arco temporale in genere più che sufficiente a guadagnarsi una certa reputazione nel circuito rock, quando si hanno le buone qualità mostrate dal quintetto. In realtà, l'impressione è che la band soffra finora di un seguito relativamente modesto, forse a causa di un profilo musicale che il pubblico non ha ancora definito con precisione: l'etichetta "crossover prog", che alcuni media hanno affibbiato ai Panic Room, non a caso è di quelle che vogliono dire tutto e il suo contrario. Che si tratti di una proposta di tutto rispetto, comunque, e molto appetibile ormai per una audience più larga, a me pare indubbio ascoltando il disco in questione.
Con la bella e distintiva voce solista di Anne-Marie Helder al centro delle dieci tracce di "Incarnate", il gruppo ribadisce la sua propensione per un suono che miscela con disinvolta abilità umori pop sofisticati, echi celtici, suggestioni neo-prog e vagamente ambient, a tratti, all'interno di uno schema che lascia in primo piano soprattutto la chitarra del nuovo arrivato Adam O'Sullivan, ma con l'arioso e necessario supporto delle tastiere di Jonathan Edwards, impegnato soprattutto al piano e al synth, oltre che principale compositore del materiale insieme alla cantante. La ricetta di fondo è comunque sempre compatta, spesso melodica, improntata a una grande eleganza di fondo che non cerca soluzioni cervellotiche a tutti i costi. Non troverete qui, per capirci, le complicate architetture sonore del progressive più "vintage", che vanta anche oggi molti validi esponenti, bensì una sequenza accattivante quanto raffinata di solide canzoni condite da funzionali arrangiamenti e sfumature strumentali sempre pregevoli. Le differenze tra i singoli episodi non sono eclatanti, in effetti, quasi che sgorgassero tutti da una stessa fonte ispirativa, poi lasciata decantare attraverso un'invidiabile fluidità di scrittura, ma allo stesso tempo ci sono momenti che lasciano il segno per alcuni dettagli inseriti nella trama sonora.
Tra i picchi del disco, ad esempio, cito la lunga "Into Temptation", articolata sulla lenta progressione vocale di Anne-Marie Helder e sul raffinato cesello di una chitarra pungente che alla lunga, senza strafare, balza in primo piano nel bellissimo finale. Una ricetta calibrata con gusto, fuori da ogni facile protagonismo, che il synth di Edwards sottolinea a dovere. Non che manchino del tutto parentesi strumentali genuinamente rock, come l'iniziale "Velocity", sviluppata s'un bel riff chitarristico che lascia poi spazio al canto multiforme della vocalist in un riuscito gioco di pieni e vuoti. In generale, tuttavia, il suono della band inglese predilige atmosfere più contenute, magari cariche di una tensione sotterranea capace di trascinare nei suoi vortici un poco ossessivi: ad esempio la splendida title-track, stavolta sottolineata da un giro di chitarra ipnotico, con improvvise aperture sulle tastiere nei momenti più intensi. Notevole. Certi attacchi, come il piano elettrico che scandisce "Waterfall", riecheggiano vagamente l'art pop dei Supertramp più fortunati, ma qui la felice linea melodica del brano si giova del timbro inconfondibile della voce femminile, assoluta protagonista di un album che si specchia proprio nella sua grande versatilità espressiva.
La cantante, in effetti, sembra pure trovarsi a meraviglia in episodi dal passo sinuoso e sofisticato come "All That We Are", costruita sul pianoforte, e poi nel lento crescendo orchestrale di "Close the Door". Personalmente, però, preferisco quei brani in nervoso divenire come "Searching", sostenuto dalla batteria incalzante di Griffiths e da un prezioso lavoro congiunto di piano e chitarra sotto la voce, oltre a un singolare inserto di armonica che proprio non ti aspetti e lascia il segno. La finale "Dust", ramificata e complessa nel suo incedere, intreccia tutti i richiami della raccolta in un arazzo più gotico, con una tensione magistralmente intepretata dalle tastiere sinfoniche di Edwards, dal chitarrismo psichedelico di O'Sullivan e, naturalmente, dalla bravissima cantante. Un perfetto gioco d'insieme che chiude nel miglior modo possibile un disco affascinante e convincente: forse, chissà, quello che segnerà la vera consacrazione per i Panic Room. Sarebbe, secondo me, pienamente meritata.

Per informazioni e contatti: www.panicroom.org.uk
Syndone - "Odysséas" (Fading Records, 2014)
La band torinese capeggiata da Nik Comoglio era attesa con grande curiosità a questa nuova prova discografica: dopo un capolavoro vero come "La bella è la bestia"
, colpevolmente misconosciuto dallo strabico circuito prog che prende spesso lucciole per lanterne, non era affatto facile confermarsi a certi livelli di eccellenza. Sono riusciti i nostri eroi nell'ardua impresa? A mio parere, decisamente sì.
"Odysséas", un concept dedicato al viaggio inteso come conoscenza e ispirato senza vincoli restrittivi al mito di Ulisse, ribadisce soprattutto che il trio ha ormai raggiunto un maturo amalgama tra le parti che però, questo è il bello, non si è ancora cristallizzato in una qualsiasi formula standard che suoni prevedibile. Al contrario, se i punti di forza sono quelli ormai noti (le ricche tastiere di Comoglio, il vibrafono di Pinetti e il canto di Ruggeri), l'ispirazione resta mobilissima, capace di aprirsi ogni volta senza complessi a suggestioni sonore molto diverse, pur senza mai strafare. Anche qui, come in passato, c'è infatti un'invidiabile capacità di sintesi che in soli cinquanta minuti ci porta a spasso con l'eroe omerico tra passato e presente, riuscendo a inserire nel racconto epico argute osservazioni sull'oggi. Bello, e niente affatto pesante, questo è un altro disco che merita tutta l'attenzione dovuta alle opere eccellenti. Al progetto partecipano ospiti di vaglia come il batterista tedesco Marco Minnemann e, in un ruolo più defilato, il flautista John Hackett, fratello del più noto Steve (ex chitarra dei Genesis), ma ricco è anche il contributo dei fiati e degli archi, che senza ingolfare mai lo spartito aggiungono un elemento ben calibrato di raffinatezza all'atmosfera generale: è il caso di "Vento avverso", ad esempio, e "Il tempo che non ho", arrangiati con morbida eleganza.
I tredici episodi della raccolta si dividono comunque tra brevi momenti strumentali e più articolate parti cantate. Nel primo gruppo spiccano l'apertura serrata di "Invocazione alla Musa", col vibrafono di Francesco Pinetti sugli scudi insieme al dinamico synth di Comoglio, ma non sono da meno "Circe" e "Poseidon": episodi ficcanti in una stimolante chiave jazz-rock, con la batteria di Minnemann che fa scintille in combutta col basso di Federico Marchesano, mentre Comoglio si destreggia al meglio tra pianoforte, organo e synth. Si tratta comunque di inserti che sembrano fungere da raccordo, dando adeguato respiro alle tappe del racconto, depositato soprattutto nei pezzi cantati da Riccardo Ruggeri: è qui che il disco trova ancora una volta il suo focus e quella magia che la voce del cantante, spesso felicemente androgina nelle sue sfumature, sa sprigionare. Se nel disco precedente Ruggeri riusciva a interpretare mirabilmente tutti i personaggi della favola, qui non è meno abile nel restituire i chiaroscuri di un viaggio ricco di pathos e sentimenti ambivalenti: nostalgia, amore dell'ignoto, passione e orgoglio trovano di volta in volta il tono più adeguato nelle sue corde vocali. Si passa così dal mood aggressivo di "Focus", con i fiati e l'organo in evidenza sotto la voce, alla splendida tessitura di "Penelope", intrisa di sospirosa nostalgia e speranza: magnifico qui il tono dolente che vibra nel canto solista, cullato a dovere dal pianoforte e quindi dal flauto di John Hackett. E' un vero gioiello, ma non certo l'unico della sequenza.
Lascia il segno anche "Nemesis", un pezzo dove le "prigioni" del web richiamate dal testo fanno il paio con le trappole che insidiano lo spirito irrequieto dell'eroe, e la scansione ritmica incalza insieme al piano elettrico, al synth e al vibrafono, con l'aggiunta di un'arpa dal suono antico. Brano evocativo, insomma, e al tempo stesso polemico nel cantato istrionico di Ruggeri: niente male davvero. E poi "Ade", con Caronte e Mr. Bloom (il protagonista dell "Ulisse" di Joyce) strana coppia al centro di un arazzo sonoro dalle movenze sinuose, sottolineate dal colore versatile delle tastiere e dagli archi. E' sempre notevole, nel suono dei Syndone, questa convivenza di una trama complessa con brillanti parti liriche e vigore strumentale, anche nello stesso episodio: un equilibrio magistrale, non certo comune nel rock italiano, che ha il pregio di suonare sempre godibile, oltretutto, senza tradire la complessa ricerca che c'è dietro. Se a questo innegabile talento, qui riconfermato, si aggiunge un'altra produzione di prim'ordine sotto ogni punto di vista, è chiaro come "Odysséas" sia l'ennesimo disco del trio da non perdere assolutamente. Lasciatelo suonare nel vostro lettore e godetevi il lungo, appassionato viaggio verso la libertà di Ulisse e del trio stesso: non vi deluderà.

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Factor Burzaco - "3" (AltrOck, 2014)
C'è ancora chi non si rassegna a fare musica per tutti, catalogabile al primo ascolto, e se ne infischia dello show-business con tutte le sue regole: chi fa musica, insomma, per dare voce a sentimenti, emozioni, punti di vista che raramente trovano spazio nella musica odierna. I Factor Burzaco, band argentina arrivata al terzo appuntamento discografico, appartengono senz'altro a questa schiera, e non lo nascondono.
Sotto la guida del compositore-arrangiatore Abel Gilbert, la band si destreggia in dieci tracce urticanti, a struttura aperta e mutevole, che non si lasciano catturare facilmente, ma presuppongono un ascolto libero da formule e pregiudizi. Solo in questo modo è possibile apprezzare, forse, una musica che segue percorsi ostici e impegnativi. La voce solista di Carolina Restuccia è il cuore emotivo dell'operazione: multiforme e ondivaga, interpreta con piglio imprevedibile le atmosfere irregolari dei compagni, in liriche immaginose di varia ispirazione. Ci sono larghi spazi strumentali, dominati in genere dai fiati, ma anche episodi per voci a cappella ("Soga" ad esempio), mentre altrove sono le chitarre di Pedro Chalkho a riannodare i fili in uno schema che rimane comunque mobilissimo quanto refrattario alle etichette. Questo lato sperimentale è il maggiore interesse del progetto Factor Burzaco, o magari il suo limite, secondo i punti di vista. Dischi del genere non lasciando indifferenti: o li si accetta o li si rifiuta già dopo pochi ascolti. Personalmente ho trovato la proposta interessante, anche se non sempre convincente, pur rendendo merito all'evidente tentativo di uscire dall'ovvio in favore di nuove forme espressive. La mia opinione è che anche l'avanguardia musicale può trovare un linguaggio più comunicativo, senza per questo snaturare le sue premesse di base: cito ad esempio la musica dei Nichelodeon di Claudio Milano, non certo meno ambiziosa, eppure più intrigante nel modo di proporsi.
Il gruppo argentino assembla nel disco diverse suggestioni ed una grande varietà di registri: "Donde Nos Habiamos Quedado", in apertura, abbina chitarra acustica al canto sopra le righe, con spezzature e riprese sincopate sostenute dal clarino, secondo un disegno volutamente estemporaneo e non melodico. Motivo ricorrente in tutto l'album, anche se a volte affiorano monconi di ritmiche più abbordabili: ad esempio "Arnoldturro", con alcuni versi in lingua tedesca all'interno d'una parte strumentale guidata da flauto, organo e vibrafono, e soprattutto "Inter Diccion", ben costruita sul ritmo dispari di basso e batteria, con la chitarra elettrica che punge e l'interpretazione vocale della Restuccia sempre intensa. Nella stessa scia anche "Evasion Imposible", con la sezione ritmica ancora protagonista insieme al clarino. "Soga Func" è scandita da un vero ritmo "funky", sia pure attraversato da sprazzi di hard rock e altre interferenze sonore. Negli spazi esclusivamente strumentali, come "La vera storia di Tristan O.", domina invece una ritmica frantumata, tra intervalli di silenzio e variazioni improvvise, ancora con i fiati in primo piano a sviluppare sonorità impervie, a volte affascinanti pur nel programmatico rifiuto di un'armonia lineare. Quella del gruppo argentino, in effetti, sembra davvero una "disarmonia prestabilita", come recitava il titolo di un vecchio studio sull'opera di Gadda.
Tra i momenti più suggestivi c'è sicuramente "LAS": qui la cantante interpreta con maggior misura il testo, coadiuvata dai fiati e soprattutto da voci sopranili e tenorili ben orchestrate, in un clima rarefatto al limite del silenzio, ma molto coinvolgente. Il brano "En Transito/Asudep Mal" cita anche nel titolo (Lampedusa scritto al contrario) la nota località italiana divenuta famosa, suo malgrado, per il sovraffollamento di migranti arrivati via mare, affidando il ruolo centrale al vibrafono di Facundo Negri, e ai fiati, per creare un mood vagamente spettrale. La lunga chiusura di "Silicio" è una successione concentrata di tutte le caratteristiche fin qui elencate: atmosfere ineffabili, libere associazioni sonore, riprese inopinate sulla voce e la sezione ritmica. Nei momenti più lineari si indovina il potenziale tecnico della band, sacrificato a una concezione musicale particolarmente severa: così, se le ambizioni messe in campo dai Factor Burzaco sono legittime, e la loro proposta qua e là molto personale, questo loro terzo disco è per forza di cose destinato a pochi. Lo consiglio infatti agli appassionati cultori del cosiddetto avant-prog: qui troveranno sicuramente pane per i loro denti.

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Transatlantic - "Kaleidoscope" (Inside Out, 2014)
I cosiddetti supergruppi, tipicamente croce e delizia del pubblico progressive, esistono ancora. Nell'epoca d'oro promettevano spesso faville radunando i migliori talenti della scena rock, ma non sempre la somma dei fattori produceva poi un risultato in linea con le attese, perché a volte l'intento speculativo-commerciale di certi progetti aveva la meglio e l'operazione si rivelava un flop. Anche i Transatlantic, formazione apolide per eccellenza, si pongono nella scia di certi illustri precedenti: in questo caso gli americani Mike Portnoy (batterista ex Dream Theater) e il tastierista/cantante Neal Morse (ex Spock's Beard) fanno squadra con il bassista inglese Pete Trewavas (Marillion) e il chitarrista svedese Roine Stolt (Flower Kings). Naturalmente ogni esperienza fa storia a sé, e dunque, senza generalizzare troppo, preferisco entrare subito nel merito del loro quarto disco di studio.
Basta leggere la scaletta per capire che la band rispetta anche in questa prova i canoni del prog di matrice classico-sinfonica: due lunghe suites in testa e coda fanno la parte del leone, con tre brani più brevi nel mezzo a completare la sequenza. Una sequenza corposa e fin troppo lunga, come va di moda oggi, quasi che la durata di un album facesse la differenza. E non è così, anche se stiamo parlando di quattro strumentisti di valore. L'attacco in sordina di "Into the Blue", la suite d'apertura, dopo l'intro malinconica del violoncello si ramifica infatti in una successione di tempi e controtempi garantiti dalla potenza di Portnoy alla batteria, col solido contributo di Trewavas al basso e della graffiante chitarra solista di Stolt, prima di lasciar emergere il limpido tema melodico di "The Dreamer and the Healer": ottima la voce di Neal Morse, trasognata e romantica, cullata dal synth e dagli arpeggi di chitarra. Nei cinque tempi della composizione si avvicendano episodi più ritmici e fascinose pause, fino alla ripresa del tema melodico che chiude il cerchio. Niente di sconvolgente, ma una riproposta diligente e di solida fattura di certo prog d'annata, con un occhio di riguardo per gli
Yes del periodo migliore.
La suite posta in coda, che poi intitola il disco, offre oltre mezz'ora di rock sugli stessi canoni, ma forse con qualche variazione ritmica più intrigante già nel primo movimento, con il drumming instancabile di Portnoy sempre in cattedra, e i cromatismi puntuali di chitarra e synth, oltre al mellotron, che infiocchettano il tema. Le parti vocali sono sempre ben incastonate in un tessuto strumentale particolarmente dinamico, e mostrano una band molto affiatata che unisce mestiere e qualità tecnica di prim'ordine. Anche se nulla di quel che ascoltiamo è davvero nuovo, va detto, e ripropone un linguaggio sonoro che i seguaci del prog più grande ormai conoscono a memoria. Ben costruita in ogni caso l'atmosfera solenne e maestosa di "Black Gold", che convive con improvvise parentesi melodiche, mentre "Desolation Days" ammalia ancora sulle note di un violoncello struggente, seguito da pianoforte e chitarra solista che sviluppano il tema principale nel consueto crescendo epico ad effetto. Una sottolineatura a parte merita il ficcante intervallo strumentale di "Lemon Looking Glass", un episodio vigoroso e tiratissimo, dalle risonanze "dark", con chitarra, synth e batteria davvero in grande spolvero: molto bello, e a mio avviso tra i momenti più riusciti del disco.
Negli altri brani della sequenza, melodia e rock si spartiscono la scena equamente con risultati altalenanti: la traccia più romantica è la breve "Beyond the Sun", con il canto intimista al centro di uno schema raffinato e quasi cameristico, dominato dal pianoforte e dagli archi. Di contro, "Shine" è una ballata fin troppo lineare, con la chitarra acustica sotto la voce, che sviluppa un graduale crescendo senza sorprese, mentre almeno più grintosa e vivace suona "Black as the Sky", scandita a dovere dalla batteria e con le brillanti voci corali costantemente in primo piano: si segnala l'utilizzo del synth da parte di Morse e un finale intenso nel quale spiccano la chitarra di Stolt e l'organo.
In sede di giudizio, si deve rimarcare il solido professionismo del quartetto, in grado di offrire comunque un risultato complessivo discreto, dai tratti eleganti, perché veramente nulla è lasciato al caso: in questo senso "Kaleidoscope" è un disco consigliato soprattutto agli "ultras" del progressive sinfonico-romantico, che già apprezzano questo titolato supergruppo. Probabilmente, invece, gli ascoltatori più esigenti e sofisticati troveranno la stessa ricetta abbastanza deludente, avara di spunti realmente originali e decisamente "retrò" per il loro palato. Come si dice in questi casi: a ciascuno il suo...

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Empirical Time - "Songs, Poems and a Lady" (Ma.Ra.Cash Records, 2013)
Si muovono forze nuove sulla scena del rock italiano, e i padovani Empirical Time, attivi dal 2011 ma solo ora giunti all'appuntamento col primo disco, promettono di essere tra i protagonisti di questa ultima ondata. Il loro "Songs, Poems and a Lady", prodotto da Mike 3rd e masterizzato dal noto Ronan Chris Murphy, è infatti una prova di notevole spessore, che si candida come uno degli esordi italiani più autorevoli di quest'ultima stagione.
Il quintetto ruota intorno al tastierista e cantante Riccardo Scarparo, membro fondatore insieme al bassista Andrea Baggio, e allinea anche due chitarristi come Federico Galleani e Giovanni Croatto, oltre al batterista Robert Anthony Jameson: ognuno di loro pare in possesso di una sua personalità, messa con intelligenza al servizio di un suono compattato intorno a un'idea precisa di musica. La strumentazione in gran parte "vintage", e la registrazione interamente analogica, mostrano senza alcun dubbio la predilezione del gruppo per il progressive dell'epoca d'oro, ma riproposto con un taglio piuttosto personale e angolazioni sonore a volte sorprendenti. La sequenza scorre con apprezzabile fluidità fin dall'attacco convincente di "A Slumber Did My Spirit Seal", guidata dalle buone parti vocali in inglese di Scarparo, sulla base del suo ricco parco-tastiere, bilanciato a dovere dal gioco combinato delle chitarre: un tessuto strumentale che appare subito estremamente romantico, dall'incedere perfino ipnotico a tratti, che s'increspa però in sussulti sanguigni di grande effetto, lasciando emergere la preparazione tecnica di una band capace di restituire a nuova vita, con gusto e fantasia, anche stilemi d'annata spesso abusati. S'intuisce anche, fin dal primo ascolto, un lavoro non banale sulle liriche, riprese in parte dai poemi di William Wordsworth, componendo quasi un ritratto di donna sfaccettato e ricco di risonanze suggestive, che si riverbera fecondamente sulla parte musicale in un felice gioco di specchi. (Un tema, quello del "femminino" declinato in tutti i suoi risvolti, che seguita ad ispirare diverse entità del prog italiano più recente: e cito solo, ad esempio, un titolo realmente paradigmatico come
"New Progmantics" di Sarastro Blake).
Entrando comunque nel merito, sottolineo subito, e anche questo è un omaggio alla coerenza stilistica dei padovani, come sia arduo estrarre questo o quell'episodio da una sequenza così ben organizzata dal punto di vista espressivo. Mi piace però citare "Strange Fits of Passion", che rompe di colpo l'eleganza dello schema con l'enfasi del cantato e il piano suonato a martello, mentre "I Travelled Among Unknown Men" scivola su arpeggi chitarristici e pianoforte, con l'appoggio del synth, creando un momento evocativo di grande fascino. La componente lirica e l'anima rock convivono soprattutto in "Diamond Lady Pt.1", con le chitarre ruggenti che drammatizzano il tono in una serie di spunti trascinanti e supportati dal synth di Scarparo, il quale si destreggia molto bene anche nei fraseggi all'organo: ad esempio in "Untamed", un episodio strumentale caratterizzato da continui breaks ritmici, con un grande lavoro di basso e batteria da sottolineare. In effetti, nei brani interamente strumentali si apprezza il lato più tecnico, e anche sperimentale, del quintetto: esemplare in tal senso è la conclusiva "Dancing On Saturno", con effetti elettronici che incorniciano un rock vibrante che riporta alla ribalta le chitarre. Voglio dire che gli Empirical Time sembrano avere diverse carte da giocare, e anche se la loro ispirazione al momento focalizza soprattutto il lirismo romantico e sinfonico di esperienze passate (Pink Floyd e Genesis in testa), mostrano nondimeno una duttilità strumentale di tutto rispetto, che può aprirsi a soluzioni più variegate.
Alla fine, "Songs, Poems and a Lady" è davvero un biglietto da visita ragguardevole per questo giovane gruppo. Senza complessi di sorta nel cimentarsi con l'immaginario impegnativo del progressive più celebrato, questi cinque ragazzi hanno messo insieme un disco appassionato e ricco di sfumature, che sa coniugare l'entusiasmo di ogni prima prova con una cura non comune nel dosaggio dei suoni e dei richiami, in modo da evitare il rischio di un puro esercizio di stile. Ci sono insomma, secondo me, tutte le premesse per un futuro di primo piano sulla scena del rock italiano meno compromesso con le mode e le vetrine televisive, ma anche, finalmente, per un riscontro più vasto che esuli dai soliti e angusti confini della musica di nicchia: sarebbe ora.

Per informazioni e contatti: www.empiricaltime.com
Pandora - "Alibi filosofico" (AMS, 2013)
Il terzo disco dei Pandora, band originaria di Cuneo, suona un po' come la sintesi di pregi e difetti palesati fin dall'esordio. Non c'è dubbio che in quest'ultimo lavoro messo a punto con cura nell'arco di sette mesi, il gruppo abbia giocato in grande le sue carte migliori, ad esempio coinvolgendo musicisti di nome e qualità, dal fiatista David Jackson fino al chitarrista Arjen Lucassen, passando per Dino Fiore (bassista del Castello di Atlante), ma soprattutto realizzando una sequenza musicale dinamica e di grande impatto sonoro: eppure "Alibi filosofico", oltre a regalare momenti di sicuro valore, non fuga del tutto le incertezze già emerse.
Abbandonata la formazione a quattro che suonava in "Sempre e ovunque oltre il sogno", il trio formato da Beppe e Claudio Colombo più Corrado Grappeggia, parte veramente a razzo con i primi due pezzi, che quasi stordiscono l'ascoltatore per la potenza e il fascino arcano sprigionati dalla trama sonora. In particolare "Necromante, Khurastos e la prossima vittima" è uno tra i vertici dell'album: dopo un'intro rumoristica e psichedelica, la chitarra solista molto "heavy" di Claudio Colombo guida una danza vorticosa ben sostenuta dalla batteria e dalle tastiere, in un saliscendi trascinante tra pieni e vuoti dove il canto solista di Grappeggia, sanguigno come le crude immagini del testo, è bilanciato a dovere dai vocalizzi di Emoni Viruet, l'artista portoricana che ha curato anche la veste grafica del progetto. Molto bello. Si scivola quindi nell'atmosfera più evocativa e sospesa di "Né titolo né parole", dominata stavolta proprio dalla voce femminile: la musica, sviluppata sulle tastiere e su arpeggi chitarristici, si muove leggiadra sullo stesso tenore prima di un brusca virata che riporta in primo piano la chitarra solista e quindi le tastiere (ottimo l'apporto di Lucassen al moog), in un'alternanza di magnifico effetto onirico che lascia davvero il segno. Siamo su livelli di eccellenza, ed è da sottolineare come proprio la mancanza di un testo vero e proprio lasci libero corso alla voce trasognata della cantante e, di riflesso, ad un'ispirazione più fantasiosa, indefinita e di grande suggestione. Se il resto conservasse la stessa intensità, potremmo anche parlare di un capolavoro, ma non è così.
Al contrario, nella sequenza ci sono dei bruschi cali di tensione che coincidono proprio con le parti vocali di Corrado Grappeggia, come avveniva nei lavori precedenti. Se almeno un episodio come "Tony il matto", dedicato alla figura del pittore Ligabue, offre uno spaccato strumentale interessante con i fiati del poliedrico David Jackson in bella evidenza accanto alla scansione ritmica del piano, altrove certi difetti strutturali sono più scoperti: è il caso di "Sempre con me", che abbina una ficcante parte musicale in puro stile hard rock, con chitarra e synth di nuovo sugli scudi, a parti cantate non certo irresistibili che lasciano alla fine un senso d'incompiutezza. Non molto diversamente va con la title-track finale, che mostra oltretutto una curiosa dissonanza tra la parte sonora e il testo: un rock di grande vivacità, frantumato in una serie di spunti imprevedibili, convive infatti con liriche di gusto cantautorale, creando a mio avviso un impasto scarsamente coerente. Peccato, perché le qualità tecniche del gruppo si notano anche qui, soprattutto nel ruolo estremamente variegato del reparto tastiere e nella graffiante chitarra solista.
In effetti, che i Pandora siano musicisti creativi e spesso sorprendenti, anche quando si muovono nel solco riconoscibile del classico prog settantiano, lo dimostra anche la lunga "Apollo", sorta di mini-suite che stavolta abbraccia intriganti cadenze folk venate di esotismo, con il flauto di Jackson ancora al proscenio, in una trama strumentale decisamente eclettica e valorizzata stavolta dallo spiritoso testo dialogico tra le voci di Emoni Viruet (Pandora) e Duilio Mongittu (Apollo). Insomma, c'è personalità, grinta e qualità tecnica nella musica della band, e questo "Alibi filosofico" è sicuramente un disco che piacerà agli appassionati seguaci del rock progressivo: nonostante i limiti ai quali ho fatto cenno, che talvolta rischiano d'inficiare le notevoli capacità strumentali messe in campo. Perchè anche nella musica, alla fine, vale sempre quanto diceva il grande Totò: è la somma che fa il totale.

Per informazioni e contatti: www.pandoramusic.eu
Sonata Islands - "Meets Mahler" (Zone di Musica, 2013)
A proposito di esperimenti, ecco qui il nuovo disco dell'ensemble trentino Sonata Islands. L'idea di proporre sei diversi brani di Gustav Mahler reinterpretati da altrettanti virtuosi del jazz contemporaneo è sicuramente una bella scommessa, da guardare con curiosità al di là dei risultati. Non mancano certo precedenti tentativi di legare jazz e musica classica, ma il progetto della formazione italiana riprende "Das Lied von der Erde" ("Il Canto della Terra"), opera davvero singolare firmata dal musicista nel 1909, e composta proprio nella località trentina di Dobbiaco, nella quale il sinfonismo si sposa pienamente alla cantabilità del "lied" tedesco. Mahler si era ispirato all'antica poesia cinese per poter trovare il linguaggio più adatto a esprimersi sull'umanità, la natura, la vita e la morte, attraverso figure e momenti emblematici: l'ubriaco, il solitario, le stagioni, e così via.
La Sonata Islands ha scelto comunque, senza complessi, di recuperare il progetto in una chiave personalizzata: i suggestivi testi appositamente scritti da Giuseppe Calliari sono giustamente riportati nel libretto, ma la struttura del disco è quasi interamente strumentale. Il flautista che guida la formazione, Emilio Galante, e altri cinque musicisti sono protagonisti col proprio strumento dei sei episodi della sequenza, tutti improntati a una sorta di musica di frontiera, tra jazz, musica colta, folk e altro ancora: un insieme ad effetto, indubbiamente, una volta accettata l'idea di una rilettura così ardita dell'opera di partenza. E' sempre difficile uscire dalla tradizione più nobile della musica del passato senza scontentare qualcuno, si sa, ma in fondo il progetto del gruppo trentino richiama un'altra tradizione ormai consolidata, com'è quella della tipica contaminazione dell'era "progressive", stavolta però in un'ottica lontana dal rock, come si evince anche dalla strumentazione messa in campo. In ogni caso, ciò che scaturisce dalla fucina sonora dei Sonata ha il suo fascino, valorizzato anche dalla registrazione "live" (Milano, 2011), e a patto di lasciare da parte ogni preconcetto.
Il tentativo evidente è quello di avvicinare, in maniera spericolata come solo strumentisti jazz possono fare, improvvisazione e musica scritta: vale a dire che sullo spartito dell'opera di riferimento, i musicisti del gruppo hanno spesso lasciato il segno della loro creatività di talentuosi strumentisti. Si aprono, in questi brani, come delle fenditure che lasciano fluire, a volte ad un passo dal caos ma senza mai cadervi, la sperimentata creatività dei singoli: ad esempio in "Non Mahler", dove l'accordeon di Simone Zanchini guida le danze supportato dalle pennellate ora sorridenti del flauto, ora invece più scure del sassofono, del clarinetto e della tromba, tra momenti di stasi e riprese effervescenti. Il clarinetto di Achille Succi è protagonista di "Von der Schonheit", più lieve e sinfonico nel suo incedere, ma percorso dai fremiti di tromba e flauto. Cadenzato dai fiati e dall'accordeon su tonalità di sapore comico-grottesche scorre invece l'iniziale "Das Trinklied", composto da Hubert Stuppner, mentre "Kind of Earth" di Stefano Nanni è l'episodio che abbina con più evidenza il registro tipicamente crepuscolare del jazz (soprattutto i fiati e il contrabbasso di Stefano Senni) alle ascendenze romantiche e nostalgiche proprie del "lied". Bello.
Suggestivo anche il "Commiato", scritto da Galante, che sa esprimere al meglio lo spirito infuso da Mahler alla sua opera: un vivace contrappunto tra i fiati, con la tromba di Giovanni Falzone in evidenza, che poi fa lievitare il tema sulle note avvolgenti dell'accordeon di Zanchini, per spegnersi quindi dolcemente sui pochi ma intensi versi di Calliari recitati da Tommaso Lonardi. Forse questo non è un disco per tutti i palati, va detto, eppure il progetto della Sonata è capace di portarvi in maniera molto originale, e alla lunga decisamente intrigante, dentro il mondo lirico-musicale di un grande compositore riproposto, in questo caso, come forse non l'avete mai ascoltato prima. Non è poco.
Valutazione: 
Per informazioni e contatti: www.sonataislands.com
Il Rumore Bianco - "Mediocrazia" (EP autoprodotto, 2013)
Dopo una lenta transizione e diversi avvicendamenti in organico, anche per Il Rumore Bianco è arrivato il momento di un EP, prima tappa di avvicinamento ad un eventuale disco di lunga durata. Gli ex- Side C, schierati ora a sei, ci offrono quattro episodi di buon livello per un totale di poco inferiore ai trenta minuti: una sequenza che palesa il discreto livello raggiunto e fa ben sperare per il futuro di questo gruppo veronese.
Trainati da una voce di forte impatto, seppure echeggiante modelli già noti, com'è quella di Eddy Florio, i giovani musicisti si muovono agilmente nei territori di un rock progressivo dinamico e piuttosto corposo, denotando soprattutto un lodevole affiatamento strumentale e, per fortuna, poche concessioni alle formule troppo "retrò" del genere. Il discorso vale anche per le liriche, che lasciano da parte folletti e gnomi per concentrarsi invece sul tempo che viviamo, tra apparenza e disillusione. Molto incisiva la traccia iniziale, "Tutto un sogno (pt.1)", costruita sul crescendo dell'organo di Thomas Pessina, con calibrate aggiunte di synth e chitarra elettrica: l'insieme denota una scrittura sufficientemente compatta, fatta di soprassalti e pause ben governate dal canto solista.
"Primo attore" si sviluppa s'una scansione più irregolare, grazie al tempo dispari della batteria e ai chiaroscuri strumentali in cui si distinguono anche la chitarra e il sax tenore di Michele Zanotti, che indubbiamente aggiunge una sfumatura più intrigante, quasi fusion, al pezzo. Ancora più rarefatta è la traccia di chiusura, "Tutto un sogno (pt.2)", dove la duttile voce solista si muove s'un tappeto di note liquide guidate da piano elettrico e sax che si fa quasi sinistro, e molto potente, nella parte centrale, prima di placarsi alla fine s'una nota più ottimistica. E' forse il momento più "sperimentale" e ambizioso offerto dal sestetto.
A mio avviso, però, l'episodio più riuscito è "Il vestito buono": dopo un'intro quasi psichedelica, il brano prende corpo sulla voce e il ritmo via via più incalzante. Bello lo sfondo avvolgente delle tastiere e di rilievo anche il testo, come del resto negli altri pezzi. Ovviamente tutto è ancora perfezionabile, ma nel complesso c'è grinta e soprattutto qualità strumentale nella proposta del Rumore Bianco: con una produzione intelligente alle spalle, che sappia esaltare a dovere il loro potenziale, il gruppo ha indubbiamente ottime possibilità di far parlare di sé con la propria musica. Staremo a vedere e sentire, naturalmente, ma direi che le premesse qui ci sono tutte.

Per ascoltare e/o acquistare l'EP: ilrumorebianco.bandcamp.com
Contatti: www.facebook.com/ilrumorebianco
October Equus - "Permafrost" (OctoberXart, 2013)
E' questo il quarto disco di studio per gli spagnoli October Equus, raro caso di gruppo che progredisce nel tempo senza però venire meno a una coerenza stilistica che testimonia un'indubbia personalità. Dal 2006, anno dell'esordio discografico, la band ha semplicemente elaborato in profondità il proprio mondo espressivo, fino a renderlo sempre più corposo e meglio definito: un suono fondamentalmente introspettivo, a volte cupo e notturno, che fa a meno delle parti vocali e sviluppa partiture strumentali cariche di un pathos sotterraneo che ogni volta lascia il segno, senza nessuna concessione alle mode. Rispetto al precedente "Saturnal" (2011), realizzato con l'organico allargato a fiati e violoncello, va notato che si torna alla classica formazione a quattro, quasi per recuperare una maggiore concentrazione del suono.
In questa coerenza, che ha qualcosa di geometrico e puntiglioso a tratti, qualcuno potrebbe vedere un'angustia espressiva o perfino una vera incapacità del quartetto di uscire dai propri orizzonti. In realtà, la mia impressione è diversa: è come se il duo che compone il materiale, cioè il chitarrista Ángel Ontalva e il tastierista Víctor Rodríguez, preferisse affinare ogni volta il proprio potenziale sonoro al cospetto di suggestioni esterne prontamente piegate a una precisa idea di rock dalle solide radici. A giudicare dai titoli e dalle immagini del libretto, ad esempio, stavolta il paesaggio che ha messo in moto il progetto sembra molto nordico ed estremo: ghiacci, mari, vento e tempeste sono gli ingredienti che popolano l'immaginario del gruppo spagnolo in "Permafrost". Di fatto però, gli otto titoli dell'album non si discostano troppo dal solito, dimostrando soltanto la qualità strumentale di un progetto ormai sperimentato, con equilibri di base perfettamente oliati. Intorno alla chitarra ondivaga di Ontalva si addensano così le tastiere, creando una sorta di ipnotica tensione che riecheggia a tratti la psichedelia più oscura, in una sorta di fissità circolare che intriga nelle sue spirali.
Il tipico avant-prog della band è generalmente assai compatto nel disegno di base, ma con i singoli lasciati liberi di portare il loro contributo, e lo si vede fin dalle prime note di "Erosive Forces of Wind and Sea", probabilmente tra i vertici della raccolta: qui è il basso pulsante e ossessivo di Amanda Pazos Cosse a dettare le coordinate ritmiche del pezzo, subito rimpolpato dall'organo molto gotico di Rodríguez e dal raffinatissimo gioco chitarristico di Ontalva, uno strumentista che antepone sempre l'effetto originale al mero virtuosismo tecnico. Di rilievo anche il ricco lavoro del batterista Vasco Trilla, decisivo nello schema molto irregolare del brano. La sequenza ha una sua tensione ritmica spiccata, anche se alla fine l'effetto è quello di una colata lavica in divenire ma tenuta a freno, dal momento che sono rare le sterzate rispetto alla formula descritta. Ogni traccia si edifica a partire da singole cellule sonore, che poi si raggrumano lentamente come per forza d'inerzia: ad esempio "Boots, Nails, Watches...", uno degli episodi più rarefatti, quasi disarticolato ma tenuto in vita dal timbro misterioso delle tastiere, dai soprassalti percussivi, da echi e interferenze chitarristiche. Un clima apertamente umbratile, ostinato nel suo chiuso dipanarsi, che prosegue anche nel successivo "Thermokarst": ancora il basso e la batteria rappresentano l'anima irrequieta di un suono che procede per accumulo e ripetizioni, sferzato poi da improvvise accelerazioni chitarristiche. Lo stile di Ontalva, in questi momenti, riecheggia le derive più diaboliche del maestro Fripp, un fantasma che in effetti aleggia spesso nel disco.
La musica si fa più visionaria in "Trapped in the Sea Ice", grazie alle tastiere di Rodríguez, in particolare per l'uso peculiare del synth. Suggestivo e più contemplativo, per contrasto, è invece "Graves of the Crewmen Buried on Beechey Island": in questo caso il pianoforte di Rodríguez, insieme alla batteria, colora di sfumature jazz il brano. Non è l'unico esempio del genere in un disco che, pur nella fedeltà al carattere introspettivo degli inizi, sembra più disponibile al fraseggio e agli spazi d'improvvisazione: lo dimostra anche un pezzo come "Lead Poisoning", ancora cadenzato ad arte da un vivace tappeto percussivo. Forse non tutti apprezzeranno il colore un poco plumbeo che domina la musica degli October Equus, ed è anche vero che l'assenza delle parti vocali può ingenerare alla lunga un effetto di saturazione, ma gli ascoltatori più sensibili saranno in grado di cogliere tutte le preziose sfumature strumentali che il quartetto sa mettere in campo. "Permafrost", in conclusione, è un lavoro che consolida la reputazione della band iberica, confermandone qualità e caratteristiche: la loro ricerca musicale può apparire immobile solo ad un ascolto superficiale, mentre in realtà seguita il suo percorso con invidiabile tenacia e fiducia nei propri mezzi. Reclama perciò, e merita senz'altro, la giusta attenzione.

Per informazioni e contatti: www.octoberxart.com
Oteme - "Il giardino disincantato" (Edd Strapontins/Ma.Ra.Cash, 2013)
Il lucchese Stefano Giannotti, classe 1963, è la mente e la voce di un variegato ensemble che mette a fuoco in questo progetto un percorso sonoro fuori dagli schemi, con materiale in realtà registrato già nel 2011, che solo adesso vede la luce. E' uno di quei dischi che producono scintille proprio in virtù della loro essenza camaleontica, e al tempo stesso concretissima: se c'è un lavoro senza trucchi, infatti, è proprio questo, suonato con limpida semplicità anche se ogni spunto, ogni idea partorita dalla fertile ispirazione di Giannotti, compositore e versatile artista d'avanguardia, batte sentieri lontani dall'ovvietà delle formule più comuni.
Come si addice ad un vero laboratorio artistico, Oteme, acronimo che sta per Osservatorio delle Terre Emerse, mira soprattutto a "lavorare" attraverso i suoni e la voce dello stesso Giannotti un paesaggio ben noto, aggirando però con eleganza luoghi comuni e sovrastrutture, così da ricavarne suggestioni inedite e davvero affascinanti. Complici le stesse liriche del leader, sospese in felice equilibrio tra "naïveté" di tono e acutezza dello sguardo, ci si apre davanti un mondo tutto da "riscoprire" nella sua ricca varietà di significati. Il tessuto strumentale è sempre pregevole e ricco di risonanze, ma soprattutto duttile al punto giusto, con la sezione dei fiati particolarmente nutrita (flauto, oboe, corno, clarinetto, tromba) e spesso dominante, ma col prezioso supporto degli strumenti a corda fino all'arpa e delle percussioni: una tavolozza mai invadente, per lasciare il giusto spazio alla voce narrante, eppure capace di creare una cornice perfetta all'esplorazione di senso, estremamente dinamica, che scaturisce dalle visioni di Giannotti.
A metà strada tra musica contemporanea, con echi cameristici e sinfonici (la conclusiva "Terre emerse" cita il Bolero di Ravel), canzone d'autore, sperimentalismo prog e minimalismo, la sequenza cattura progressivamente nelle sue sinuose spirali sonore. La voce solista si muove agilmente in questo territorio fortemente contaminato dove può entrare tutto, ma rinnovato dalla grazia ambivalente dei suoni e delle parole, e ci conduce per tappe successive al cuore di una realtà che ci sembra di ritrovare per la prima volta, ad esempio nell'apertura rarefatta di "Mattino", tra i rituali consueti del risveglio trasfigurati nel sottile smarrimento di ogni nuovo inizio. E' l'inizio del viaggio di Oteme. Un viaggio che incontra imprevisti e ostacoli, come nell'aguzzo strumentale "Caduta massi", carico di una tensione sottolineata ad arte dalla progressione ipnotica dei fiati e dalle cadenze ossessive della sezione ritmica, con pause e riprese continue. Sonorità quasi etniche, guidate ancora dal lavoro percussivo di Matteo Cammisa, introducono un altro strumentale come "Tema dei campi", che si sviluppa sul fine reticolo di oboe, flauto e clarinetto in un arazzo di squisita fattura. Più complesso e meno lineare è l'episodio che intitola il disco, dove l'utilizzo anomalo dei fiati, dell'organo e delle percussioni comunica sensazioni dissonanti, che si espandono in lunghe sequenze intervallate solo dall'arpa di Valentina Cinquini.
Tra le tracce cantate invece, oltre alla lunga e corposa "Sopra tutto e tutti", nella quale stavolta si fanno notare il pianoforte e la tromba, è particolarmente suggestiva l'atmosfera di "Palude del diavolo", cullata dalla chitarra acustica e dal corno di Nicola Bimbi, con un raffinato gioco vocale che esalta immagini memoriali venate di nostalgia. E' sicuramente uno dei vertici della sequenza. Di grande effetto anche "Per mano conduco Matilde", elencazione davvero disincantata di immagini e incontri quotidiani, mentre altrove, in generale, non manca una vena ancora più beffarda e ironica che lascia il segno: ad esempio "Dite a mia moglie", articolato con disinvoltura sulle cadenze di un "samba" da chitarra e banjo, con il clarino di Lorenzo Del Pecchia a fare da indovinato contraltare.
Come si desume da questa veloce rassegna, "Il giardino disincantato" è un lavoro che include molteplici influenze e richiami, quasi una summa sonora e poetica che Giannotti e i suoi compagni di strada hanno saputo distillare però con sapienza artigianale e un gusto per la contaminazione davvero ammirevole, e sempre più raro. Senza forzature inutili o gratuite oscurità, eppure ogni volta fedele a un punto di vista inedito e fuori dal coro, questo primo disco firmato da Oteme è raccomandato quindi a tutti gli ascoltatori più esplorativi, che cercano orizzonti davvero nuovi e stimolanti nell'asfittica scena musicale di questi anni.

Per informazioni e contatti: www.stefanogiannotti.com/oteme-it.html
Morild - "Aves" (Autoproduzione, 2013)
Attivi fin dal 2004, i norvegesi Morild giungono ora al secondo appuntamento discografico dopo il debutto di "Time to Rest", pubblicato nel 2010. Come altre bands scandinave di oggi, ad esempio i connazionali Wobbler, si tratta di un progetto chiaramente orientato a ricalcare gli stilemi del prog romantico e sinfonico inglese: il sestetto, che si autoproduce, ce la mette tutta per non sfigurare al confronto con i propri modelli, ma i risultati sono altalenanti, e il disco convince solo in parte.
A penalizzare "Aves", in primo luogo, è proprio la durata della sequenza: 75 minuti di musica, bella o meno che sia, richiedono infatti uno sforzo ben al di là della soglia media di attenzione, così che non è possibile un ascolto filato del lavoro in questione, come invece sarebbe giusto. Ai tempi del vinile questo sarebbe stato un album doppio, e sappiamo che non sono molti, storicamente, i doppi che hanno retto dignitosamente alla prova del tempo. A parte questo, i sei musicisti dimostrano discrete qualità e sanno offrire buoni momenti, pur senza mai uscire dai canoni prestabiliti del genere, nei pregi come nei difetti. Tra i pregi, una buona predisposizione a integrare nella scrittura scampoli di folk-rock, a cominciare dall'apertura di "The Patient Fischer", con il flauto di Mari Haug Lund alla guida di vivaci breaks danzerecci: per il resto il pezzo scorre senza sorprese sulla voce di John Anders Troset, delicata e non troppo potente, che si destreggia sul tappeto sonoro costituito da organo e chitarre acustiche.
L'album offre ben due suites, lunghe ed elaborate, che nonostante l'onesta confezione risultano a tratti un po' estenuanti. La prima è "Wildflower": costruita con cura, la composizione procede placidamente nell'alternanza di organo (Odd-Roar Bakken) e chitarre, stavolta con quella elettrica (Hans Kristoffersen) più in evidenza. Ci sono tutti gli ingredienti classici del genere, distribuiti con mestiere: cambi di tempo qua e là, picchi solisti di chitarra, maestose fughe d'organo e coloriture di synth, delicati momenti di raccordo tra i diversi segmenti col flauto in primo piano, in un insieme piacevole cui però avrebbe giovato qualche taglio e una maggiore capacità di sintesi in sede d'arrangiamento. Come anche negli altri pezzi, i testi in inglese del bassista Nils Larsen sono intonati alla musica: elementi allegorici e ben ponderati (il viaggio, il fiore selvaggio, il pescatore paziente) che tendono a far riflettere sugli aspetti più distorti della vita, ispirandosi per contrasto alla saggezza della natura, secondo un modello tipicamente romantico. Un motivo in più per ribadire l'estrema classicità di questa proposta. Ancora più lunga la suite di chiusura, "Waiting fot the Ferry, Part 1 & 2", che si apre sulle morbide spirali del flauto, presto affiancato dalla ritmica e dalla chitarra, con lo sfondo dell'organo e soprattutto del mellotron ad aggiungere un tocco sinfonico più marcato. Le lunghe strofe cantate, sempre con l'appoggio del flauto, e l'arrangiamento magniloquente, con alcuni inserti quasi cameristici guidati dal pianoforte, rendono questa suite ancora più tipica di tutto un filone del rock progressivo d'annata: di certo chi ama i gruppi più noti di quella stagione, non resterà deluso dalla ricetta dei Morild. Di buon effetto, comunque, risulta il canto corale sulle note di un solenne organo a canne, e quindi il lento crescendo d'intensità del finale, con la chitarra solista sugli scudi.
Tra gli altri episodi, si segnala "Labour Day", introdotto dal caratteristico suono dell'ukulele di Bakken, e poi articolato su mellotron e chitarre secondo un modello già sperimentato. A parte stanno il breve interludio intimista di "Frost Glows", per voce e pianoforte, e "Time River", sempre con il piano di Mari Haug Lund a cullare il canto di Troset in una parentesi di grande lirismo che fa a meno delle percussioni: sono i momenti più raccolti della sequenza, quasi a bilanciare l'enfasi delle due ponderose suites citate. Una sintesi più dinamica tra queste due anime avrebbe forse valorizzato maggiormente l'album della band norvegese, che pur senza sfigurare e con alcuni spunti pregevoli, s'inserisce invece nell'ormai lunga scia di tante operazioni similari uscite nell'ultimo decennio: gradevole e ben suonato, insomma, ma non certo memorabile.

Per informazioni e contatti: www.morildmusic.com
Pensiero Nomade - "Imperfetta solitudine" (Zone di Musica, 2013)
Ci sono dischi che non è facile definire e tantomeno valutare: "Imperfetta solitudine" del Pensiero Nomade è proprio uno di questi. Nato su iniziativa del chitarrista Salvo Lazzara (ex-Germinale), il gruppo arriva alla sua quarta prova con una formazione inedita a trio: con il chitarrista e leader, ci sono infatti due strumentisti già ben noti come Luca Pietropaoli (fiati, contrabbasso, piano, elettronica) e il batterista Davide Guidoni. Undici tracce che disegnano un percorso senza dubbio interessante, che sfugge a una precisa collocazione e dunque richiede un ascolto ripetuto per coglierne il nucleo più vero.
In linea generale, la sequenza è caratterizzata da sonorità acustiche spruzzate qua e là di elettronica, senza però che la struttura di base ne risenta più di tanto: la tromba o il flicorno di Pietropaoli indicano quasi sempre la via maestra, come nell'attacco di "Barcarola", col suo mood malinconico e notturno tallonato da presso dalle chitarre acustiche di Lazzara, mentre le percussioni soffuse di Guidoni creano un ideale tappeto di partenza per le evoluzioni dei due solisti. Suggestiva ricetta, indubbiamente, sia pure sempre insidiata dal pericolo della ripetizione a oltranza dello schema: considerata infatti la mancanza di parti vocali, con l'unica e parziale eccezione della breve "Sensitive", dove insieme al pianoforte e qualche effetto elettronico si ascolta la voce dell'ospite Clarissa Botsford, il disco ad un primo ascolto può risultare monocorde, nonostante la qualità della proposta sia di tutto rispetto. Un orecchio più smaliziato, in realtà, coglierà poco a poco le diverse sfumature cesellate da Lazzara e compagni dietro questa superficie dalle tinte vagamente uggiose: ad esempio nella raffinata title-track, un delizioso episodio costruito sulle corde della chitarra, che nelle sue cadenze incorpora antiche arie rinascimentali e paesaggi mediterranei al tempo stesso, suggeriti con cristallina naturalezza e senza alcuna enfasi. E' come se il trio avesse voluto privilegiare una cifra stilistica più intimista, perfino introspettiva, che tiene la temperatura emotiva sempre costante, senza scossoni o impennate virtuosistiche nella trama strumentale: una scelta ambivalente, questa, che finirà probabilmente per scontentare gli "ultras" del progressive, e troverà invece estimatori nel pubblico aperto alle formule sonore più insolite e avventurose.
Jazz, ambient e minimalismo sono le etichette che potrebbero identificare la musica di quest'album, ma dal mio punto di vista è sicuramente più proficuo lasciarsi cullare dalla squisita ispirazione del trio, che si espande come una lenta ma inesorabile colata di note liquide. Qualcosa di circolare e ipnotico colora davvero l'atmosfera di "Cerchi d'acqua", con il chitarrismo di Lazzara che evoca il blues flemmatico delle origini, mentre i fiati vaporosi di Pietropaoli, qui e altrove, ricamano sul tema con un timbro morbido e ammaliante. Esemplari di questa felice predisposizione sono pure episodi come "Danza notturna", soprattutto, ma anche "Prima dell'estate", tra le pagine più riuscite per il clima trepidante creato dal flicorno e il percussionismo nervoso di Guidoni, fino all'epilogo di "Verso casa", altro pregevole quadro chitarristico integrato a dovere dal delicato flicorno di Pietropaoli. Va detto che la strumentazione ridotta all'osso non va certo a discapito dell'effetto complessivo, ma dona invece all'insieme una sorta di omogeneità rassicurante, mentre ogni ascolto successivo lascia emergere le minime variazioni strumentali capaci di rimarcare al meglio lo schema di fondo: un valido esempio in tal senso è costituito da un brano ricco di risonanze come "Calce e carbone", sapientemente articolato tra la tromba e la chitarra acustica.
Coerente fino in fondo con le sue ambiziose premesse di sottrarsi a formule più canoniche, per seguire invece la libera associazione musicale che segna a volte l'incontro tra musicisti di vero spessore, "Imperfetta solitudine" è un disco anomalo che merita rispetto: così come il mobile progetto chiamato Pensiero Nomade, del resto, che già si è guadagnato un ruolo defilato ma originale sulla scena italiana di questi ultimi anni.

Per informazioni e contatti: www.reverbnation.com/pensieronomade
Aldo Tagliapietra - "L'angelo rinchiuso" (Clamore/Self, 2013)
Trentasette minuti scarsi: tanto dura l'ultimo disco di Aldo Tagliapietra. In confronto alla gran parte della musica pubblicata oggi è pochissimo, verrebbe quasi da definirlo un "EP", come hanno fatto i Big Big Train per un loro disco che pure durava anche di più. Eppure quanta sostanza c'è in questa suite, e quanta strada ha percorso l'ex voce solista delle Orme per arrivare a questa raffinata sintesi sonora! Quarant'anni, più o meno.
Quarant'anni fa, per l'appunto, usciva "Felona e Sorona", autentica pietra miliare del nostro prog: e in quest'ultimo album, non certo per caso, il musicista sembra guardare indietro fino a citare espressamente versi di quel disco, come per misurare tutta la distanza percorsa da allora. Succede nella traccia intitolata "Dentro il sogno", sostenuta dall'organo e dal canto accorato di Tagliapietra, dove riemergono dalle "nebbie sottili" di quella stagione immagini come "boschi di corallo" o "foglie color miele" che in molti susciteranno sensazioni precise. E' dunque in un semplice sguardo al passato, magari venato di nostalgia, che consiste l'ultimo lavoro dell'artista veneto? No, tutt'altro: è piuttosto un vero concept-album che scava nel tempo trascorso soltanto per ricavarne un senso complessivo, capace di generare un sentimento positivo da spendere ancora nel presente. Alla fine, dalla musica e dalle liriche de "L'angelo rinchiuso" scaturisce davvero un'impressione di maturità, umana e artistica, raggiunta dopo un lungo cammino e tradotta finemente in musica e parole che conquistano fin dai primi ascolti, grazie anche all'armoniosa fluidità della sequenza.
Come in un dialogo immaginario con il proprio angelo custode, il racconto illustra i mutevoli sentimenti di un uomo alle prese con le sue ombre, i rimpianti e i desideri, in una costante oscillazione tra passato, presente e futuro che tiene sempre viva l'attenzione. Musicalmente siamo di fronte a dodici episodi distillati, in un gioco sapiente di chiaroscuri, con meravigliosa capacità di sintesi da Tagliapietra e da una band in ottima forma: intorno al suo basso e al canto inconfondibile, più che mai calibrato a dovere in ogni sfumatura emotiva, il leader ha saputo dare il giusto spazio alle chitarre di Matteo Ballarin, alle variegate tastiere di Andrea De Nardi e alla batteria di Manuel Smaniotto, musicisti che offrono più di un semplice accompagnamento di routine, rendendosi invece protagonisti di pregevoli inserti strumentali che arricchiscono non poco il disco. Non solo nelle parentesi di raccordo tra i momenti cantati, ad esempio nella ficcante ripresa di "Riflessi argentati", con basso, synth e organo sugli scudi, ma in tutti i brani più intensi i giovani solisti fanno valere le loro qualità sotto la guida sicura del cantante: senza mai strafare, eppure con indubbia verve. Si veda lo splendido attacco di "Passato e futuro", con la sua ritmica mordente e il pianismo dinamico di De Nardi sotto la voce solista, oltre al cromatismo efficace del minimoog, tra pieni e vuoti di grande effetto e le note graffianti della chitarra in evidenza. In effetti, melodia, prog e lirismo sembrano fondersi a meraviglia, senza sbavature o lungaggini, nell'ispirazione che sorregge il progetto: un piccolo miracolo. Lo ribadisce anche anche la bella title-track, scandita dalla batteria marziale e dal mobile tappeto tastieristico, in una felice alternanza di pause trepidanti e accelerazioni.
Liricamente parlando, è magnifica "Io viaggio nel tempo", articolata sui tempi dispari della batteria e s'un inciso melodico di sicura presa, cullato dalla chitarra acustica e dal ricco parco-tastiere: per la sorprendente naturalezza dell'impasto, lo spessore delle liriche e l'arrangiamento brillante, è uno dei veri picchi dell'album. In realtà, la struttura studiatamente unitaria della sequenza, con i brani che si succedono senza soluzione di continuità, rende arduo estrapolare un solo segmento dal resto: impossibile non citare, ad esempio, anche "La fiamma", breve ma ficcante episodio con il canto ben allineato al ritmo serrato di piano e batteria, oppure la bellissima chiusura di "Magnificat", con versi intrisi di speranza e quindi una trascinante coda strumentale che sigilla la suite come meglio non si potrebbe.
E' un disco che emoziona, questo: emoziona soprattutto ritrovare un protagonista della musica italiana ancora così vitale e creativo, che non cerca scorciatoie modaiole né, tantomeno, sfrutta rendite di posizione che pure la sua storia d'artista gli permetterebbe. Nutrito di musica e testi realmente ispirati, "L'angelo rinchiuso" è davvero l'album che molti aspettavano, e merita di venire assaporato a fondo con la stessa attenzione riservata una volta ai vecchi ellepì, che non duravano mai troppo o troppo poco, ma solo il tempo necessario a lasciare il segno: come questo. Consigliatissimo.
Valutazione: 
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Sarastro Blake - "New Progmantics" (Mentalchemy Records, 2013)
Dalla prolifica fucina della Mentalchemy Records seguitano ad uscire novità musicali sempre attestate su livelli notevoli. E' anche il caso di questo nuovo progetto denominato Sarastro Blake, sigla che si richiama in un sol colpo al romanticismo inglese (William Blake) e a Mozart (Il Flauto Magico): molto vicino all'esperienza dei Mogador, altro gruppo che opera in quel di Como, il disco si concretizza però come una prova solista del bassista e cantante Paolo Pigni, che suonava nei primi due dischi di quella band. Non per caso, con lui suonano il polistrumentista e produttore Luca Briccola (chitarre, tastiere e flauto) e il batterista Mirko Soncini, attivo con un altro gruppo della scuderia, i Trewa. Va pure sottolineato, ed è una bella sorpresa davvero, che all'album partecipano personaggi di assoluto prestigio del firmamento prog internazionale: da Rick Wakeman a Richard Sinclair, passando per Dave Lawson e Nick Magnus, che contribuiscono fattivamente, e non solo formalmente, a nobilitare "New Progmantics".
Si è detto della stretta parentela con i Mogador, anche nell'ispirazione di fondo, ma se in quel caso si privilegiava una varietà tonale giocata su forti contrasti chiaroscurali, Sarastro Blake sfoggia invece una grande compattezza stilistica, uno stile più armonioso in sede di arrangiamento che sa tenere insieme le molteplici suggestioni offerte ancora una volta da poeti e pittori inglesi, direttamente o indirettamente citati nelle liriche, da Lord Byron a John Clare e Robert Burns, passando per il grande bardo Shakespeare. Comunque sia, lo stesso Pigni scrive non solo tutte le musiche dell'album, ma canta e firma anche cinque testi di suo pugno, giusto per sottolineare un'immersione totale nel ricco immaginario che nutre questa sua prima prova discografica. L'adesione per la verità sembra aver contagiato tutto il cast, inclusi come detto i nomi più rinomati: Sinclair ad esempio canta da par suo e suona il basso in "Remember", delizioso episodio che vive di luce propria, così come il pianoforte di Wakeman arricchisce non poco l'ambiziosa suite "Stanzas for Music", tra i momenti strumentalmente più trascinanti del disco, su testi di Byron. E' probabilmente il momento più appetibile per i seguaci del prog romantico e sinfonico dei Settanta: sontuoso il tocco classicheggiante di Wakeman, affiancato dalle spirali seducenti del flauto e da una chitarra pungente, tra corpose progressioni e cambi di tempo ficcanti. Citare solo qualche brano, in realtà, significa far torto al resto, dato che quasi ogni segmento riserva piacevoli sorprese.
Splendido ad esempio il biglietto di presentazione, "The Lady of Shalott", con le tastiere di Nick Magnus in evidenza, ma soprattutto il vivace flauto di Briccola, il violino di Filippo Pedretti e la chitarra solista a fare da esemplare cornice al canto di Pigni, perfettamente a suo agio con la lingua inglese. La musica ha una grazia tutta sua, ogni nota pare cesellata con cura in un contesto dove l'insieme suona sempre armonioso, pur lasciando emergere quando è il caso l'apporto prezioso dei solisti. E' il segreto dell'intera sequenza, che scivola leggiadra e spesso melodica, senza cedimenti: dalla magnifica "Scotland, The Place", con il piano elettrico di Dave Lawson e le chitarre acustiche in primo piano, oltre alla graffiante solista di Briccola, alla cristallina "Sonnet 116", ben interpretata dalla voce di Serena Bossi sui versi di Shakespeare, e quindi, sempre sul versante acustico, "My Heart's In The Highland", stavolta basata sulle liriche di Burns e il suadente timbro vocale di Amanda Lehman.
Nel disco, in effetti, la componente melodica ha un posto di assoluto rilievo, e a dimostrarlo sta anche uno dei momenti più efficaci di tutta la sequenza, vale a dire "Flaming June", che si richiama alla copertina e all'elemento femminino ricorrente in tutto il disco: è una composizione lunga e davvero accattivante, dove l'anima romantica che sorregge il progetto lascia indubbiamente il segno. Il trasognato canto solista, con il rincalzo di una voce femminile, è cullato ad arte dal raffinato tessuto strumentale, sinuoso e sempre elegante nel suo incedere, con chitarra, pianoforte e synth ancora al centro della scena. Molto bello, e in qualche modo rappresentativo del mondo musicale di Paolo Pigni: un mondo dove non entrano soltanto le consuete esperienze del rock progressivo classico, ma anche l'Art Pop inglese più morbido, il folk celtico e, in sostanza, una concezione quanto mai aperta del fare musica oggi, senza mai rinnegare le radici della propria ispirazione, pur in presenza di sonorità moderne. Una sorta di abile sincretismo, che però non risponde ad un calcolo, ma piuttosto ad un'ispirazione ben precisa tradotta in uno stile consapevole e già maturo. Insomma: un gran bel disco, tutto da ascoltare.

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Anima Mundi - "The Lamplighter" (Anima Mundi Music, 2013)
Anche se questo è il mio primo incontro con la loro musica, i cubani Anima Mundi non sono certo dei novellini. Nata nel lontano 1996, infatti, la band dell'Avana ha già all'attivo alcuni dischi nei quali sembra aver messo a fuoco uno stile che appare ormai ben definito in questa quarta prova di studio. La loro musica è sostanzialmente un rock sinfonico elaborato ed elegante, a tratti melodico, sorretto da bellissime armonie e una buona dose di romanticismo che affiora nei titoli e si esplica pienamente nelle liriche in lingua inglese. La formazione che suona nel disco è un sestetto, saldamente guidato dal chitarrista Roberto Díaz e dalla tastierista Virginia Peraza, che cura anche gli arrangiamenti, ma negli equilibri del disco spicca indubbiamente un valido cantante come Emmanuel Pirko Farrath, che non poco contribuisce al buon risultato finale.
"The Lamplighter" si compone di due lunghe suites e un epilogo più breve. La prima suite è appunto quella che intitola l'album, divisa in quattro tempi. L'apertura di "On Earth Beneath the Stars" è un lento crescendo in sordina sul canto solista, che serve a sottolineare la sapiente orchestrazione di un tema prettamente sinfonico, piuttosto arioso nel suo sviluppo: efficace il morbido tappeto delle tastiere, con adeguati spunti del synth che sembrano sollevare la voce di Pirko Farrath fino alla sua piena espressione. Nel secondo dei movimenti, "The Call and Farewell Song", sale in cattedra anche la chitarra di Díaz, piuttosto acida, all'interno di uno schema più frastagliato ma ugualmente elegante, mentre "Light the Lantern of Your Heart" sembra l'episodio più romantico per definizione, con il mellotron in evidenza e il canto solista modulato a dovere tra momenti raccolti e altri più accorati, mentre la musica procede a sua volta in una successione ad effetto di pieni e di vuoti. Sempre preziosa la chitarra solista che interviene al culmine del tema dominante, come avviene pure nel quarto episodio, "The Human House", introdotto da un pianoforte delicato sotto la voce. Bisogna dire che l'insieme suona veramente armonioso e rifinito, nella migliore tradizione del prog sinfonico che ha dominato gli anni Settanta, senza sbavature né, tantomeno, forzature fuori luogo: il tessuto strumentale è sempre compatto, mai episodico, anche se lascia comunque trasparire il valore dei singoli.
Non va troppo diversamente in fondo nella seconda suite, "Tales From Endless Star", ancora frazionata in quattro parti. Il chitarrismo eclettico di Roberto Díaz ha un ruolo importante nell'articolazione di "The Dream Child Behind the Mask", una traccia davvero sospesa in un clima sognante, direi magico, ch'evoca scenari astrali di raffinata suggestione, anche per il colore drammatico delle tastiere di Virginia Peraza: è forse il vertice di tutta la sequenza. Se la breve "The Return-part 1" scorre principalmente sulle corde acustiche, in un'atmosfera quasi medievale a tratti, la seguente "Endless Star" è invece una lunga progressione carica di tensione, con un ritmo spigoloso e inserti di piano e sintetizzatore che fanno da ponte per gli slanci magniloquenti della seconda parte e soprattutto del finale, giocato tra intensi fremiti cosmici e la batteria dal passo marziale di José Manuel Govin. "The Return - part 2", che sigilla la suite, si apre invece su tonalità più raccolte, per voce e chitarra acustica, prima di crescere alla distanza sul mellotron, con la consueta enfasi dell'arrangiamento che lascia il giusto spazio alle note lunghe e lancinanti della chitarra. Bello e convincente.
Immagino che a qualcuno potranno dispiacere certe affinità, innegabili, con il mondo espressivo di maestri conclamati del genere, cominciando naturalmente dai
Genesis, con richiami agli stessi Big Big Train, ma come accade in casi del genere a favore dei cubani gioca l'estrema cura del minimo dettaglio in sede di arrangiamento, oltre alla tecnica eccellente dei singoli componenti e all'indubbia capacità di rinverdire certe sonorità con la convinzione contagiosa di chi ci crede fino in fondo. Senza trascurare, inoltre, la freschezza che a tratti increspa fecondamente questa superficie classicheggiante, ad esempio nella chiusura del disco, "His Majesty Love", dove affiorano vigorosi squarci rock tra le consuete spirali avvolgenti delle tastiere: anche qui, con la voce ancora persuasiva del bravo Pirko Farrath, e la splendida chitarra graffiante di Díaz, gli Anima Mundi ribadiscono di avere realmente ottime carte da giocare sulla scena del moderno rock progressivo. Questo loro disco, comunque, merita tutta la vostra attenzione.

Per informazioni e contatti: www.animamundimusic.com/site/
Museo Rosenbach - "Barbarica" (Immaginifica, 2013)
Il Museo Rosenbach appartiene all'elite del rock progressivo italiano, anche se al tempo di "Zarathustra" (1973) un grossolano schematismo ideologico aveva procurato a Galifi e compagni l'ostracismo di chi fraintendeva addirittura come filo-nazista la rilettura dell'opera di Nietzsche da parte del gruppo: il contraccolpo di certe accuse, ad ogni modo, aveva in pratica messo fine alle velleità della band. Rivalutato pienamente col passare degli anni il disco, il gruppo si è ritrovato invece con il precedente "Zarathustra Live in studio" (2012), che omaggiava quell'indiscutibile capolavoro, mentre l'album in questione propone delle composizioni nuove di zecca: è un vero concept-album alla vecchia maniera, cosa che farà la gioia dei prog-fans più ortodossi.
La formazione attuale del Museo è un settetto, dove i veterani della prima ora, cioè il cantante Stefano Galifi, Alberto Moreno (oggi passato a mellotron e synth) e il batterista Giancarlo Golzi, sono affiancati da due chitarristi come Sandro Libra e Max Borelli, oltre al tastierista Fabio Meggetto e al bassista Andy Senis. Un organico corposo che affronta di petto il tema portante di "Barbarica", incentrato sul rapporto distorto tra la natura e l'uomo, troppo spesso spinto dai suoi peggiori istinti fino alla guerra e all'odio etnico in tutte le sue tremende varianti, e dunque fuori da ogni primigenia armonia. Tematiche attualissime e ambiziose, come si vede, che spiegano a sufficienza il tono piuttosto cupo, spesso drammatico, di tutta la sequenza sonora e delle stesse liriche. Proprio per questo motivo, probabilmente, si respira nell'album un'atmosfera molto vicina al più classico e oscuro prog italiano dei Settanta, anche se il risultato complessivo non tocca quei vertici assoluti: tuttavia si tratta di cinque episodi di alto livello, che meritano attenzione. Davvero ottima, in particolare, è la lunga traccia di apertura, "Il respiro del pianeta", dove la bella voce di Galifi non sembra affatto scalfita dal tempo trascorso mentre illustra immagini di una natura che ogni volta, come l'araba fenice, sa rinascere dalle sue stesse ceneri e dalle ferite inferte dall'uomo: splendido il tessuto evocativo delle tastiere (synth e mellotron) e delle due chitarre, tra momenti più raccolti, col pianoforte in primo piano, e potenti accelerazioni rock nelle quali si esalta anche un batterista sempre efficace come Golzi. Un attacco coi fiocchi.
Quest'atmosfera evocativa, sempre modulata a dovere sul canto solista, si prolunga nella parte iniziale del successivo "La coda del diavolo", prima di una decisa sterzata ritmica che dirotta il pezzo nei territori di un hard progressive caldo e trascinante, con l'organo di Meggetto in grande spolvero a guidare le danze. Siamo ancora su livelli di eccellenza. La terza traccia, "Abbandonati", si apre invece con un canto corale ad effetto in lingua inglese e si addentra poi in immagini di crudo realismo: lo scenario di guerra, devastazione e miseria della parte lirica contagia ovviamente la musica, un rock dal ritmo sincopato e nervoso, con il synth in grande evidenza insieme alla chitarra solista. Un altro episodio discreto, ma a mio giudizio inferiore ai due precedenti, per l'assenza del classico spunto vincente che s'imprime subito in mente. Meglio a mio avviso "Il fiore della vendetta": qui una trama elaborata e ben introdotta dal synth si articola efficacemente in una successione di atmosfere evocative, con arpeggi di chitarra sotto la voce intensa di Galifi, fino a prendere quota in una progressione dominata dalle chitarre graffianti, ancora di concerto con l'organo.
Nella finale "Il re del circo" la consueta tessitura rock, potente e frantumata ad arte dalla dinamica batteria di Golzi, si apre ai brevi inserti del synth di Moreno, con le chitarre ruggenti in cattedra a dettare i tempi e le riprese. Un epilogo di buon livello per un album che parte benissimo, come detto, e procede poi in maniera più altalenante nel resto della sequenza: non sempre la somma dei singoli elementi, per quanto apprezzabili, raggiunge insomma i vertici espressivi dei primi due pezzi, anche se il suono del nuovo Museo Rosenbach si mantiene complessivamente su standard elevati e spesso decisamente brillanti. Tra i punti a favore di "Barbarica" cito anzitutto l'eccellente prova vocale di Galifi, forse perfino più duttile oggi che in passato, e poi il fattivo apporto dei due versatili chitarristi, Libra e Borelli, veri protagonisti di quasi tutti i momenti più felici. Tra i pochi punti deboli, invece, una saldatura non sempre perfetta, a tratti, tra i testi e la tumultuosa parte strumentale: ma sono piccole sbavature che, in ogni caso, non intaccano la tenuta complessiva di un disco di valore, raccomandato ad ogni appassionato di rock progressivo, che rilancia in grande stile questa storica band italiana.

Per informazioni e contatti: www.museorosenbach.com/home.html
Brother Ape - "Force Majeure" (Progress Records, 2013)
Diciamolo: il progressive non è proprio il tipo di musica più allegro del mondo. Tradizione vuole, al contrario, che privilegi la fantasia estrema e il mistero un po' morboso, l'introspezione vagamente paranoide e mitologie sparse fino alla fantascienza, ma in generale è un mondo espressivo che tende più all'oscurità che al sorriso. Del resto, i titoli e le tematiche dei più celebri concept-album degli anni d'oro parlano chiaro. Esistono però eccezioni, anche ai nostri giorni, e sembra davvero questo il caso degli svedesi Brother Ape. Si tratta di un gruppo originario di Stoccolma, in azione già da molti anni e attualmente ridotto a trio, dopo una serie di metamorfosi che ha caratterizzato le sue diverse tappe discografiche fino ad oggi.
I dieci episodi che compongono "Force Majeure" colpiscono subito per questa ricerca di soluzioni strumentali ariose e positive, a volte solo sfiorate da un pizzico di malinconia, ma comunque lontane da forzose oscurità o barocchismi seriosi: in questa ricetta la melodia ha un suo preciso spazio che unito all'uso sapiente di una certa elettronica, colorata e non troppo cervellotica, conferisce al suono della band un sapore molto attraente, che non scade quasi mai nella banalità, lasciandosi apprezzare per la buona tenuta complessiva. Soprattutto il costante lavoro del synth fa da filo rosso a una sequenza articolata sulle improvvise accelerazioni ritmiche di basso e batteria, a cura rispettivamente di Gunnar Maxen e Max Bergman, che nelle pause lasciano il posto alla bella voce solista di Stefan Damicolas (chitarra e tastiere), firmatario unico di tutto il materiale. Il risultato è una mistura per palati diversi, che forse lascerà interdetti i seguaci del prog duro e puro d'annata, ma in compenso potrebbe traghettare un pubblico trasversale, e più ampio, da certe formule di pop deteriore verso un sound indubbiamente più raffinato: operazione che nella musica massificata di oggi avrebbe comunque i suoi meriti.
L'esempio più emblematico del suono rasserenante del trio è probabilmente "Doing Just Fine", accompagnata non a caso dal tipico fischiettare scacciapensieri che sembra rispecchiare il loro modo di rapportarsi alla musica. Più in generale, però, l'episodio migliore è forse "Life", dove trionfa uno schema davvero efficace per quanto semplice: gran lavoro di tastiere e batteria in costante accelerazione, ottima chitarra solista e adeguate parti vocali, in uno stile che potrei definire "elettro-pop sinfonico", per capirci, senza stucchevolezze e con una bella tensione ritmica. Se tutto l'album avesse questa consistenza saremmo di fronte a un vero gioiello, ma non è proprio così. Infatti, se anche la title-track strumentale segue questa felice falsariga, con le sue spirali sintetiche e il cromatismo delle tastiere sostenuto dalla propulsione del batterista, un paio di tracce più morbide e atmosferiche, come "Dinstinction", soffrono di qualche languore eccessivo, anche se le discrete parti vocali e il mestiere che traspare dagli arrangiamenti le salva dalle più facili cadute di gusto. In altri momenti, l'elettronica strizza invece l'occhio a qualche sonorità ambient, quasi psichedelica, cullata dalle spirali del synth e dal basso pulsante di Maxen: è il caso di "A Hundred Voices" soprattutto, una delle pagine più riuscite del disco, nella quale il trio lascia intravedere le sue reali potenzialità, in uno schema più consapevole di quanto possa sembrare ad un primo ascolto superficiale.
Altro esempio di una vena non banale è la malinconica "Somewhere Someday": costruita con perizia sulla chitarra acustica e il canto introspettivo di Damicolas, ha il pregio di crescere lenta e avvolgente come le pop-songs più ispirate, in una progressione di sicuro effetto. Ariosa melodia e potenza rock vanno insieme in "The Spanish Prisoner", un potenziale hit da classifica, cantato a dovere e irrorato da tastiere magmatiche oltre che da una chitarra incisiva. Niente male neppure "The Mirror": qui, s'una ritmica sempre molto dinamica e un discreto motivo cantabile, s'innestano fughe di synth ripetute e trascinanti che lasciano il segno.
Insomma, in questo nuovo disco dei Brother Ape c'è molto da apprezzare: i tre ci sanno fare, la formula potrebbe funzionare e magari espandersi ancora, lontano dalle pesantezze del prog-rock più canonico, in una direzione che potrebbe riservare piacevoli sorprese. A patto però di non cedere alle facili tentazioni di un pop da classifica che qui fa solo capolino, per fortuna: la romantica "After Rain", posta in coda, col suo arrangiamento lento e struggente, ne è un esempio. Per il momento il trio corre sul filo con un raro senso dell'equilibrio, senza ancora precipitare nelle trappole del cosiddetto "muzak". In futuro comunque si vedrà, ma intanto godiamoci un album davvero fresco e accattivante come questo.

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Tugs - "Europa Minor" (AMS, 2013)
Il nome dei Tugs suonerà probabilmente nuovo alla gran parte degli appassionati prog, ma in realtà la loro è una lunga storia. Originari di Livorno, nascono infatti nel lontano 1978 e cominciano abbastanza presto a inseguire l'idea di un originale progetto artistico che unisca musica e teatro, fino alla realizzazione di uno spettacolo come "Rock in due atti", portato effettivamente in scena nel 1985. Seguono anni difficili, con cambi di nome e organico, fino allo scioglimento. Oggi, all'indomani della recente riunione, il gruppo si ripresenta con una vera opera-rock che ha prodotto anche il disco in questione: l'ambizione di "Europa Minor", comunque, è sempre quella di tenere insieme racconto teatrale e rock, impresa riuscita finora a pochissimi artisti con reale successo.
Il disco, come lo spettacolo, nasce da un'idea intrigante riassunta molto bene nel titolo: recuperare cioè un immaginario repertorio di vecchie storie, leggende e pagine diaristiche che non hanno trovato posto nella letteratura ufficiale del vecchio continente, e sopravvivono oggi all'oblio solo in forme trasversali, grazie a moderni cantastorie come i Tugs. Fantasioso spunto, questo, che pare fatto apposta per sbrigliare la creatività della band livornese in più direzioni, anche dal punto di vista musicale. I dodici episodi del disco, infatti, evocano luoghi e tempi diversi, così da innescare di volta in volta suggestioni peculiari, attinenti ai paesaggi umani e culturali chiamati in causa. Ne deriva un piacevole eclettismo di toni e atmosfere che scongiura in partenza il rischio della noia, anche se non tutti gli episodi, magari, risultano ugualmente convincenti in una sequenza piuttosto lunga, che allinea semplici canzoni, fiabesche ballate e vigorosi squarci rock: tutto all'insegna di un pronunciato folk trasversale che sembra la cifra stilistica dominante e il vero filo conduttore dei diversi momenti.
La voce solista di Pietro Contorno, fondatore della band con il chitarrista Nicola Melani e il bassista Bruno Rotolo, è il fulcro di un percorso lirico e visionario che si dipana con discreta verve fin dall'iniziale "Waterloo": qui la rievocazione della celebre battaglia si traduce in formule sonore decisamente rock, con la chitarra solista in bella evidenza, affiancata però dal violino e dal pianoforte di Marco Susini, mentre la più tipica marcia militare apre e chiude efficacemente il brano in una chiave che richiama il folklore celtico. E' già un ottimo esempio, arioso e colorato, dell'ispirazione "contaminata" che sorregge la musica dei Tugs. Il violino di Francesco Carmignani, in ogni caso, è tra i protagonisti del disco, come si nota anche nelle due parti de "Il Re e il poeta", che si avvale tra l'altro dei buoni spunti al flauto di Claudio Fabiani: è insomma un impasto sonoro alquanto duttile, tra rock, jazz e spezie folk. Di grande effetto anche "Pietroburgo 1824", immersa stavolta in uno scenario tipicamente russo dove non a caso echeggiano trascinanti danze slave, integrate da inserti di synth e piano decisamente brillanti.
In alcuni frangenti, il racconto sonoro assume le cadenze di una sofisticata canzone d'autore, sia pure rivestita da arrangiamenti di eccellente fattura e discretamente inventivi: cito soprattutto "I bambini d'inverno", a mio avviso tra i picchi assoluti dell'abum per le liriche e il canto convincente di Contorno, cullato ancora ad arte dal piano e da un violino struggente. Molto bello. Morbido e intriso di arie popolari scorre invece un altro momento come "Canzone per un anno", una sorta di melodico inno alla speranza: oltre al violino, qui è il flauto che sale al proscenio in un contesto interamente acustico. Tra le altre pagine più riuscite si segnalano il trascinante l'attacco de "Il pianto", con le parti vocali ben incastonate nello schema di un folk-rock mobilissimo, dove c'è il consueto spazio per il violino e il pianoforte ma anche per fascinosi inserti di chitarra flamenca, e quindi "Il sogno di Jennifer", unico episodio strumentale della scaletta, nel quale chitarra acustica ed elettrica si accordano al pianoforte in una trama raffinata, dal passo quasi cameristico a tratti, che testimonia al meglio l'estrosa abilità compositiva della formazione toscana.
Quando si arriva alla fine del viaggio con "Nanou", dolente frammento dedicato alla lotta partigiana, e splendidamente giocato sulle note di fisarmonica, pianoforte e violino, si ha l'impressione di aver ascoltato un album che non tradisce affatto le sue ambiziose promesse. Tutt'altro: nonostante la lunghezza impegnativa della sequenza, infatti, la discreta tenuta dei testi, la versatilità di scrittura e la qualità degli arrangiamenti fanno di "Europa Minor" un'opera indubbiamente degna di nota in un panorama affollato da proposte spesso prevedibili, basate su modelli di riferimento ormai abusati. Anche nella musica dei Tugs, ovviamente, si avvertono echi di molteplici influenze, sempre filtrate con intelligenza, ma il loro merito principale è proprio quello di aver creduto fino in fondo nel connubio vincente tra un racconto popolare dalle mille risonanze e un dinamico rock senza confini, e averlo infine realizzato con tanta appassionata convinzione. Un disco consigliato, per menti aperte.

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Thieves' Kitchen - "One for Sorrow, Two for Joy" (Autoproduzione, 2013)
Questo gruppo anglo-svedese ormai attivo da tempo nel circuito del rock, a partire dall'esordio datato 2000, ci regala ora un nuovo album di sicuro interesse cinque anni dopo il precedente "The Water Road" . Si tratta di sette episodi che mostrano la predilezione per uno squisito progressive di stampo sinfonico, ma con discrete spezie folk e canterburyane, qua e là, che rendono il piatto piuttosto saporito. E' giusto dire che la musica in questione non suonerà affatto travolgente per gli appassionati più smaliziati, sempre a caccia di novità eclatanti: evidenti sono infatti i riferimenti della band britannica, eppure, a mio parere, digeriti e riproposti con sufficiente padronanza di scrittura.
Le tastiere di Thomas Johnson, che molti conoscono per la sua militanza negli Änglagård, costituiscono la vera ossatura strumentale del gruppo, ma il suono può giovarsi anche di un chitarrista solido e raffinato come Phil Mercy, mentre la voce femminile di Amy Darby è la classica ciliegina sulla torta: elegante e sinuosa, si muove a suo piacimento, senza virtuosismi inutili, nello schema musicale messo in piedi insieme ai compagni. Al trio di base si aggiungono per l'occasione validi musicisti che arricchiscono il suono, specialmente nel settore dei fiati, dove spicca il flauto di Anna Holmgren, e il risultato è una sequenza in grado di deliziare i palati più raffinati in fatto di moderno progressive rock. "Deor", prima traccia effettiva dopo il brevissimo intro recitativo della title-track, parla un linguaggio di limpido romanticismo: il mellotron maestoso, le coloriture chitarristiche e la melodiosa voce solista, dipingono un arazzo dalle tinte lussureggianti e insieme pacate, che si snoda senza strappi in una trama intessuta di spirali avvolgenti, sottolineate in questo caso anche dal violoncello. Un brano che conquista, tra i migliori del disco, e predispone al meglio per il seguito.
L'ispirazione dei Thieves' Kitchen segue uno schema piuttosto classico, dove più che le soluzioni di rottura a fare la differenza sono le sfumature timbriche che innervano il tema dominante dei singoli pezzi. In "Hypatia", dedicata all'omonima filosofa dell'antichità, ad esempio, compaiono il flauto e il piano elettrico, che scandiscono un'atmosfera più rarefatta e interiore: Johnson fa valere il suo pianismo classicheggiante, mentre il chitarrista inserisce calibrati inserti elettrici, distribuiti in un contesto di sinfonismo trattenuto, che si dipana ancora sul violoncello e poi sul mellotron, cornice ideale al delicato canto solista. La cantante è protagonista assoluta anche della breve "The Weaver", costruita con disarmante sobrietà sul delicato arpeggio della chitarra acustica e s'una voce cristallina che richiama i momenti più felici del folk-rock britannico d'annata.
Parziale eccezione a quanto detto fin qui è l'attacco decisamente più "heavy" di "A Fool's Journey": la chitarra di Mercy trova un riff più sanguigno, sostenuto dal suono dark dell'organo, del mellotron e da una ritmica più nervosa, ma nello schema è ancora la voce femminile a fare da collante, con una padronanza espressiva che si mostra all'altezza anche in uno spartito più contrastato, articolato tra pause e riprese nelle quali brilla anche il synth. Tagliente e incisiva, la chitarra solista torna in primo piano nell'ultima parte e conduce in porto un altro brano di eccellente fattura. Siccome l'eccezione conferma la regola, come si dice, il resto dell'album recupera però la dimensione romantico-sinfonica che più si addice alla band. In particolare la magnifica "Germander Speedwell", lunga e ramificata nel suo sviluppo, farà felici i seguaci del prog cosiddetto "pastorale": immersa inizialmente in un quadro di suoni boschivi e cullata da flauto, violoncello e chitarra acustica, la composizione cresce con ammirevole naturalezza sulla solennità del mellotron fino al delicato ingresso del cantato, e quindi di una chitarra solista veramente calligrafica. Nulla di veramente nuovo, d'accordo, però l'insieme si fa apprezzare: c'è misura e buon gusto negli arrangiamenti, quanto basta per lasciare il segno.
La lunga coda di "Of Sparks and Spires" si colloca un po' a metà strada tra i diversi poli espressivi, con maggiore corposità di suoni. Si fa notare la tromba di Paul Marks che in apertura sembra dialogare con il pianoforte romantico di Johnson, ma il tema si complica e si frattura poi in un'alternanza di pieni e di vuoti molto intrigante. La parte centrale scorre all'insegna di un robusto tema rock guidato dall'organo, con frequenti breaks di piano e chitarra, che lasciano poi spazio alle parti vocali, in un bel crescendo strumentale di sicuro effetto. Arrivati in fondo, c'è da ribadire la bella tenuta del disco: mancano forse quei momenti che fanno gridare al capolavoro, ma non è facile, come sappiamo, rinverdire un genere largamente abusato come il prog classico settantiano: i Thieves' Kitchen, in ogni caso, evitando con intelligenza prolissità e forzature, reggono bene il confronto con i modelli più noti del genere. Il loro quinto capitolo discografico, insomma, non deluderà chi si muove ancora sulle tracce dei giganti, e non è stanco di abbeverarsi a quella magica fonte che tanto ha dato alla musica degli ultimi quarant'anni.

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Big Big Train - "English Electric (Part Two)" (English Electric Recordings/GEP, 2013)
Cos'altro poteva aggiungere la seconda parte di "English Electric" a quanto è ormai noto dei Big Big Train? Sappiamo che sono, probabilmente, la miglior band derivativa di oggi, capace come nessun'altra di rinverdire la lezione stilistica del cosiddetto "prog romantico" che nasce con i
Genesis, e di quel mondo espressivo. Sappiamo anche la profonda assonanza, quasi una seconda pelle, che li fa muovere in questa scia: non per calcolo, ma per convinta adesione emotiva e artistica, insomma. Il disco conferma tutto questo, infatti, e nella maniera migliore. O c'è dell'altro?
A ben vedere, a saper ascoltare, qualcosa di nuovo emerge. Qualcosa che chiarisce, oltre alle somiglianze, anche le differenze di Longdon e compagni rispetto al gruppo di Peter Gabriel e dei loro epigoni. In effetti, era già evidente negli ultimi dischi, ma nel primo pezzo dell'album che abbiamo davanti, la lunga "East Coast Racer", è addirittura lampante: c'è nei Big Big Train un surplus orchestrale, in sede di arrangiamento, che nei Genesis restava confinato alle ricche tastiere di Peter Banks, e nella band di Bournemouth si esplica invece nel largo spazio affidato alle corpose sezioni dei fiati e degli archi, decisivi nell'effetto complessivo. Come se la dinamica nervosa che animava il rock dei maestri si fosse qui sedimentata in un denso magma lavico, più compassato, che vive di risonanze e cesellature preziose, a parte alcune sterzate ritmiche che tuttavia non cambiano questo raffinato disegno generale. Nel lungo brano citato, ad esempio, il pianoforte avvia un motivo nostalgico che s'infrange bruscamente sull'ingresso secco della batteria di Nick D'Virgilio e degli altri strumenti: quindi il pezzo si apre, rivelando una discreta successione di temi secondari, ben guidati dal canto solista di Longdon, ma finalmente rallenta e si concede una lunga coda sinfonica, che poggia sul mellotron di Greg Spawton ma anche sui fiati (cornetta, tuba, trombone) e gli archi appunto, quasi a incorniciare tutto ciò che precede. E' questa sottolineatura, qualcuno dirà "pomposa", ma a mio avviso di magnifico effetto romantico, il tocco inconfondibile del gruppo inglese.
Gli archi, onnipresenti, aprono e sottolineano anche "Leopards", con un timbro languido che s'integra benissimo al motivo vocale e all'ottimo lavoro di chitarra di Dave Gregory: è un brano giocato quasi in sordina, stavolta, ma ancora lavorato con implacabile buon gusto e innato senso delle sfumature. In realtà, non vorrei dare l'impressione che l'ispirazione dei Big Big Train suoni monocorde o noiosa: anche qui, come nei dischi precedenti, la band mostra un notevole eclettismo strumentale, pur all'interno dei confini stabiliti, che garantisce la grandiosa tenuta della raccolta dal principio alla fine. Merito dell'eccellente livello tecnico e della consapevolezza di muoversi in territori ben conosciuti, che offrono una gamma sufficientemente ampia di suggestioni a musicisti maturi come questi. Bella "Swan Hunter", che cresce placida ma avvolgente nei suoi ricami di tromba, chitarra e archi, e pienamente sinfonica "The Permanent Way", tra le pagine più riuscite: musica soffusa, con il pianoforte e il violoncello che fanno da cornice elegante alla voce sempre duttile di Longdon, in un crescendo simile ad una bolla sentimentale che non scoppia mai, e intanto irretisce infallibilmente nelle sue spire strumentali, soprattutto sulle note del violino e della chitarra solista. Magistrale.
Tra gli altri pezzi, "Worked Out" si segnala per l'uso sapiente delle voci e per lo sviluppo minimale della prima parte, finché il tutto accelera e si carica di tensione nel canto solista, con il violino e poi il flauto in bella evidenza: è un rock mobilissimo, scandito a dovere dalla sezione ritmica, e con il corposo contributo delle tastiere di Danny Manners, uno dei tanti ospiti dell'album. Ecco, un'altra qualità del gruppo inglese è proprio questa capacità di formare una sorta di comunità artistica aperta, mai occasionale, ma sempre funzionale al singolo progetto, creando quell'ideale amalgama strumentale che indubbiamente è alla base di una resa finale così alta e ineccepibile, come si ripete ormai da qualche anno e senza sbavature. Tutto è studiato nel minimo dettaglio, eppure l'effetto è ogni volta straordinario anche sul piano emozionale: difficile trovare una tale unità d'intenti nella musica "serializzata"di oggi.
La summa dell'album, e delle migliori qualità del gruppo, sta forse nella splendida "Keeper of Abbeys", un episodio che riesce a fondere con impressionante finezza richiami diversi tra loro: cadenze folk e country, impersonate a meraviglia dal violino brillante di Rachel Hall, ma anche da mandolino, accordion e banjo, convivono qui con la tessitura di un rock sincopato e nervoso, nel quale si aprono e dilagano parentesi di efficace lirismo affidate alla voce, e quindi alla chitarra elettrica di Gregory per il gran finale. Nell'economia del risultato finale, come si sarà capito ancora una volta eccezionale, ognuno dei musicisti offre il suo contributo individuale, senza mai dimenticarsi che la musica è più che mai un gioco di squadra, ma mi sento di spendere una menzione di merito particolare per un vocalist come David Longdon: il suo timbro pare fatto apposta per intepretare al meglio le atmosfere squisite dei compagni, ma come si nota nella conclusiva "Curator Of Butterflies", la sua prova non manca mai di quel pathos e di quella sensibilità che sono indispensabili a valorizzare un certo spartito, al di là della pura tecnica vocale. E' anche grazie a lui se una musica che si vorrebbe vecchia e superata nei suoi riferimenti sa ancora offrire emozioni autentiche in un disco come questo: da prendere al volo, comunque, come i precedenti.

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Edaq - "Dalla parte del cervo" (Grande-mere, 2012)
Dico subito che non è agevole catalogare un disco come questo, e si vedrà perché. Edaq, nome acronimo che sta per Ensemble D’Autunno Quintet, è un collettivo di musicisti attivi tra Cuneo e Torino, reduci da esperienze variegate che vanno dalla musica popolare al rock e al jazz: un ricco patrimonio di influenze che si apprezza pienamente nelle trame sonore fino a rendere "Dalla parte del cervo" un piccolo gioiello, meritevole della massima attenzione.
In effetti, anche se la cifra immediatamente riconoscibile è quella di un folk brioso e tutt'altro che passatista, con solide radici nell'area occitana piemontese, un ascolto attento vedrà emergere sotto questa superficie echi di elettronica ben dosata e spezie jazz opportunamente filtrate. Sta di fatto che il quintetto ha messo insieme una sequenza di dodici tracce d'indubbia originalità, senza parti vocali, dove la strumentazione tipicamente acustica, tra chitarra, clarinetto e archi, ghironda e contrabbasso, viene qua e là supportata con intelligenza dagli effetti elettronici di Francesco Risso, mentre lo stesso spirito popolare che domina l'ispirazione, attinge ad umori meno ortodossi di quanto possa sembrare alla prima impressione. I richiami sono molteplici: dalla tradizione franco-provenzale all'Irlanda e all'Africa, senza complessi. L'apertura di "Bollito crudo" è uno degli episodi più trascinanti, con il clarinetto di Flavio Giacchero e il violino che sviluppano un tema ossessivo di sicura presa. Già in questo caso, però, echi balcanici sembrano attraversare il folk più classico dell'area piemontese e transalpina, così come altrove salgono al proscenio elementi della tradizione celtica, grazie alla cornamusa dello stesso Giacchero: ad esempio "Hanter-dro du trehic/Boxus semper virens", con una coda straniante di suoni elettronici.
Sempre attenti a non cadere nell'archelogia musicale, gli Edaq sanno immettere anche nei momenti più canonici una vena inquieta e spiazzante, sia pure sempre restando nei confini della dimensione popolare, all'insegna di una notevole libertà espressiva. A tratti affiorano cadenze quasi cameristiche, come in "Rigodon", con gli archi a dominare un tema più errabondo che sale d'intensità alla distanza, in un crescendo irregolare fino alla dissonanza, ma di grande effetto. La chitarra di Enrico Negro apre invece uno dei momenti più singolari, la conclusiva "Interplaygine/Interplay", che omaggia uno standard di Bill Evans: una spericolata contaminazione, con archi e clarinetto in evidenza, che testimonia da parte del gruppo la ricerca di atmosfere diverse, oltre le formule più scontate. Accade anche, come in "Polca del Limousin/Di corsa acquattata", che il giro del violino si carichi di una tensione diversa, dove entrano fremiti percussivi, effetti e distorsioni varie, disegnando un paesaggio meno pacifico del consueto. Un altro esempio eloquente è "Statebbuoni", aperto e accompagnato dalle sonorità sintetiche che fanno quasi da cornice al classico tema campestre, dove si distingue ancora il clarinetto brillante e soprattutto il violino di Gabriele Ferrero. Questo leggero, ma decisivo scarto rispetto alla riproposta pura e semplice del repertorio popolare più riconoscibile, contribuisce a rendere la musica del quintetto sempre interessante, e spesso imprevedibile.
La sequenza scorre accattivante, in un riuscito mix di genuine sonorità legate al territorio, interpretate però con ammirevole freschezza, e parentesi più aperte, dalle fascinose risonanze. Sognante ed evocativa è "Valse a bu", articolata tra pause e riprese continue, così come è irresistibile il vorticoso motivo strumentale di "Bourrée a trois temps/Bourrée girasole", una delle pagine più lineari e godibili della raccolta. La breve "Valse de Bardamu", invece, abbina il suono del mandolino e degli archi al suono aspro e sorprendente del clarinetto, sottolineando una volta di più l'anima eclettica di questi validi musicisti.
Onestamente non è facile capire che riscontro possa avere una proposta di questo genere nell'odierno panorama musicale, basato ormai quasi interamente sull'esteriorità più banale che appiattisce ogni spiccata individualità. Ecco perché, a mio modo di vedere, è giusto dare risalto e visibilità a dischi di questo spessore, legati a una solida tradizione e insieme capaci di restituire tutte le suggestioni del tempo che attraversano: non è una qualità così diffusa, e per questo mi piace sottolinearla. "Dalla parte del cervo" è consigliato agli ascoltatori meno distratti, che cercano la buona musica anche in quel cono d'ombra, lontano dai riflettori, che oggi sembra il destino comune degli artisti più veri.

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Karfagen - "Aleatorica" (Caerllysi Music, 2013)
Attiva ormai dal 1997, Karfagen è una valida band che arriva dall' Ucraina e sotto la guida del tastierista Antony Kalugin porta avanti un discorso musicale di tutto rispetto. "Aleatorica", quinto album di studio del gruppo, offre in effetti molteplici suggestioni fin dal titolo, che rimanda ad "alea", antico termine di derivazione latina che nella musica colta sta a indicare quelle composizioni che lasciano al musicista un certo margine di improvvisazione durante l'esecuzione del tema codificato. Bisogna dire che il disco in questione rispetta fedelmente, e nel migliore dei modi, questa predisposizione.
Composto da quattordici tracce di varia lunghezza, "Aleatorica" è un disco davvero godibile, dominato dagli stessi colori vivaci che campeggiano in copertina, e capace di risucchiare nelle sue trame ogni ascoltatore aperto ad un'idea elastica e non troppo canonica del rock progressivo. Circondato da uno stuolo di validi colleghi, Kalugin sembra divertirsi molto a giocare la carta di un estremo eclettismo che pure conserva sempre, a ben vedere, una precisa memoria del proprio retroterra slavo: si può dire anzi che la radice etnica, intrecciata con le sonorità più moderne, sia in questo caso la vera carta vincente. Una strumentazione ricca e poliedrica, che mette insieme sintetizzatori e fisarmoniche, sax e oboe, chitarre e violini, contribuisce a disegnare un pregevole arazzo musicale che unisce felicemente elementi del folklore con audaci progressioni rock, incursioni jazz e melodia, sempre all'insegna di un invidiabile camaleontismo. Solo musicisti di grande caratura, va detto, possono muoversi con tale disinvoltura tra tante suggestioni diverse senza mai scadere nel puro cozzo dei registri, ma lasciando invece un'impressione complessiva di sicura personalità.
Fin dall'attacco brioso dello strumentale "Aleatorica" e soprattutto negli episodi più lunghi, Kalugin e compagni sfoggiano una vena sciolta e accattivante: ad esempio "Mad Gods of Destiny", uno dei due pezzi cantati, che trascina nelle sue trame improntate ad un rock dai molti sapori, tra l'accordion di Sergii Kovalov e la chitarra elettrica di Alexandr Pavlov che portano avanti il tema insieme alle tastiere, ma con i corposi contributi dei fiati (clarinetto, flauto) e degli archi. E' una miscela molto dinamica di echi esotici e sanguigne atmosfere capaci di evocare la grande ricchezza dell'est europeo. A tratti, genuine sonorità popolari sembrano prevalere in quadri che nascondono però, dietro l'apparenza di semplici danze campestri, un'anima fusion insospettabile: è il caso di "Solar Cycles", dove il motivo dell'accordion a un certo punto viene integrato dall'ingresso del sax e quindi dal violino. Tra cambi di tempo ripetuti e sviluppi lasciati come sempre all'estro dei singoli musicisti, il risultato è sempre molto originale. Lo stesso discorso vale per "Whirlabout", aperto dal pianoforte di Kalugin e poi articolato in vorticose fughe strumentali, con la ritmica sempre a mille e il clarinetto di Sergey Klevensky in primo piano, mentre il timbro più sinfonico delle tastiere funge da raccordo e gli archi conferiscono quella nota di morbida malinconia all'insieme.
L'altro momento cantato della sequenza è la lunga "A Day Without Rain", che abbraccia un registro più solenne e composto, sviluppato a dovere tra l'efficace refrain vocale e le sonorità più altisonanti delle tastiere e degli archi, fino al lungo solo chitarristico di Pavlov. Meno spumeggiante e più lineare nell'arrangiamento, è un altro episodio che dimostra la varietà strumentale che sorregge l'ispirazione del gruppo ucraino. Di grande effetto è anche la suite tripartita "Mystic Castles", dove le qualità dei Karfagen trovano compiuta espressione in un'altra direzione ancora: qui Kalugin si destreggia abilmente alle tastiere, con un uso piuttosto inventivo del synth, e la musica si colora di preziose sfumature jazz quando il pianoforte sale al proscenio, seguito a ruota dal brillante violino elettrico di Tomek Mucha. Notevole. Degno suggello di questo intrigante viaggio sonoro è "Aleatorica(Back to the Alea)", accattivante rassegna di umori e trovate strumentali dei singoli, dunque più che mai fedele allo spirito dichiarato nel titolo.
Come sapidi intermezzi tra i brani più estesi della sequenza, stanno poi episodi brevi o brevissimi che non sono meno importanti nel catturare l'ispirazione musicale della formazione: cito tra gli altri la deliziosa "D'ale", ancora con l'accordion in evidenza, e poi "Amazing Ananda", una fantasia classicheggiante per le tastiere del leader. In estrema sintesi, il quinto album firmato dai Karfagen contiene una gamma sonora ampia e variegata, che mette insieme rock, jazz e folk con notevole maestria, a costo magari di spiazzare sulle prime l'ascoltatore: il consiglio è di lasciarsi alle spalle le formule più rigide, così da riuscire da apprezzare come merita il sound di questa eclettica band ucraina dall'indiscutibile talento. Un disco raccomandato.

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La Maschera Di Cera - "Le porte del domani" (AMS, 2013)
Non c'è dubbio che confrontarsi con un caposaldo del prog italiano classico, com'è "Felona e Sorona" delle
Orme, sia un'impresa alquanto rischiosa: ma è proprio questa la sfida che la Maschera Di Cera, una delle bands di punta della nostra scena rock, ha voluto raccogliere per il suo nuovo lavoro. Basta del resto il primo sguardo alla copertina del disco, dove le riconoscibili figure del pittore Lanfranco, lo stesso che firmò appunto l'album delle Orme, non lasciano dubbi. Quali sono, comunque, le premesse di questo singolare progetto che, a quanto mi risulta, non ha precedenti?
Si immagina in pratica una sorta di "sequel" del concept datato 1973, come se Fabio Zuffanti e soci vedessero praticabile una rinascita dei due pianeti dal buio nulla al quale, nel progetto del trio veneziano, venivano condannati dopo un effimero momento di equilibrio. Idea stimolante, certo, ma che espone il gruppo all'inevitabile confronto con un'opera già leggendaria, specie da parte dei "puristi" che non mancano mai, neppure nel circuito degli appassionati seguaci del Rock Progressivo. La verità è che un'operazione del genere non poteva trovare interpreti migliori, dato che la Maschera è nata proprio per riportare in auge suoni e atmosfere che hanno consacrato il prog di settantiana memoria, senza arrivare al vero calco di quel genere, ma rispettandone fino in fondo i canoni stilistici. E il disco che abbiamo davanti conferma in pieno questa convinzione.
Per l'occasione l'ensemble genovese è schierato a cinque: intorno a Zuffanti, che firma tutte le musiche, troviamo il batterista Maurizio Di Tollo (autore dei testi insieme al bassista), il tastierista Agostino Macor, oltre al flautista Andrea Monetti e al cantante Alessandro Corvaglia. Un organico già sperimentato che non tradisce affatto le attese, fin dall'eloquente apertura di "Ritorno dal nulla": i temi musicali del concept di riferimento sono qui abilmente innestati in un mobile schema che alterna vigorosi stacchi ritmici a liquide atmosfere dominate dal synth e dal mellotron, riportandoci di colpo nello spazio cosmico che incorniciava la storia dei due pianeti. L'effetto è notevole, ma non puramente regressivo, poiché la band riesce a rinfrescare certe sonorità con un discreto apporto di elementi aggiuntivi, rinnovando così il contesto senza tradirlo: ad esempio, oltre al flauto, si segnalano il sax di Martin Grice (Delirium) e la chitarra elettrica di Laura Marsano in un pezzo come "L'enorme abisso", dove lo splendido attacco del synth lascia il posto al cantato vibrante di Corvaglia, in uno spartito contrastato e aperto che trasmette tensione e smarrimento. A mio parere è uno dei vertici della sequenza.
Meravigliosa l'atmosfera che pervade "Ritratto di lei", dove emerge la figura femminile che sarà decisiva per ridare fiato alla speranza, proprio nel pieno dello sterile conflitto che sta dilaniando i due pianeti ("La guerra dei mille anni"). Delicato e pregnante il lavoro tastieristico di Macor, con l'abile ripresa di un altro tema dell'opera originale: è musica sognante ed evocativa, che avvince senza rimedio. E subito dopo, a contrasto, ecco accendersi il ritmo serratissimo di "Viaggio metafisico", con le spirali di flauto e synth che intersecano il poderoso lavoro del batterista Di Tollo: è proprio quest'alternanza di umori, tra pause sospese e intense ripartenze sulla ritmica, a fare il fascino del disco, oltre al dosaggio raffinato di arrangiamenti sempre ben calibrati, dinamici e mai prolissi. Proprio la grande capacità di sintesi, per inciso, è uno dei punti a favore dell'album.
Di grande impatto anche lo strumentale "Alle porte del domani", proprio in chiusura, dove l'impasto di flauto, percussioni e sintetizzatori, citando al volo ancora Le Orme del 1973, sigilla a dovere la fine di questo viaggio avventuroso e fantastico, dall'assoluta oscurità alla luce. Alla fine, nonostante le ovvie perlessità che potevano nutrirsi nei confronti di un tale progetto, la scommessa della Maschera Di Cera può dirsi vinta, perché "Le porte del domani" è davvero un gioiello del nuovo prog italiano, degnissimo erede del suo lontano e affermato progenitore.
Un disco di rara suggestione che non solo rappresenta, come meglio non si potrebbe, il simbolico passaggio del testimone tra musicisti di generazioni diverse, ma lascia anche trasparire il legittimo orgoglio di una tradizione rock tutta italiana, ancora oggi vitale e capace di regalare emozioni. Insomma, se c'è un disco da non perdere assolutamente è proprio questo.

Per informazioni e contatti: www.zuffantiprojects.com/
Alphataurus - "AttosecondO" (BTF, 2012)
Sono davvero molti, negli ultimi tempi, i ritorni dei gruppi rock italiani che negli anni Settanta hanno lasciato un segno importante: non tutti per la verità sono riusciti a rinverdire i fasti del passato, e spesso si può anzi parlare di autentica delusione, a fronte di poche eccezioni positive. In quale schiera, tra le due, s'inscriverà dunque il nuovo disco firmato da un'altra band storica come gli
Alphataurus?
Ricordati per un ottimo disco omonimo datato 1973, i milanesi sono tornati in pista solo qualche anno fa, realizzando quindi "Live in Bloom", basato sul concerto di riunione del 2010. Subito dopo, il batterista originale Giorgio Santandrea, costretto a lasciare il campo, è stato sostituito da Alessandro Rossi: schierato a sei, con i "vecchi" Pietro Pellegrini e Guido Wassermann insieme a quattro nuovi compagni, il gruppo si presenta finalmente con un secondo album di studio. Dei cinque brani in scaletta, tre in realtà erano già apparsi nel disco "Dietro l'uragano", l'incompiuta seconda prova uscita solo postuma nel 1992, e questo stabilisce un filo di continuità con il periodo d'oro della band, come del resto la copertina firmata ancora da Adriano Marangoni, anche se delle vecchie versioni due erano solo strumentali mentre oggi godono di liriche inedite, interpretate da Claudio Falcone. Il risultato complessivo è decisamente buono, e a mio parere soddisferà soprattutto gli amanti del classico prog italiano; meno, probabilmente, chi è abituato ad aspettarsi sempre qualcosa di radicalmente nuovo da un disco etichettato come progressive. Gli Alphataurus di oggi comunque sono questi, schietti e ruspanti senza provare ad essere altro, e questo secondo me è un segno di consapevolezza.
In generale, il suono della band è fluido e godibile fin dall'apertura di "Progressiva-Mente", con la chitarra solista di Wassermann che apre le danze, subito affiancata dalle tastiere di Pellegrini e dalla sezione ritmica, in un crescendo di pura ascendenza settantiana. Quando poi subentra la voce solista di Falcone scopriamo un altro protagonista del disco, col suo timbro limpido e potente ben calato nel contesto sonoro dei compagni, in questo caso imperniato s'una alternanza piuttosto attraente di pieni e vuoti nella quale brillano le coloriture del synth. Ugualmente accattivante, ma più frastagliato nel suo sviluppo, è un episodio come "Gocce": se la chitarra solista è ancora vibrante in apertura, sale quindi al proscenio il pianismo classicheggiante di Andrea Guizzetti, base ideale per una parte lirica di sicuro spessore, cantata a dovere da Falcone. E' un pezzo più contrastato, basato su vivaci digressioni per organo e chitarra, e i sintetizzatori ancora in bella evidenza ad aggiungere quel tocco che fa davvero "vintage prog". A mio avviso è uno dei vertici dell'album.
Sul versante delle liriche spicca anche "Claudette", la traccia più lunga dell'album, che in questa versione diventa una sentita riflessione sul passaggio del testimone tra due generazioni: adeguata al contesto, la parte musicale è articolata sui toni più raccolti e introspettivi delle tastiere, il basso pulsante di Fabio Rigamonti e le impennate drammatiche della chitarra, mentre il canto enfatico di Falcone sottolinea al meglio i versi più intensi. Bello. Il livello si mantiene più che discreto anche nella lunga coda di "Valigie di terra": ad un inizio più evocativo, con il pianoforte ancora in cattedra secondo un modello che ricorda la prima fase del gruppo, segue una parte centrale più mossa e sanguigna, grazie all'organo e al basso, qui in grande spolvero, che alzano gradualmente la temperatura della composizione fino al gran finale.
Indubbiamente ben suonato, e congegnato secondo i dettami più riconoscibili e rassicuranti del prog italiano, come testimonia anche lo strumentale "Ripensando e...", dinamica parata di spunti barocchi all'insegna delle tastiere e di una batteria incalzante, "AttosecondO" è insomma un disco che dimostra buon sangue e idee molto chiare, senza inseguire modelli improbabili al solo scopo di catturare l'attenzione. Una sequenza di poco inferiore ai cinquanta minuti che rinnova piacevolmente l'epoca d'oro del prog tricolore, con gli stilemi e le qualità di base che hanno fatto la sua fortuna, riproposte con grinta e freschezza da un pugno di musicisti che indubbiamente sanno il fatto loro. Per rispondere dunque alla domanda iniziale, questo è senz'altro un ritorno da salutare con favore.

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Silhouette - "Across the Rubicon" (Progress Records, 2012)
Silhouette è il nome di una band olandese di Utrecht che suona "neo prog" dal 2005, e giunta al suo terzo album si colloca senza problemi nella scia di tutte quelle formazioni che recuperano la tradizione del rock settantiano in una chiave più accessibile, tra melodia e ballate rock più corpose. Una ricetta abbastanza semplice, ma tutt'altro che disprezzabile, come si vedrà.
"Across the Rubicon" ci presenta un canonico quartetto alle prese con otto tracce, nessuna delle quali vi farà probabilmente saltare sulla sedia: tuttavia non si può negare l'eccellente predisposizione dei quattro olandesi ad una scrittura romantica di buona fattura, dove le belle voci si sposano con discreta verve ai temi musicali, sorretti in gran parte dalle versatili tastiere di Erik Laan, a sua volta affiancato a dovere dalle chitarre di Brian de Graeve. Il risultato è indubbiamente gradevole e rifinito, e la stessa rotazione nel ruolo di voce solista da parte di tre dei membri garantisce una certa varietà timbrica all'album, peraltro piuttosto compatto a livello strumentale. L'attacco della breve title-track, cantata dal chitarrista, è un efficace compendio dello stile dei Silhouette: struggente motivo melodico abbinato a un tema non troppo complesso eppure ben orchestrato sul colore sinfonico delle tastiere, con un morbido interludio di chitarra elettrica, e l'abile contrappunto delle seconde voci. Il resto della sequenza scorre nello stesso solco, anche quando i pezzi si allungano e scelgono tonalità rock più marcate e un respiro quasi epico.
Ne è un buon esempio la lunga "Breathe", col moog in grande evidenza a tenere i fili assieme alla chitarra solista che si dilunga in assoli ad effetto. Magari una maggiore sintesi avrebbe valorizzato ancora di più il pezzo, ma si tratta comunque di un vigoroso esempio di neo prog suonato come si deve. Altrettanto mossa tra intervalli e riprese ficcanti, anche se forse meno efficace, è "Anybody", stavolta con la voce solista del batterista Jos Uffing che sale in cattedra. Sul versante più morbido scorre invece un episodio come "When Snow's Falling Down": ancora efficace la melodica voce di De Graeve sul tappeto tastieristico, intervallato da pause atmosferiche ad effetto che danno al brano un colore sognante di sicura presa, come il coro di bambini nel finale. E' forse il picco del disco. Tra gli altri brani, "Empty Places" s'inscrive tra i momenti più schiettamente romantici: è una dolce ballata, con il canto accorato ben assecondato dal pianoforte e la chitarra acustica di sfondo fino al moderato crescendo del finale. Niente di sconvolgente, intendiamoci, però funziona.
A questo lato più malinconico e trasognato appartiene anche "Nothing", con l'organo e la chitarra elettrica che nella seconda parte salgono al proscenio senza forzare troppo i toni. C'è una certa misura, in generale, nella vena dei Silhouette, che evita le forzature. Solo in "Grendel Memories" il tema si appoggia a tratti sul chitarrismo "heavy" di De Graeve, in una scrittura più sanguigna ed enfatica, pur dentro la consueta cornice delle tastiere: è un pezzo basato sui contrasti, con un grande lavoro della batteria. Dinamico e vivace è pure l'epilogo di "Don't Stop the Movie", che sfiora i dodici minuti: in uno spartito davvero molto articolato si segnalano un flauto leggiadro e il pianismo delicato di Laan sotto la voce, prima che il pezzo decolli su ritmi più sostenuti e la graffiante chitarra solista si avventuri in lunghe combinazioni con il synth.
Dovendo tirare le somme, "Across the Rubicon" merita attenzione soprattutto da parte di chi porta nel cuore un certo prog più delicato e romantico, solido ma non troppo sofisticato nelle sue architetture di base. E' un un disco di piacevole ascolto, arioso e melodico, con brillanti parti vocali: se questo è quello che cercate, la ricetta dai Silhouette non vi deluderà.

Per informazioni e contatti: www.silhouetteband.nl/site/
Big Big Train - "English Electric (Part One)" (GEP, 2012)
Perché mai cambiare una formula che già si è rivelata vincente? O meglio ancora: perché snaturare inclinazioni creative che da sole bastano a definire e sviluppare il proprio mondo musicale? E' quanto, evidentemente, si sono detti i Big Big Train degli ultimi anni, una volta trovato l'equilibrio perfetto intorno al cantante David Longdon: questo accadeva nel 2009, quando uscì lo splendido
"The Underfall Yard".
Ovviamente i detrattori, che non mancano mai, torneranno a obiettare che il gruppo inglese ha semplicemente rispolverato stilemi di rock romantico e favolistico che hanno nei Genesis gli indiscussi capostipiti: a mio avviso, però, la differenza tra le molte operazioni di pura "clonazione" della band di Peter Gabriel e il discorso portato avanti da Greg Spawton e compagni sta nella profonda adesione che anima il loro progetto sonoro. Ascoltando il nuovo album, come i precedenti, si ha la migliore conferma di come certe influenze non siano frutto di calcolo, ma costituiscano invece un bagaglio lirico-espressivo che la band ha ormai fatto proprio, direi perfino interiorizzato. Si sente, insomma, che i Big Big Train credono in ciò che suonano e propongono, comunque, in base alla propria sensibilità artistica.
Entrando adesso nel merito di "English Electric (Part One)", i brani che lo compongono sono otto, e come al solito niente è lasciato al caso, con una cura delle sfumature e degli arrangiamenti che contribuisce non poco alla bellezza dell'insieme. La musica del gruppo nasce da un lavoro certosino, davvero ammirevole, quasi fosse chiaro ai musicisti che non bastano le idee, o la tecnica individuale, a fare la bontà di una produzione musicale, perché proprio la cura di ogni singola cellula sonora è comunque indispensabile alla riuscita finale. C'è in questo un rispetto profondo per il pubblico e, soprattutto, un amore vero per il proprio lavoro di artisti.
Il risultato di tanta dedizione lo si vede fin dal brano d'apertura, "The First Rebreather", che figura certamente tra i vertici di un album senza veri punti deboli. La multiforme vocalità di Longdon è al centro di un seducente arazzo a più strati, dominato dalle sonorità del sinth in un fitto gioco di pause e ripartenze, con deliziosi inserti di flauto, piano e chitarre: l'arrangiamento del pezzo ha qualcosa di arioso e al tempo stesso maestoso, anche per la decisiva presenza degli archi, orchestrati a dovere dal chitarrista Dave Gregory. Un'altra carta vincente del disco è appunto la nutrita schiera di ospiti che rimpolpano la strumentazione base dei singoli episodi con effetti sostanziali e non, come spesso accade, meramente decorativi. Cito ad esempio la bella "Summoned By Bells", subito situata dal canto solista e dal pianoforte in una dimensione nostalgica che cattura: ancora gli archi, ma stavolta soprattutto i fiati (cornetta, tuba e trombone) conferiscono al pezzo un colore davvero inconfondibile, in un lungo finale da brividi. La stessa sezione-fiati, tra l'altro, offre un contributo eccellente alla chiusura di "Hedgerow", che parte a tambur battente per evolvere quindi in una sontuosa partitura arricchita dalle belle voci corali e dal languido timbro degli archi.
In una sequenza che scorre per la maggior parte all'insegna di un moderno rock sinfonico dalle mille sfumature, "Uncle Jack" occupa un posto a parte: qui il testo, che rimanda all'infanzia del cantante, è abbinato a un tema più scanzonato, scandito soprattutto dagli strumenti a corda (banjo, mandolino) in una sorta di vivace filastrocca dove il gioco sempre pregevole delle voci risulta decisivo. Se i richiami al passato familiare dei singoli e alla storie della vecchia Inghilterra, quella più provinciale e nascosta, fanno da sempre parte integrante dell'immaginario del gruppo, in questo album non mancano certo i riferimenti più curiosi. A parte la soffusa rievocazione di "Winchester From St Giles' Hill", uno tra i pezzi più delicati con un flauto leggiadro al proscenio, spicca tra gli altri "Judas Unrepentant", dedicato alla figura di Tim Keating, famoso soprattutto per aver spesso falsificato dipinti allo scopo di "destabilizzare" il mondo dell'arte. Musicalmente, lo spunto favorisce uno schema musicale più dinamico, dal ritmo sostenuto, con organo e percussioni in evidenza, ma con una fascinosa parentesi classicheggiante che vede ancora flauto e archi sugli scudi.
Stiamo parlando di un disco di così alto livello da rendere problematico fare una graduatoria di merito tra i singoli episodi, se non in base al proprio gusto personale. Tra i momenti migliori della raccolta, secondo me, c'è "A Boy in Darkness", dove il violino e il pianoforte introducono e punteggiano un tema misterioso, intervallato però da vigorosi picchi rock e dal canto sempre ad effetto di Longdon: la trama frastagliata, che procede tra pieni e vuoti di grande impatto drammatico, dimostra tutto il talento della band britannica, qui assistita all'organo da Andy Tillison (The Tangent).
Tirando le somme, se avete amato le ultime prove dei Big Big Train, "English Electric" non vi deluderà di certo: anzi, aspetterete con ansia la seconda parte del progetto, già prevista per Marzo 2013. Nel frattempo, però, gustatevi in ogni sua nota la spettacolare ricetta imbandita dal gruppo di Bournemouth, alla quale sarà davvero difficile resistere: questo infatti è un altro disco imperdibile.

Informazioni: www.bigbigtrain.com/
Mogador - "Absinthe Tales of Romantic Visions" (Mentalchemy Records, 2012)
Mogador è il nome di questo trio originario di Como, attivo ormai da qualche anno e ora giunto al terzo appuntamento discografico. Rispetto al precedente "All I Am Is of My Own Making" (2010), la formazione ha perso il bassista Paolo Pigni e guadagnato un nuovo cantante come Marco Terzaghi: cambiamenti che non hanno alterato, a prima vista, la propensione stilistica del gruppo per un rock romantico che guarda ancora agli anni Settanta. I dodici episodi (più una ghost track) del nuovo album accentuano anzi questa vocazione di Richard Allen e compagni: in particolare i testi, quasi tutti in lingua inglese, sono in gran parte riprese di poeti romantici dell'Ottocento come Byron e William Blake, passando per Christina Rossetti e Edgar Allan Poe, fino a Baudelaire. L'assenzio citato nel titolo, del resto, aiuta a entrare nel mondo espressivo del disco: è un vero tributo alla fantasia creativa di artisti che in questa bevanda alcolica cercavano conforto o nuovi stimoli per una vena momentaneamente sopita.
E' interessante notare, però, come uno spunto tematico di questo genere si rifletta in maniera abbastanza variegata nelle scelte musicali, tutt'altro che monocordi. In effetti Luca Briccola, che oltre alle tastiere si disimpegna tra chitarre, basso e flauto, ha composto musiche piuttosto versatili, come adeguandosi di volta in volta al contesto lirico-testuale: ne risulta una sequenza vivace, ma dall'andamento altalenante e non sempre convincente. Sul versante più strettamente prog, si segnalano episodi dominati dalle tastiere come lo strumentale d'apertura "Whispers To The Moon", con un pianoforte classicheggiante in primo piano e serrate incursioni della batteria di Allen, e poi "Dreamland", un compatto hard prog con belle parti di chitarra, piano e synth intorno all'incisivo canto solista. Meno riuscita invece la lunga "Prometheus", con l'organo, il piano e il synth affiancati dalla chitarra ruggente in uno dei momenti più singolari del disco: una sorta di cavalcata sincopata e ansimante, con improvvise fratture ritmiche, che abbraccia insieme dark prog, suggestioni gotiche e schitarrate in perfetto stile hard rock. Troppa grazia...
Nel mezzo, stanno invece esempi di musica trasversale, più o meno risolti. Emblematica ad esempio "Where Were Ye All?", una composizione aperta da una chitarra carica di effetti e dal cantato di Terzaghi, finché organo e flauto, con l'ausilio di una batteria marziale, dirottano il pezzo verso un rock più potente. "Alone", cantata stavolta dall'ospite Gabriele Bernasconi, ricorda invece certe cose del Peter Hammill più introspettivo, con un pregevole lavoro del pianoforte e l'arrangiamento che si apre arioso sul cantato melodico. E' uno dei brani più equilibrati e riusciti dell'album, che spesso, al contrario, sembra voler mettere troppa carne al fuoco, nel pur lodevole tentativo di evitare gli stereotipi del prog d'annata. "Hardships", per dire, è l'unico testo firmato da Richard Allen, e parte come una classica ballata d'ispirazione folk, costruita sulle note del basso e sulla bella voce di Terzaghi, ma quasi subito sterza verso un rock aggressivo spezzato da parti di piano. Anche qui, alla fine, si ha l'impressione che manchi un dosaggio più accorto delle singole parti e nello sviluppo del tema di base, anche se la chitarra solista di Briccola graffia a dovere.
Tra alti e bassi, insomma, i momenti più efficaci sono quelli più brevi e lineari, senza troppi svolazzi in sede di arrangiamento. Su tutti, cito la delicata "She Sat And Sang", soavemente cantata dalla brava Agnes Milewski: è una splendida folk-song, con la chitarra acustica e il basso sotto la voce, e l'apporto pregevole del flauto e del violino di Filippo Pedretti. Ancora più breve, ma ugualmente felice, è "The Sick Rose", con la voce dell'altro ospite Jon Davison, noto vocalist di Yes e Glass Hammer.
"Absinthe Tales of Romantic Visions", per concludere, è un disco raffinato e di sicuro interesse: si nota che i Mogador hanno molte idee e anche discreti mezzi per tradurle in musica. Il solo problema, al momento, è nella capacità di mettere a fuoco il loro potenziale in una direzione più riconoscibile, senza dissiparlo in un rassegna di umori troppo diversi per andare a segno. In ogni caso, senz'altro un gruppo da seguire.

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Informazioni: www.mogadormusic.com/
Rush - "Clockwork Angels" (Roadrunner, 2012)
Ci sono poche band longeve e coerenti, pur nei cambiamenti, come i canadesi Rush nel panorama rock degli ultimi decenni. Lo conferma il loro nuovo disco di studio, cinque anni dopo "Snakes & Arrows": ancora nella classica formazione da power trio che li ha visti inanellare molti successi fin dagli anni Settanta, Geddy Lee, Alex Lifeson e Neil Peart si ripropongono oggi con un nuovo concept-album di tutto rispetto, che ne conferma in pieno il talento.
Il tema portante di "Clockwork Angels" è la lotta per affermare i propri ideali in un mondo che sembra fare di tutto per mortificarli all'interno di un più comodo conformismo. Il tema della libertà, dunque, è ancora al centro della musica dei Rush, come in fondo accadeva in altri loro dischi, cominciando dal famoso "2112", l'album pubblicato nel 1976 che fu un po' la loro consacrazione. Questa volta la fertile mente creativa del batterista Neil Peart ha focalizzato però il discorso s'un singolo individuo, in dodici capitoli che ne illustrano la strenua capacità di superare gli ostacoli che si frappongono tra lui e l'affermazione dei propri sogni. Il racconto sembra ambientato in una dimensione dove coesistono elementi apparentemente lontani tra loro, in uno scenario di consapevole anacronismo che oggi si definisce "steampunk", una variante della fantascienza di grande attualità. Questo assicura l'interesse del plot concettuale, ma come sempre bisogna vedere come funziona la parte strettamente musicale del disco.
Fin dall'apertura maestosa e tesa di "Caravan", intanto, ci si accorge che la potenza sonora del trio è ancora integra: la voce solista del bassista Lee non ha perso grinta e comunicativa, così come la forza dei riff melodici, che si aprono per dare respiro al ritmo sostenuto del pezzo, dove basso e batteria girano a pieno regime e la chitarra solista di Lifeson si riserva ficcanti incursioni nella trama strumentale. Grande apertura, insomma, che resta tra i momenti più felici della sequenza.
Assecondando le fasi emotive di questo viaggio alla rincorsa dei propri sogni, la musica sa evolversi e cambiare pelle con bella naturalezza, senza smarrire mai il filo rosso dell'intensità sonora. Lo dimostrano ballate d'atmosfera come "Halo Effect", con la chitarra acustica che sale al proscenio sotto la voce solista, e il supporto morbido delle tastiere che aggiunge un tocco più evocativo al pezzo. Nella breve "BU2B2" addirittura il canto e gli archi intavolano un incalzante gioco dialogico che esclude le percussioni per creare un intrigante clima di attesa. Dimostrazioni di classe e duttilità strumentale che tengono sempre desto l'interesse, senza pause o momenti di stanca. Tra gli episodi di rock più tirato e compatto, che restano in ogni caso dominanti, si segnalano soprattutto "The Anarchist", scandito dal metronomo impeccabile delle percussioni e dalle sonorità vagamente orientali degli archi, il rock'n'roll melodico di "Wish Them Well", che va dritto al sodo senza fronzoli, fino alla brillante "Seven Cities of Gold", con il pesante riff chitarristico da manuale del rock. Nella stessa scia, ma se possibile ancora più martellante, scorre pure la granitica "Headlong Flight", con il basso in bella evidenza.
Altrove la ricetta del trio dispensa momenti meno canonici: è il caso della title-track, più sofisticata e ricca di sapori quasi cosmici, con l'accoppiata tra la parte vocale e il chitarrismo psichedelico di Lifeson che trova un fascinoso punto d'equilibrio, tra pause e ripartenze di grande effetto. Si chiude con "The Garden", altro momento più raccolto che tira le fila del racconto: la chitarra acustica, il pianoforte e gli archi sono la base ideale per la voce di Geddy Lee, calda e intensa quanto serve nel cuore del bellissimo crescendo finale. Un sigillo di raffinata bellezza per un album che forse, a voler essere pignoli, manca solo di un pezzo memorabile, il classico hit ad impatto immediato, per essere perfetto.
L'impressione in realtà è che i Rush, stavolta, abbiano lavorato maggiormente sulla tenuta complessiva del disco, nulla lasciando al caso, in un encomiabile lavoro compositivo, magari chiedendo all'ascoltatore qualche sforzo in più per afferrare la qualità profonda del loro progetto. Ne vale la pena, comunque: "Clockwork Angels" è infatti un'altra perla aggiunta alla ricca e invidiabile discografia di questo trio di musicisti esemplari.

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Syndone - "La bella è la bestia" (AMS/BTF, 2012)
I nuovi Syndone di Nik Comoglio, rientrati nel giro dopo anni di silenzio con l'ottimo
"Melapesante" (2010), tornano ora alla ribalta con un altro progetto di grande interesse. "La bella è la bestia" è come il precedente un concept-album, che stavolta però attinge al repertorio fiabesco, recuperando per la precisione la versione settecentesca della celebre novella a cura del francese Leprince de Beaumont.
Intanto, va sottolineato, il gruppo è diventato un trio che oltre al tastierista include il percussionista Francesco Pinetti e naturalmente il cantante Riccardo Ruggeri: nel disco suonano in realtà anche collaboratori più o meno organici della formazione, come il bassista Federico Marchesano, il batterista Pino Li Trenta, fino ad un ospite d'eccezione come Ray Thomas, storico flautista dei vecchi Moody Blues. Di volta in volta, secondo le circostanze, sono pure impiegati la sezione fiati del Gomalan Brass Quintet (in "Il fiele e il limite" ad esempio), oltre ad un quartetto d'archi e all' Orchestra Filarmonica di Torino. Un dispiegamento di mezzi notevole, che potrebbe ingenerare il sospetto di un progetto altisonante e pomposo, come molti se ne contano nella storia del rock progressivo: invece no, per fortuna, ed è questo uno dei molti meriti del disco.
Fin dalla piccola ma importante variante contenuta nel titolo, il gruppo offre della fiaba una rilettura critica e tutt'altro che canonica: perché, come canta Ruggeri ad un certo punto, "quel che sembra a volte non è", e dunque ognuno dei personaggi svela qui le sue potenziali ambiguità. Lavorando a fondo sui testi, l'operazione rifugge ogni retorica passatista o meramente filologica: al contrario, la dimensione classica della favola è solo uno scheletro che i Syndone rimpolpano con un modernissimo scavo concettuale che attualizza, umanizzandolo, il nucleo profondo dei caratteri e le loro pulsioni latenti, trovando infine nella Rosa (la bellezza pura e autosufficiente) il perno fondamentale della loro visione. Tutto questo, oltretutto, di pari passo con una trama sonora articolata attraverso un ammirevole sincretismo di stili (jazz, musical, lirica, rock, sinfonica) che suona incredibilmente scorrevole e godibile, evitando prolissità o citazionismi fuori luogo, dato che la sintesi, evidentemente, è una delle qualità del gruppo.
In tutto questo, fin dall'apertura di "Introitus", smagliante e anomalo jazz-rock segnato dal timbro gotico dell'organo, ha un ruolo fondamentale il grande eclettismo di Comoglio: impegnato soprattutto all'organo, al piano e al synth, il tastierista costruisce una base strumentale agile quanto variegata, che si mostra ideale per le parti cantate di Riccardo Ruggeri. Il cantante è in effetti l'altra colonna portante dell'album: non solo perché ovviamente dà voce ai vari personaggi (Belle, la Bestia, il Narratore, il Padre, la Rosa), ma soprattutto perché nella sua performance sfodera un'impressionante capacità di sfumature timbriche, restituendo i contrasti emotivi del racconto con magnifica duttilità e padronanza assoluta della voce.
Onestamente, è davvero arduo esprimere una preferenza per uno dei dodici capitoli del disco, tanto la sequenza suona ben amalgamata e risolta, pur nell'ampia gamma delle scelte espressive: mi piace citare la splendida tessitura di "Rosa recisa", che tiene insieme con finezza pianismo romantico e inflessioni fusion, con parti vocali da brivido, le morbide percussioni di Pinetti (ottimo in tutto l'album tra vibrafono e marimba), e il colore funzionale degli archi. Impossibile però non segnalare il cantato di Ruggeri in "Mercanti di gioia", grintoso quanto ricco di sfumature, o in "Complice carnefice", tra i momenti più francamente rock, con Comoglio che "imita" la chitarra elettrica e una parte testuale particolarmente mordente. S'un versante più intimista, è stupenda "Tu non sei qui", con il pianoforte delicato sotto la voce che recita versi struggenti, modulati con felice grazia melodica sul morbido tappeto di un flauto incantato. Tra gli episodi migliori segnalo anche uno strumentale come "La ruota della fortuna", con pianoforte e violoncello protagonisti assoluti: è musica raffinata, quasi cameristica, ma suonata con ammirevole freschezza, che cattura senza fatica nei suoi vortici eleganti.
In realtà, ogni citazione specifica fa torto al resto del disco, perché "La bella è la bestia" è davvero, come poche volte accade, una sequenza veramente omogenea dove ogni singola parte, vocale e strumentale, rispecchia la profonda unità del progetto aperto concepito dai Syndone: un disco di ricchezza inusuale e senza confini, registrato a Londra con impeccabile puntiglio, meravigliosamente suonato da cima a fondo e con una voce tra le più belle oggi in circolazione. In una parola sola: un capolavoro.

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Astra - "The Black Chord" (Rise Above Records, 2012)
Gli Astra, americani di San Diego, approdano finalmente alla seconda prova dopo l'esordio di "The Weirding" (2009). Se per quel disco si era parlato a ragione di "retro-prog", per i molteplici richiami al tipico sound degli anni Settanta, si può dire che "The Black Chord" conferma quest'indirizzo, ma con alcune varianti da sottolineare.
Il quintetto, sempre capeggiato da Richard Vaughan (voce, tastiere e chitarra) e Conor Riley (voce e tastiere), non fa niente per celare le proprie ambizioni e i propri riferimenti, ma in questo nuovo album offre uno spaccato più sintetico del proprio repertorio, evitando alcune prolissità troppo indulgenti a livello strumentale, e questa scelta giova sicuramente al risultato complessivo: i brani appaiono più ficcanti e dinamici nello sviluppo, sia pure lasciando inalterato il gusto di un progressive fedele ai propri numi tutelari. La splendida apertura di "Cocoon", una trama psichedelica che si fa strada tra spirali di vento, è un manifesto strumentale di taglio visionario, con il gioco del synth e della chitarra solista di Brian Ellis ben distribuito e rilanciato senza posa dall'energico lavoro del batterista David Hurley. Una sorta di scintillante jam strumentale senza confini, farcita con esotici richiami all'epopea dello space rock d'annata, dove grinta esecutiva e qualità tecnica si danno la mano per un risultato di grande effetto.
Negli episodi cantati, la band dimostra di saper metter in campo una sapiente architettura compositiva: ad esempio "Quake Meat", dalle sonorità squisitamente "dark", che s'inerpica sui tornanti acuminati delle chitarre e il synth che inventa pause fascinose, mentre il canto filtrato a dovere aggiunge un pizzico di tensione all'insieme. Un brano eccellente, tra i picchi della sequenza. "Drift" nasce invece come una placida ballata, con la chitarra acustica in primo piano con la voce, prima di decollare sulle ali del mellotron verso una dimensione di maestoso romanticismo all'insegna del più classico prog sinfonico. Nella stessa linea s'inscrive anche la lunga title-track, guidata dal pianoforte in una prima parte elegante e preziosa, che prelude ad una serie di ficcanti breaks ritmici, ancora segnati dal synth e da giri viziosi di chitarra. E' una composizione articolata tra parentesi soffuse intorno alla voce e accelerazioni di grande impatto, che lasciano intravedere tutta la potenza sonora di cui la band americana è capace.
In questi momenti appare anche chiaro come le influenze settantiane non siano qui un mero espediente senz'anima, quanto un vero marchio di fabbrica del quintetto: prendere o lasciare come si dice, ma è veramente difficile non apprezzare una proposta sonora elargita con tanta ammirevole dedizione dall'inizio alla fine.
In effetti, anche dove più precisi affiorano echi di modelli illustri, come nella chiusura di "Barefoot in the Head", introdotta da un infuocato strumentale come "Bull Torpis", il discorso non cambia. Nonostante le belle parti vocali che ricordano i Pink Floyd e una deriva strumentale ossessiva sulle tracce di Rober Fripp, resta l'impressione dominante di un disco suonato magistralmente e solo per seguire un'ispirazione in qualche modo necessaria, perché evidentemente scritta nel DNA musicale del gruppo. La differenza tra i tanti cloni prog in circolazione e la proposta degli Astra è tutta qui, e va considerata un valore aggiunto di "The Black Chord": più conciso e meglio focalizzato del suo predecessore, ma soprattutto sempre più consapevole di aver trovato la giusta strada, è un album da non perdere.

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Inner Ear Brigade - "Rainbro" (AltrOck, 2012)
Inner Ear Brigade è un nuovo gruppo che arriva dalla California, e mostra in questo album d'esordio un potenziale sonoro di tutto rispetto, a tratti sorprendente. Si tratta di una band a struttura aperta, basilarmente un sestetto con diversi ospiti aggiunti, e alquanto disinvolto nelle sue scelte sonore, destreggiandosi con uguale bravura tra jazz, pop, funk, melodia e richiami propriamente prog: il loro disco, in questo senso, può anche disorientare sulle prime, ma finisce poi per conquistare con le sue innegabili qualità.
Per entrare nelle alchimie di "Rainbro", anzitutto, è necessario sgombrare il campo dalle distinzioni più rigide tra i generi e gli stili, poiché questi americani mostrano fin dalla ricca strumentazione, che include una sezione fiati (sax, clarinetto, tromba), tastiere vintage accanto a quelle elettroniche, chitarra e vibrafono, che si può fare grande musica senza etichette di sorta, per il puro piacere di creare atmosfere aperte e davvero senza confini. Ognuno, si capisce, sarà in grado di cogliere richiami al progressive più vintage: ad esempio, anche per l'uso della voce femminile, affiora qualche spezia dell'epopea canterburyana (
Hatfield and the North in testa), ma in linea di massima l'ispirazione della Brigata dell'Orecchio Interiore è piuttosto originale. Lo si nota fin dall'apertura di "Knee": lo scorrevole tessuto ritmico, tra piano elettrico e chitarra, è arricchito da cromatismi elettronici, inserti di sax, ma soprattutto si giova della voce di Melody Ferris, brava in tutto il disco a spruzzare il suo timbro elegante sulle atmosfere musicali dei compagni. Bella anche "Missing the Train", dove questo schema si fa ancora più esplicito, con un tocco di sorridente leggerezza che valorizza la duttile tessitura del tema, sempre in bilico tra sfumature jazzate, melodia e arioso space-rock.
Sebbene la band faccia della compattezza la sua arma vincente, senza puntare sul virtuosismo fine a se stesso, il talento dei singoli finisce comunque per venir fuori. "Too Good to be True", per esempio, mette in luce soprattutto il pregevole chitarrismo di Bill Wolter, che guida le danze in una partitura deliziosa, sorretta da una dinamica base ritmica che senza forzare fa da filo rosso all'intera proposta. I fiati di Ivor Holloway sono l'altra colonna portante del gruppo, ad esempio in "Somnambulist Subversion", tra i momenti migliori insieme al raffinato "Forgotten Planet", dove l'impronta jazz si fa più esplicita pur senza scadere nell'accademismo, con il corposo apporto della tromba di David Shaff e i consueti effetti elettronici a colorare un pezzo che vive di pause e riprese ad effetto.
In effetti, tutti i brani del disco si somigliano un poco nell'impostazione di fondo, a riprova che siamo di fronte a una band già dotata di una sua personalità, oltre che evidentemente fornita di mezzi tecnici notevoli. Ci sono tracce che vivono di raffinate sfumature strumentali, come la pregevole "Dirty Spoons", e altre dove il registro è più corposo: ad esempio la title-track, costruita sulle ruggenti cadenze della chitarra, inserite però nella preziosa cornice di mellotron ed effetti sintetici, oltre al timbro felpato del vibrafono, mentre la voce solista conferisce all'insieme la sua grazia melodica. Insomma, ogni episodio di "Rainbro" vive all'insegna di un'estrema varietà di toni e influenze, ma così abilmente amalgamati, senza bruschi stacchi o pretese di strafare, che nulla suona mai fuori posto o gratuito. Non è affatto facile ottenere un risultato del genere, fluido e complesso al tempo stesso, e dunque va sottolineato.
Anche il sigillo del disco, "25 Miles to Freedom", con i suoi dieci minuti e passa, riassume in maniera eccellente lo spirito creativo che anima questi validi musicisti: la voce femminile si muove leggiadra sulle increspature della musica, e il sottile crescendo ritmico giocato sui fiati e le percussioni, con inserti di piano, mellotron e viola, conferma senza ombra di dubbio che Inner Ear Brigade deve considerarsi tra le più rinfrescanti novità musicali dell'ultimo periodo. Il disco è da avere, e il gruppo da seguire con interesse.

Per informazioni e contatti: innerearbrigade.com/
Alias Eye - "In-Between" (Quixote - Progrock Records, 2012)
Band tedesca, gli Alias Eye sono attivi dal 1998 e questo è il loro quarto disco. Come molti gruppi di quella scena, suonano un progressive che tende a miscelare nello stesso piatto melodie accattivanti e sonorità più "heavy", che strizzano l'occhio al metal meno estremo. In effetti, "In-Between" sembra accentuare questa seconda tendenza, mettendo da parte gli arrangiamenti più complessi in favore di un rock più basico e diretto.
Il quintetto di Mannheim punta essenzialmente sulla vivace chitarra solista di Matthias Wurm, che spadroneggia in quasi tutti brani con discreta verve, ma anche sulla bella voce solista di Philip Griffiths, che sa muoversi con bravura nei diversi registri che la scaletta propone. Il nome del cantante farà venire in mente ai meno giovani quello del padre, Martin Griffiths, a sua volta vocalist della progband scozzese
Beggars Opera: e infatti è proprio lui a cantare in prima persona la cover di "Time Machine", suo noto cavallo di battaglia negli anni Settanta ("Waters of Change", 1971). Una versione abbastanza fedele all'originale, nel complesso, che al tempo stesso rimarca tutto il tempo trascorso tra due esperienze piuttosto diverse.
Il suono degli Alias Eye segue infatti una via di mezzo tra le sonorità prog più genuine e un rock più "mainstream", con l'effetto, a volte, di una certa incompiutezza. Anche se poi, va detto, tra le dieci tracce del disco ci sono momenti interessanti che mostrano se non altro una band tecnicamente in regola, con buone carte da giocare. Decisamente di buon livello, ad esempio, è l'apertura di "Arabesque", con l'intro languida per pianoforte e voce, prima che il pezzo decolli sulle dure cadenze dettate dalla chitarra e dal buon lavoro percussivo di Ludwig Benedek, e le coloriture puntuali delle tastiere di Tilmar Fischer, in un impasto corposo che include anche il sax. E' probabilmente il picco di una sequenza che in realtà presenta alti e bassi in ugual misura.
Altrove, si segnalano invece sanguigni episodi in odore di prog-metal, come "Intendured Pride", ben cantata da Griffiths e costellata dai focosi assolo di Wurm, o anche "All the Rage", arricchita da effetti sintetici. Più interessante un brano come "Take What's Mine", col piano elettrico che fa da raccordo alle tirate chitarristiche e alla brillante voce solista, che rimane il valore aggiunto della band germanica.
Tra le ballate più o meno canoniche, nelle quali il cantante ha modo comunque di far valere le sue doti d'interprete in un contesto più raffinato, è molto bella "Stars Shall Fall", con il testo dominato da un romantico lirismo, e un adeguato arrangiamento orchestrale guidato dal pianismo classicheggiante di Fischer. Le due anime del gruppo provano anche a trovare un punto d'incontro, ad esempio in "Break What We Know", tra pause atmosferiche e ripartenze dal ritmo serrato, con le coloriture aggiunte del synth. Il risultato, però, convince solo in parte.
Sostanzialmente, nonostante le qualità di base e la grinta che trasuda da ogni segmento del disco, "In-Between" resta una prova interlocutoria, che soddisfa solo in parte e lascia qualche punto interrogativo. Agli Alias Eye, probabilmente, serve ancora un certo lavoro per individuare la giusta chiave espressiva che tenga insieme i sussulti metal e le parentesi melodiche di fattura classica, che al momento compongono un'ispirazione vivace, e spesso apprezzabile, ma non sempre focalizzata a dovere. In estrema sintesi: c'è del talento, ma non c'è ancora uno stile.

Per informazioni e contatti: www.aliaseye.com/
Discipline - "To Shatter All Accord" (Strung Out Records, 2011)
Guidati dal carismatico Matthew Parmenter, responsabile di splendide prove solistiche come
"Horror Express", i Discipline tornano finalmente alla ribalta dopo lunghi anni di silenzio, seppure interrotti da alcuni documenti live: in alcuni di questi, va detto, erano apparse tre delle tracce che oggi vengono qui riproposte insieme a due nuove creazioni. In ogni caso, il ritorno della band di Detroit merita il più ampio risalto e a mio avviso, anzi, s'impone come uno degli eventi dell'ultima stagione.
Ognuno dei cinque brani del disco lascia il segno a suo modo, ribadendo la forte personalità del quartetto americano. Già dall'apertura di "Circuitry", costruita sui riff di una chitarra molto "heavy", si viene catturati dalla sapiente articolazione di un suono incisivo e sofisticato al tempo stesso: eccellente come sempre la voce solista di Parmenter, in uno schema che include un pianoforte ipnotico insieme al sax, e cresce progressivamente d'intensità. Una partenza notevole, ma è solo l'inizio. Sulle note del piano, si scivola nel successivo episodio, "When the Walls are Down", che acquista subito spessore grazie alla chitarra particolarmente acida di Jon Preston Bouda, mentre il canto solista illustra apocalittici scenari urbani con inconfondibile accento drammatico.
Quella dei Discipline è una musica potente, visionaria e a volte sinistra, suonata però con mirabile varietà di accenti, senza sbavature, e un'intensità che non lascia mai indifferenti. Accanto ai momenti più forti, non mancano ovviamente le parentesi più introspettive, nelle quali Parmenter fa valere le sue straordinarie doti d'interprete. E' proprio il caso di "When She Dreams She Dreams in Color", impostata su tonalità più morbide: piano, chitarra e una soffusa sezione ritmica, quasi jazz, fanno da base alla bella voce solista nella prima parte, finché una frattura introduce, a sorpresa, un clima decisamente incombente, scandito da chitarra e violino, e colorato da un magnifico mellotron, che richiama le pagine più belle dei secondi King Crimson. Molto bello.
Più nervosa e mobile è la tessitura strumentale di un brano come "Dead City", un rock atipico dove si apprezza soprattutto la ritmica stringente del batterista Paul Dzendzel e, al solito, gli inserti chitarristici di Bouda sullo sfondo visionario di mellotron e synth: forse meno impressionante degli altri episodi del disco, almeno al primo ascolto, è invece un saggio eloquente sulla versatilità stilistica della band statunitense, che possiede davvero molte frecce al suo arco.
E' comunque la lunga coda dell'inedita "Rogue" a riassumere, focalizzandole in uno spartito di grande complessità, le migliori potenzialità del quartetto. Divisa in dieci scene, è una composizione stratificata dai molti livelli, con un crescendo drammatico del testo e della musica che trascina nei suoi vortici senza rimedio: eccezionale la duttilità vocale di Parmenter, capace di cimentarsi in ogni registro con identica efficacia, mentre la band lo asseconda come meglio non si potrebbe. Puntuale e graffiante come sempre il chitarrismo di Bouda, specie nel fianco di un mellotron dal maestoso timbro decadente, ma da sottolineare anche il lavoro impeccabile del duo ritmico che non perde un colpo nelle fasi più concitate. In un'alternanza mozzafiato di atmosfere sinistre e misteriose, tra pause evocative e ficcanti riprese, "Rogue" chiude l'album in maniera veramente grandiosa.
Onestamente, non si ascoltano troppo spesso dischi del genere, suonati con la stessa intensità dal principio alla fine: i Discipline sono tornati davvero alla grande, e c'è da sperare che stavolta non si facciano desiderare troppo a lungo prima di regalarci ancora musica di questo spessore. Da non perdere.

Informazioni: www.strungoutrecords.com/
Yes - "Fly From Here" (Frontiers Records, 2011)
La storica sigla degli Yes tiene ancora banco nel progressive di oggi, oltre quarant'anni dopo la sua prima apparizione, e dopo varie vicissitudini che ne hanno mutato poco a poco il profilo e l'organico. Il disco in questione, il ventesimo di studio, presenta una formazione a cinque, con il cantante canadese Benoît David e Geoffrey Downes alle tastiere che affiancano il trio degli inossidabili Howe, Squire e White.
L'impressione, ascoltando "Fly From Here", è che la band inglese insista ancora nel solco dei suoi fasti maggiori, datati anni Settanta, anche se l'ispirazione è fatalmente meno brillante di allora: gli ingredienti di base, insomma, sono sempre quelli di un tempo, ma intanto la scena musicale è radicalmente cambiata aprendo nuovi orizzonti, così che lo stile-Yes suona oggi più prevedibile, a tratti perfino polveroso dietro la confezione più accattivante. La suite che intitola il disco, ad esempio, divisa in sei tempi inclusa l'ouverture, ricalca le composizioni tipiche della golden era del prog, con il motivo portante costituito dal refrain del pianoforte che attraversa momenti intimisti e accensioni ritmiche distribuite con puntigliosa varietà. Il timbro vocale di David è schiettamente modellato su quello di Jon Anderson, e il fatto stesso che il nuovo cantante suonasse in una tribute-band degli Yes (Close to the Edge) la dice lunga sul tentativo di non abbandonare una storia così gloriosa, muovendosi comunque s'un terreno già noto e vincente.
Con minore enfasi, e melodie più ariose, "We Can Fly", primo movimento della suite, ripropone un progressive di buona verve ritmica, con il chitarrismo pirotecnico di Howe che rimpolpa la linea strumentale. Discreto il risultato, ma sono più efficaci a mio parere le parentesi di raccolto lirismo, come "Sad Night at the Airfield", protagonista la chitarra acustica insieme alla voce malinconica di David: è un saggio ad effetto, molto evocativo, delle capacità dei nuovi Yes. Il momento della composizione più vivace è comunque "Madman at the Screens", con la buona verve del tastierista in primo piano e il ritmo sempre sostenuto, con pause e riprese ben congegnate. L'architettura sonora dei singoli pezzi denota il mestiere dei cinque, il dosaggio assortito di toni e spunti individuali per sfruttare il tema principale in tutte le sue possibilità: ma quello che suonava un tempo fresco e sorprendente, appunto, somiglia oggi ad una formula antica riverniciata a nuovo.
Detto questo, il resto dell'album offre ancora spunti di qualche effetto, sia pure senza toccare punte realmente innovative. Se "The Man You Always Wanted Me To Be" è una ballata gradevole, con le parti vocali affidate stavolta a Chris Squire, ma niente di più, "Life on a Film Set", al contrario, rimane un limpido manifesto di classe, ancora giocato sulle corde acustiche di Howe e il canto intimista di David, cullato qui dallo sfondo delle morbide tastiere di Downes, finchè il pezzo s'impenna ritmicamente con il vivace apporto della chitarra elettrica. Steve Howe in effetti si conferma uno strumentista poliedrico, sempre inventivo e interessante, come nel breve "Solitaire", tutto in chiave acustica, che riecheggia celebri partiture degli anni d'oro, come "Mood for a Day" ("Fragile", 1971). Si può affermare senz'altro che il meglio della sequenza, in fondo, vada ricercato proprio nelle mani talentuose del solista.
Anche la chiusura di "Into the Storm" riporta alla mente la band dinamica e inventiva che a suo tempo fece coniare la definizione di flash-rock, con il buon lavoro di synth e chitarra s'una tirata base ritmica increspata poi da piccole trovate strumentali. In generale, "Fly From Here" è un lavoro che non manca del tutto di attrattive, considerando anche l'ottimo livello della produzione, ma è facile immaginare la perplessità di quanti sono cresciuti alla corte di questo grande gruppo che ha fatto la storia del rock sfornando per anni dischi epocali. Non solo è giusto, ma doveroso pretendere di più dai primi della classe: noblesse oblige...
Informazioni: www.yesworld.com/
Karmakanic - "In a Perfect World" (InsideOut, 2011)
Gli svedesi, quando si tratta di prog, ci sanno fare davvero: i Karmakanic lo dimostrano con questo loro quarto disco di studio, che dietro un'apparenza molto classica svela una band preparata, che sa muoversi su diversi fronti con bella disinvoltura. Il gruppo fondato a Malmö dal bassista Jonas Reingold non raggiunge forse gli eccessi pirotecnici di altre formazioni scandinave, come i connazionali Beardfish ad esempio, ma offre in compenso una ricetta sonora solida e corposa, che troverà sicuramente estimatori tra gli appassionati più smaliziati.
Nei sette episodi che compongono "In a Perfect World" il sestetto sa abbinare il rock chitarristico più incisivo ad atmosfere sofisticate con identica efficacia, senza peraltro rinunciare a qualche contaminazione stilistica soprendente a conferma di un indubbio talento. L'esempio migliore è un pezzo come "Can't take It With You", dove addirittura una tipica cadenza samba è spezzata da un mordente refrain rock, con tanto di"growl" a un certo punto, che s'imprime in mente come un azzardo alla fine molto ben congegnato. Nel resto dell'album domina una chiave stilistica più classica, dove la bella voce solista di Göran Edman interpreta con una certa duttilità atmosfere in bilico tra prog sinfonico e partiture più "heavy", senza strafare, eppure con gusto e qualità tecnica di prim'ordine.
L'iniziale "1969", di quasi quindici minuti, allinea la brillante vena degli svedesi: inizio in sordina su pianoforte e voce, e graduale crescendo d'intensità che coinvolge in buon equilibrio le tastiere di Lalle Larsson e la chitarra solista di Krister Jonsson. Il suono scivola pieno e vario quanto basta per non annoiare mai, lasciando emergere un maturo affiatamento insieme alle buone qualità dei singoli strumentisti. Da sottolineare che a Reingold e compagni non manca neppure una discreta vena melodica che serve a impreziosire alcuni passaggi, evitando le prolisse oscurità forzose di molto progressive a corto d'ispirazione: in particolare spicca nella sequenza la grazia di "Turn It Up", che può ricordare a tratti gli Yes più lineari. E' un rock piuttosto arioso, sempre sorretto da una ritmica dinamica e dal raffinato lavoro del pianoforte di Larsson, anche in "There's Nothing Wrong With the World", tra pause introspettive e ficcanti riprese.
Nella sequenza imbastita dalla band ci sono anche inserti in odore di metal-prog, ad esempio "Bite the Grite", che pure si caraterizza per massicce iniezioni di synth accanto ai pesanti riff chitarristici che scandiscono il brano. In generale però, i Karmakanic mostrano una duttilità di registro davvero apprezzabile, senza fossilizzarsi troppo s'una formula, e questo è il vero punto a favore della band svedese. Basti pensare alla chiusura di "When Fear Came To Town", che parte cone una ballata di country-blues, scarna quanto evocativa sulle corde acustiche della chitarra, prima di evolvere, a sorpresa, verso uno scenario classicheggiante dove si distingue ancora l'elegante pianoforte di Larsson e la chitarra solista con le note lunghe e incisive, sullo sfondo dell'organo.
Il pezzo forte del disco, comunque, resta "The World is Caving In", una composizione che cresce alla distanza sulla voce di Edman, e attraverso passaggi di sanguigno rock cadenzato ad arte, sfodera uno splendido finale, romantico e immaginifico, dove la voce e la chitarra solista lasciano davvero il segno. E' come il sigillo del gruppo s'una prova di spessore, raffinata ma priva di svolazzi, che non deluderà i seguaci del prog a 360°, e soprattutto colloca il gruppo tra i migliori esponenti del progressive scandinavo oggi in circolazione. Insomma, un album decisamente consigliato.
Informazioni:
www.reingoldmusic.com/karmakanic.htm
Ego - "Evoluzione delle forme" (Ma.Ra.Cash, 2011)
Dopo l'esordio di "MCM Egofuturismo" (2008), il trio varesino degli Ego conferma nel suo nuovo lavoro buona parte delle sue caratteristiche principali: il gruppo s'inscrive nel solco del rock progressivo sinfonico-barocco basato sulle tastiere che tanta gloria ha raccolto nel corso degli anni Settanta, sull'esempio di band come ELP o Quatermass. Un suono "vintage" che resta piuttosto classico nelle sue articolazioni, anche se non rifugge del tutto qualche tentativo di aggiornamento sonoro.
"Evoluzione delle forme", composto di sette episodi interamente strumentali, è ancora saldamente guidato dalle ricche tastiere di Pier Caramel, che si adopera soprattutto tra organo e synth, mentre ai due complici Daniele Mentasti e Sergio Iannella, basso e batteria rispettivamente, spetta un ruolo più defilato, ma spesso decisivo nello sviluppo dei temi proposti. La timbrica scelta, le lunghe fughe tastieristiche e certi stilemi del prog più classico, parlano chiaro sulle scelte del trio fin dall'apertura frizzante di "Expo'", dove il flauto dello stesso Caramel si ritaglia un ruolo importante accanto alle note dell'organo e del pianoforte che comandano le operazioni con grande disinvoltura. Pur facendo a meno delle parti vocali, va detto, il disco gode di una discreta propensione alla melodia che evita la prolissità sempre in agguato dietro progetti musicali di questo tipo.
Ascoltando questi brani, come la title-track o anche "Rivoluzione estetica", dove si segnala l'apporto del trombone di Mentasti e anche un violino molto barocco, vengono in mente le prime Orme, quelle di "Collage" per capirci: le tastiere hanno una freschezza che cattura, anche se il sapore "deja vu" è innegabile a tratti. Per quanto i tre mostrino un ottimo affiatamento e tecnica eccellente, non sempre la loro musica riesce a emanciparsi da certe formule d'epoca, lasciando l'impressione di girare in tondo.
Va meglio, almeno a mio parere, con la sequenza costituita da "Contemplazione dell'opera" e "Meditatio Mortis": il primo episodio, breve e suggestivo, è aperto da organo e trombone in bella combinazione e funge in pratica da prologo alla seconda traccia, dominata da un'atmosfera gotiga e intrigante che può ricordare certe cose dei Goblin. Effetti elettronici ben congegnati illustrano un fosco paesaggio notturno di bella tensione, con le sincopi percussive di Iannella in evidenza prima del lavoro efficace del synth e quindi dell'organo. E' probabilmente il picco dell'album, e anche uno dei momenti meno prevedibili offerti dal gruppo.
Tra gli altri brani merita una segnalazione "I misteri di Milano": trascinante l'attacco di basso e flauto, in pieno clima settantiano, che nonostante paghi pegno a tanto prog del passato si apprezza per la buona qualità dell'esecuzione. Caramel e compagni sono sicuramente musicisti di buona caratura, ma forse devono ancora trovare la giusta chiave stilistica per valorizzare con maggiore personalità le proprie radici musicali: non sarebbe male, in prospettiva, dare più spazio ai fiati, in particolare al trombone, per allargare lo spettro sonoro in una direzione più interessante.
Stiamo parlando, è giusto sottolinearlo, di un progetto tutt'altro che banale, ma appunto perchè gli Ego mostrano buone qualità di base, è lecito attendersi da loro per il futuro una ulteriore "evoluzione delle forme" che aggiri il pericolo di un'ispirazione a volte un poco dispersiva, come nella lunga traccia finale "Stato multiforme". Il disco è carino, comunque, ben oltre la sufficienza e nel complesso di gradevole ascolto.
Informazioni: http://www.myspace.com/egoprogit
Accordo Dei Contrari - "Kublai" (Autoproduzione, 2011)
Accordo Dei Contrari è una band di Bologna che arriva al secondo album, autoprodotto, dopo l'apprezzato esordio di "Kinesis", decretato non a caso miglior disco italiano del 2007. Fin dalle prime note di "Kublai", il quartetto ribadisce come le sue radici musicali siano legate al rock degli anni Settanta, con un marcato accento fusion che contraddistingue i passaggi strumentali più serrati. Ovviamente, c'è modo e modo di rifarsi a un determinato stile o periodo musicale, e in questo caso il gruppo del tastierista Giovanni Parmeggiani non passa certo inosservato. Qui infatti c'è qualità tecnica, grinta e soprattutto una bella personalità.
Il disco include sei tracce di media e lunga durata, e se pure essenzialmente strumentale, offre la sorpresa di una presenza d'eccezione nell'unico brano cantato: il grande Richard Sinclair, infatti, storico protagonista della galassia di Canterbury, canta da par suo in "L'ombra di un sogno". Si tratta di un episodio che ci riporta magicamente nel cuore di una tradizione che tanto ha dato al rock progressivo, un brano morbido e nostalgico nel quale la band accompagna con grande duttilità la voce inconfondibile di Sinclair. Lo spartito si sviluppa quasi jazzato, dapprima sinuoso come il canto solista, e quindi per efficaci accelerazioni ritmiche guidate dalla chitarra elettrica di Marco Marzo: un brano, a ben vedere, che suona come la ciliegina s'una torta davvero molto saporita.
A partire dall'apertura di "G.B. Evidence", il quartetto dimostra una bella disinvoltura nel sintetizzare influenze composite: le vivaci combinazioni di chitarra e batteria (Christian Franchi), con il brillante apporto dell'organo, sono il frutto di un'intesa sperimentata tra i quattro che lascia anche il giusto spazio a squarci d'improvvisazione inseriti a dovere nello schema portante. Un ottimo biglietto da visita, che il resto del disco conferma pienamente. Ad esempio "Arabesque", una composizione di oltre dodici minuti intrisa di suggestioni arabo-balcaniche articolate in una serrata dialettica strumentale che lascia il segno. Marco Marzo apre le danze con l'oud, antico strumento a corda della tradizione araba, in un clima evocativo che si apre lentamente alla sezione ritmica e alle tastiere, con la chitarra di Marzo sempre protagonista dei momenti più intensi: tra lunghe pause evocative colorate dal sinth e ficcanti ripartenze, è sicuramente uno dei picchi dell'album.
In effetti, la sequenza è complessivamente eccellente, e risulta difficile anche esprimere una netta preferenza tra i brani. "Dark Magus", aperto dal suono del gong, cattura subito dietro i giri ossessivi del basso (Daniele Piccinini) e le note sospese di pianoforte, in un clima di tensione strisciante che si condensa a tratti in potenti riff dominati da chitarra e organo: imprevedibile e spesso trascinante, anche per l'ammirevole coesione tra i singoli, la musica firmata Accordo Dei Contrari si caratterizza proprio per questi vibranti chiaroscuri. Nella stessa scia si colloca anche "Più limpida e chiara di ogni impressione vissuta, part I", con l'organo di Parmeggiani in cattedra all'interno d'uno schema ancora più compatto e aggressivo, che include splendide combinazioni tra il piano elettrico e una chitarra solista incandescente, mentre sempre all'altezza si dimostra il mordente duo ritmico. Nella degna chiusura di "Battery Park", il pianoforte torna protagonista nella consueta altalena tra momenti serrati e passaggi di raffinata bellezza, all'insegna stavolta di un mood jazzistico elegante e tecnicamente pregevole.
Tirando le somme, "Kublai" è un disco consigliato agli ascoltatori più attenti, pieno com'è di spunti e riferimenti alla migliore stagione del jazz-rock di taglio progressivo: a fare la differenza, però, è soprattutto il lavoro certosino del gruppo bolognese per trovare una chiave stilistica originale capace di legare tradizione e novità nella propria musica. Un sicuro valore aggiunto, questo, che merita la massima attenzione e il giusto riconoscimento.
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October Equus - "Saturnal" (AltrOck, 2011)
Avevo perso le tracce di questa band spagnola nel 2006, quando fu pubblicato il loro primo album omonimo, e ritrovarli oggi con questo terzo disco mi conferma la positiva impressione di allora, quella di un gruppo che lavora con tenacia sulle proprie caratteristiche di fondo, senza cercare compromessi in direzioni più facili: è già un'ottimo inizio, che predispone al meglio.
L'attuale formazione degli October Equus, partiti come quartetto, include oggi ben due fiatisti come Fran Mangas (sax tenore, soprano e flauto) e Alfonso Munoz (baritono, contralto e soprano), oltre ad un violoncellista (Pablo Ortega): il risultato è un suono più corposo e avvolgente, che diluisce meglio le tipiche sonorità, notturne e ossessive, che caratterizzano lo stile della band. Siamo sempre nei territori di un progressive strumentale, che rinuncia alle parti vocali, e sviluppa uno spartito severo e quasi cameristico, a tratti, con la chitarra di Angel Ontalva che si avvita in intensi riff nella cornice eclettica garantita dalle tastiere di Victor Rodriguez e naturalmente dei fiati.
"Saturnal" si articola in tredici pezzi che compongono una sequenza sempre interessante, suggestiva, improntata in genere ad atmosfere piuttosto gotiche, come l'apertura di "Estructuras primitivas en el crepusculo", arricchite però da vivaci spezie jazz che affiorano in alcuni frangenti, ad esempio "Avanzando velozmente contra el viento lacerante", dove la combinazione dei fiati e della ritmica si giova anche del mellotron. Molto bello, tra gli altri, "El furioso despertar del homunculo neonato", con l'attacco del basso di Amanda Pazos e del violoncello ad aprire le danze di un pezzo molto tirato nel quale chitarra e fiati lasciano il segno. Episodi sostenuti o di grande tensione, come "¡Abre los ojos!", e parentesi più evocative si succedono nella sequenza, lasciando un'idea di potenza sonora e insieme di grande compattezza, senza spazio per gli assoli dei singoli.
Specialmente nei brani più dilatati c'è come una tensione sotterranea che matura lentamente, elaborata con ipnotica determinazione dal gruppo fino a catturare l'attenzione: mirabile in tal senso "Una mirada furtiva en la noche saturnal", dove le tastiere, la chitarra e il suono lamentoso del violoncello avvolgono in una sorta di spirale dalle mille risonanze. Bello. Notevole anche "Sutiles ecuaciones vivientes", nel quale la batteria di Vasco Trilla frantuma ad arte la deriva strumentale che procede lenta e particolarmente evocativa, con le note lunghe della chitarra solista in evidenza. Sono momenti che ribadiscono la meritoria predisposizione della band a seguire con coerenza un percorso stilistico per niente accomodante, e invece sempre originale, che riecheggia le migliori correnti del più raffinato avant-prog, dal cosidetto R.I.O. (Rock In Opposition) a certe pagine dei King Crimson seconda maniera, o anche alla fusion più personale degli anni Settanta.
La splendida chiusura di "Ultimo refugio", con l'organo, il piano, la chitarra e i fiati, ma anche il basso, a comporre una pagina affascinante intrisa di elegante malinconia, è il degno epilogo di un album davvero bello, suonato senza risparmio e identica intensità dal principio alla fine. Con "Saturnal", a mio parere, gli October Equus si guadagnano un ruolo di spicco nella stagione prog in corso, e li consiglio senz'altro a tutti gli appassionati a caccia di autentiche novità.
Informazioni e contatti: www.myspace.com/octoberequus
Beardfish - "Mammoth" (Inside Out, 2011)
Alla sesta prova discografica, considerando i due distinti capitoli di "Sleeping in Traffic", i Beardfish restano fedeli alla loro fama controversa: anche chi non li ama, è un fatto, deve riconoscere al quartetto svedese capacità tecniche non comuni, ma non sempre il virtuosismo è sufficiente a creare grande musica, o per meglio dire a forgiare uno stile davvero personale e riconoscibile. E' successo in passato a band perfino più dotate, e succede anche oggi.
"Mammoth" (che trovate in vendita anche con un DVD-bonus dal vivo) è composto da sette tracce, come sempre partorite dalla fertile mente del poliedrico Rikard Sjöblom (voce solista, chitarra e tastiere), e arrangiate dal gruppo con la consueta sovrabbondanza di toni che già caratterizzava il precedente lavoro "Destined Solitaire". Si direbbe che quel disco abbia aperto una strada che il nuovo album percorre con maggiore convinzione: certi spunti quasi "heavy metal", ad esempio, vengono ripresi più organicamente, ma questo non significa affatto che la band abbia rinunciato alla sua tipica varietà stilistica. Tutt'altro: già il primo ascolto garantisce che questo, anzi, è forse il vero filo rosso nella discografia dei Beardfish.
Ad aprire le danze è "The Platform", costruita sui mordenti riff delle due chitarre di David Zackrisson e del leader, con le tastiere solo di sfondo e il puntuale rintocco della batteria di Magnus Östgren: si ammira l'amalgama perfetto tra i quattro oltre alla voce convincente di Sjöblom che tiene saldamente in pugno l'anima della composizione. Soprattutto per la compattezza sonora è probabilmente il vertice del disco, che pure non scende affatto di tono nei restanti episodi. La temperatura si fa davvero incandescente in "Green Waves", potente heavy metal ancora dominato dalle chitarre in un clima teso e oscuro, ben sottolineato anche dal sanguigno canto solista. C'è qualcosa che rimanda addirittura agli Zeppelin dei momenti migliori, e il gioco chitarristico funziona davvero egregiamente, senza perdere un colpo. Un brano come "Tightrope" invece sembra venir fuori da un altro disco: atmosfera quasi folk suggerita dalle tastiere e ritmica saltellante, con la voce morbida ma sempre ricca di sfumature, con qualche cambio di tempo che vivacizza il tema. Lo stesso carattere vagamente fuori sincrono con il resto si respira nel breve "Outside/Inside", curioso intermezzo neoclassico con il pianoforte di Sjöblom solitario protagonista.
In assoluto, comunque, il momento che meglio fotografa il camaleontismo sonoro degli svedesi è la lunga "And the Stone Said 'If I Could Speak'", dove registri e sapori diversi, se non contraddittori, cercano un impervio equilibrio. Il ruolo più corposo delle tastiere, con il mellotron in bella evidenza, in uno schema che include anche un fitto fraseggio dell'organo e del sinth, rimanda ai modelli classici del rock sinfonico-barocco, ma solo all'inizio. Poi l'apporto del sax (l'ospite Johan Holm) e un graduale slittamento ritmico introducono un curioso connubio tra Canterbury e il puro heavy metal, con il classico "growling" del cantante Jimmy Jonsson spalleggiato ancora dal timbro drammatico dell'organo. Insomma: di tutto, di più, eppure suonato davvero alla grande.
Interessante anche l'altro episodio strumentale, "Akakabotu", giocato sulla combinazione tra organo e sax che dipingono atmosfere in divenire, tra pause e riprese di grande intensità. Elegante e ancora ben cantata da Sjöblom è la chiusura di "Without Saying Anything", increspata da spezzature ritmiche e trascinanti progressioni guidate dal piano, con l'organo sempre protagonista e un gran finale in crescendo. Tirando le somme, resta difficile inquadrare l'anima espressiva dei Beardfish, generosi e debordanti al punto da non offrire punti fermi a chi li ascolta: ma forse è solo così che vanno presi, senza pretendere di etichettarli. A parte tutto, specialmente se non vi ponete certi problemi e l'eclettismo non vi spaventa, "Mammoth" è un bel disco, e non vi deluderà.

Per informazioni e contatti: www.beardfish.argh.se/
Humble Grumble - "Flanders Fields" (AltrOck, 2011)
Lo spirito più eclettico di Canterbury, e insieme un'attitudine al puro divertimento ereditata dalle avanguardie freak degli anni Settanta (ad esempio i Gong di Daevid Allen), sembrano essere la cifra vincente di questa band belga originaria di Gand, attiva ormai dal 1996 e giunta con "Flanders Fields" al quarto album.
Di base, si tratta di un sestetto dove mancano le tastiere e il ruolo dominante è svolto perciò dai fiati, con una spiccata tendenza ritmica che conferisce al suono un'indubbia patina jazz, senza però quell'alone un po' accademico che potreste associare all'etichetta. Tutt'altro. Lo spazio concesso alle parti vocali, accentuato anche dalle voci femminili come quella di Lisa Jordens, e i frequenti spazi improvvisativi che costellano le undici tracce, garantiscono al contrario la buona tenuta del disco dal principio alla fine, senza nessuna noia.
Le tracce strumentali, come l'attacco di "Sirens Dance", mostrano anzitutto il discreto amalgama della band, che si destreggia tra le volute di sax e clarinetto (Pol Mareen e Pedro Guridi) nel fitto reticolato delle percussioni garantite da Jonathan Callens (batteria) e Pieter Claus (vibrafono), mentre la chitarra solista di Gabor Humble Vörös svaria in lungo e largo con libertà quasi iconoclasta. Niente male come biglietto da visita, ma è nei pezzi cantati che a mio avviso emergono le qualità più tipiche del gruppo. In particolare, la trasognata title-track, giocata sulle delicate armonie vocali di Vörös e dei cori femminili sul morbido tappeto dei fiati e della marimba, richiama da vicino i momenti più felici dell'epopea canterburiana, comprese le improvvise accelerazioni del ritmo e la corposa geometria delle trame di sax nella seconda parte.
Spesso un sano spirito irriverente colora le parti cantate, ad esempio in "Horny" e "Duck on a Walk", con le voci caricaturali incastonate nel fraseggio virtuoso di chitarra, batteria e fiati, in una rassegna di umori perfino vorticosa, fino alla buffa "Never Lose your Mind", apoteosi di frizzi e lazzi vocali che ricorda da vicino il maestro Frank Zappa. Per contrasto, "Sleepless Night" suona come una parentesi letargica dove la voce solista si arrampica indolente sull'arpeggio di chitarra, mentre il jazz di sfondo guidato dal sax e dal basso di Jouni Isoherranen procede sornione, senza forzare. Un piccolo manifesto di classe.
Punto d'incontro tra queste due anime del disco, più vicine però di quanto sembri, è un brano come "Aging Backwards", tra i punti di forza della sequenza: coniuga infatti le morbide spirali dei fiati al canto sognante di Vörös, con lunghe tirate della sua chitarra che trova spazio all'interno di strani poliritmi, rallentamenti e riprese, in uno schema che conferma le qualità musicali dei belgi e lo spessore della loro ispirazione. Paradossalmente, un album del genere, così debordante di umori e sempre sospeso tra ironia e complessità strumentale, rischia di confondere l'ascoltatore in una girandola sonora che richiede tempo per palesarsi con chiarezza. E' quello che si pensa ascoltando un altro pezzo emblematico come "Little Bird": in poco più di quattro minuti convivono voci da cartoon e versi in lingua spagnola, tra ritmi saltellanti e inopinati inserti di armonica a bocca, oltre a fughe di flauto e cori suggestivi. Bello e piuttosto originale, certo, ma è facile perdere la bussola se non si ha la giusta pazienza.
Indubbiamente generoso e variegato nelle sue sfaccettature, "Flanders Fields" ci offre una ricetta davvero saporita, assieme alla corposa vena di una band da seguire con interesse: per convincersene basta ascoltare anche la frizzante chiusura di "Purple Frog". Se in futuro Vörös e compagni sapranno dosare al punto giusto, senza strafare, tutto il potenziale depositato in questo disco, ne vedremo delle belle: di gruppi così vitali e imprevedibili, inutile dirlo, la scena prog ha sempre bisogno.

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Traumpfad - "Aufbruch" (Autoproduzione, 2011)
A volte ci s'imbatte in esempi come quello dei Traumpfad, un gruppo tedesco giunto al terzo appuntamento discografico: il quintetto suona un rock progressivo piuttosto basico nei suoi ingredienti, privo di eccessi e picchi cervellotici per colpire il pubblico, eppure la sua musica lascia ugualmente il segno e intrattiene piacevolmente da cima a fondo.
"Aufbruch" è un album che mette insieme dieci tracce (più una bonus-track) all'insegna di una ricetta piuttosto lineare, nella quale spicca la forte personalità del cantante solista, il massiccio Flo Huber, che scrive anche i testi in lingua madre, e il discreto equilibrio tra la sanguigna chitarra di Marko Effenberger e le tastiere di Matthias Unterhuber, abile soprattutto al sintetizzatore: niente di sconvolgente, ripeto, però tutto suona puntuale come ci si aspetta, in bilico tra hard rock, sterzate sinfoniche e parentesi melodiche.
Tra i momenti migliori c'è sicuramente l'apertura di "Sol", dove la chitarra nervosa e il pianoforte fanno da supporto all'efficace voce di Huber, in un rock molto solido innervato da inserti di sinth: è curioso notare, in questo caso, come nei toni più alti il cantante ricordi a tratti il grande Francesco Di Giacomo, con meno sfumature e maggiore potenza. Non tutta la sequenza ovviamente viaggia su questi livelli, altrimenti saremmo in presenza di un mezzo capolavoro: qua e là il rock dei Traumpfad (che in tedesco vuol dire "percorso onirico") si fa invece un po' più convenzionale, pur mantenendo sempre una tenuta dignitosa, con qualche sorpresa.
Tra le pagine più riuscite del disco, sul versante melodico, segnalo la raffinata "Vater und sohn": lento e avvolgente, il canto di Huber sale d'intensità, mentre sullo sfondo si riconosce anche il mellotron e nel finale la voce femminile di Anja Lange aggiunge il giusto tocco emozionale all'atmosfera del pezzo. Intrigante. Il mellotron è ancora in primo piano nell'attacco di "Auf unserer reise", brano che procede poi su ritmi più tirati e i consueti picchi vocali del frontman nel cuore d'un rock particolarmente corposo. Ancora incisivo l'uso del sinth da parte di Unterhuber. Hard prog di eccellente fattura anche nella breve "Vergebung", e soprattutto in "Der neue weg", spezzato da potenti breacks vocali e interessanti fraseggi del tastierista, prima che salga al proscenio la chitarra elettrica di Effenberger.
Ci sono anche episodi che provano a coniugare le due anime del gruppo, ad esempio la lunga "Winterschlaf", che procede per passaggi evocativi e drammatici, ancora dominati dal sinth e dalla ruggente chitarra solista, in un crescendo di tensione davvero ben articolato. Accelerazioni improvvise e la voce imperiosa di Huber firmano quello che forse è il manifesto più compiuto dello stile-Traumpfad: un formula che qualcuno giudicherà forse poco innovativa, ma a mio parere ha invece un potenziale sonoro di tutto rispetto, con margini di miglioramento da seguire con interesse.
La chiusura del disco, "Zwei Seelen", offre un saggio della duttilità vocale di Huber, in una composizione di ampio respiro segnata dalle coloriture del sinth e da efficaci cambi di tempo, con un lungo solo chitarristico nel mezzo. Quanto alla lunga bonus-track strumentale "Octopussy Ather", con sinth e chitarra elettrica ancora protagonisti, la band germanica mostra di sapere il fatto suo anche alle prese con soluzioni più complesse. Tuttavia, ribadisco, quello che piace davvero in "Aufbruch" è appunto lo schietto spirito rock di Huber e compagni, esatto punto d'incontro tra l'hard rock settantiano, spunti vagamente "dark" e una componente melodica non banale. Sta qui la maggiore attrattiva di un album non trascendentale, ma generoso e decisamente godibile, che merita senz'altro un ascolto.

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Ecco uno di quei dischi subdoli che fanno la dannazione del recensore. Subdolo lo è davvero, "Build a Rocket Boys!", quinto lavoro degli Elbow, perchè non si lascia catturare se non dopo ascolti ripetuti e pazienti, mancando dei picchi espressivi più comuni al rock propriamente detto. Non che manchino i riferimenti, che poco alla volta vengono a galla (Peter Gabriel, ad esempio), ma il disco in ogni caso non si esaurisce lì, e dunque non si può che sgombrare la mente da aspettative e richiami esterni per lasciar emergere l'anima vera di questo nuovo capitolo del quintetto britannico.
Per esempio, ci si può affidare alla bella voce solista di Guy Garvey sin dall'attacco intrigante di "The Birds", che nel suo misurato crescendo di archi e tastiere è forse il vertice del disco, per addentrarci in quella che somiglia molto a un'operazione-nostalgia, in apparenza fatta di niente, che pure lascia alla fine un segno piuttosto personale. La musica, ecco un altro punto da sottolineare, è giocata su toni minimalisti e spesso acustici (note ripetute, toni soffusi, nessuna concessione ai solisti), e al tempo stesso molto raffinati, creando subito una sorta di sospensione attorno al canto costantemente in primo piano: è il caso di "Lippy Kids", che ruota sul verso che intitola l'album, e si sviluppa come una nenia ipnotica e accorata, di sicuro effetto.
Nella sequenza c'è solo qualche sapore rock più mosso che increspa questa superficie pacata e venata di un lirismo proiettato all'indietro, molto legato all'infanzia dello stesso Garvey. Ad esempio "Neat Little Rows", con lo spunto del basso di Pete Turner e il gioco vivace delle percussioni, in un reticolo di effetti sintetici dalla quale la voce emerge come una preghiera. Un sapore consolatorio e crepuscolare, più o meno ispirato da un sentimento religioso, attraversa tutto il disco: è così anche in "Open Arms", tra i momenti più eloquenti, con l'ausilio di un coro (Hallé Youth Choir) che torna in diversi episodi. Ad esempio in "With Love", scandito dal battimani e dal riff di mandolino, con un rimando costante tra Gurvey e il coro. Non male, dietro l'apparente semplicità del motivo.
Intimista fin quasi al sussurro è un pezzo come "Jesus is a Rochdale Girl", giocato con parsimonia sulla chitarra acustica e il piano elettrico di Craig Potter. Sulla stessa linea scorrono anche "The Night Will Always Win", con la voce che svetta ormai quasi isolata s'un tappeto di suoni rarefatto e appena suggerito, e "The River", cullata dal pianoforte e dal coro sempre più defilati sullo sfondo delle liriche.
"High Ideals" è invece un episodio più vivace, con il tema rilanciato nelle pause del canto, pervaso da una tensione sottile, e il motivo volutamente retrò del pianoforte, assecondato qui dai fiati e dagli archi. Rimandi a musiche e atmosfere raffinate, calibrate dal gruppo attraverso arrangiamenti che procedono per sottrazione, anche se non sempre efficaci come si vorrebbe. S'inscrive in questa direzione lirica e fuori dal tempo anche la breve ripresa di "The Birds", dove il ruolo di voce solista è affidato all'anziano accordatore di pianoforti John Moseley: scelta curiosa ma indovinata, perché la sua interpretazione, con il solo apporto del coro, è decisamente suggestiva.
Chiuso dalla più morbida "Dear Friends", il disco è alle fine un prodotto di ardua classificazione: se da un lato ha ben poco da offrire al classico pubblico del rock, e pecca a volte di un minimalismo fin troppo uniforme, ha tuttavia più d'un motivo per guadagnarsi l'attenzione e il rispetto che si deve alle opere più meditate. Si deve almeno riconoscere agli Elbow il tentativo di uscire dalle formule più prevedibili, a costo di deludere i fans che li hanno amati a suo tempo per dischi fortunati quali "Cast of Thousands" e il più recente "The Seldom Seen Kid": seguire quella strada era sicuramente più facile. Un album da ponderare e assaporare con calma, insomma, che solo il tempo saprà collocare al giusto posto nell'evoluzione artistica della band di Manchester.

Disco davvero molto atteso, dopo la polemica separazione tra Aldo Tagliapietra e Michi Dei Rossi che ha spaccato in due fazioni anche i fans della band veneziana, "La via della seta" è obiettivamente un album di non facile valutazione, per una serie di motivi.
Ad un primo ascolto, comunque, l'impressione è sicuramente positiva: Dei Rossi e compagni hanno giocato la carta del tipico concept progressivo, con un tema di fondo abbastanza vasto quanto generico, cioè l'incontro tra occidente e oriente sulle più antiche rotte commerciali, da permettere di spaziare tra suggestioni diverse e offrire alla musica, di conseguenza, un ventaglio di soluzioni molto ampio. In effetti, sia la produzione che la qualità esecutiva del gruppo viaggiano su standards eccellenti, senza sorprese, anche se al risultato finale non manca qualche ombra.
Entrando nel merito, molto evocativa è l'iniziale "L'alba di Eurasia", sulle note sospese della chitarra, mentre "Il romanzo di Alessandro" è un solido rock di fattura settantiana, con l'organo di Michele Bon e la chitarra solista di William Dotto a dominare il tema portante. Bei suoni, freschi e accattivanti. La vera novità del disco l'ascoltiamo nel successivo "Verso sud", dove entra in scena la voce di Davide Spitaleri (frontman dei