Tutte le recensioni anno per anno


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2011.bis

Hostsonaten: Summereve
Akt: Blemmebeya
Magic Pie: The Suffering Joy



2010

Syndone: Melapesante
Glass Hammer: If
Big Big Train: Far Skies Deep Time
Nichelodeon: Il gioco del silenzio
Psicotropia: Psicotropia 3
Areknamés: In Case of Loss...
The Dreaming Tree: Progress Has No Patience
Argos: Circles
Conqueror: Madame Zelle
La Maschera Di Cera: Petali di fuoco
From.uz: Seventh Story
PBII: Plastic Soup

2009

Big Big Train: The Underfall Yard
Gan Eden-Il Giardino delle Delizie: Ritratto di ballerina
Raven Sad: We Are Not Alone
Astra: The Weirding
Viima: Kahden Kuun Sirpit
Beardfish: Destined Solitaire
Ubi Maior: Senza Tempo
Kotebel: Ouroboros
Arpia: Racconto d'inverno
Wobbler: Afterglow
Delirium: Il nome del vento
Pure Reason Revolution: Amor Vincit Omnia
Nemo: Barbares
Umphrey's McGee: Mantis


2008

Matthew Parmenter: Horror Express
Universal Totem Orchestra: The Magus
Pandora: Dramma di un poeta ubriaco
Mogwai: The Hawk is Howling 
Le Orme: Live in Pennsylvania 
Sigur Ros: Með suð í eyrum við spilum endalaust 
Hostsonaten: Winterthrough 
Sensitive To Light: From the Ancient World 

2007

Akt: Déntrokirtòs 
The Mars Volta: The Bedlam in Goliath 
Radiohead: In Rainbows 
Nema Niko: Meccaniche di pensiero 
Robert Wyatt: Comicopera 
Solar Project: Chromagnitude 
New Trolls: Concerto Grosso-The seven seasons 
Marillion: Somewhere else 
Conqueror: 74 giorni 
La Torre dell'Alchimista: Neo 
Rush: Snakes & Arrows 
Alex Carpani: Waterline 
Delirium: Live / Vibrazioni notturne 
Knight Area: Under a new sign 
Xang: The last of the lasts 
Ghost: In stormy nights 
Pain Of Salvation: Scarsick 

2006

Premiata Forneria Marconi: Stati di immaginazione 
Frost: Milliontown 
The Mars Volta: Amputechture 
Arpia: Terramare 
Trespass: Morning lights 
Imagin'Aria: Progetto T.I'.A. 
La Maschera di Cera: LuxAde 
October Equus: October Equus 
Flower Kings: Paradox Hotel 
Mogwai: Mr. Beast 

2005

Ubi Maior: Nostos 
Stefano Panunzi: Timelines 
Premiata Forneria Marconi: Dracula 
Sigur Rós: Takk... 
Van Der Graaf Generator: Present 
The Mars Volta: Frances the mute 

2004

Finisterre: La meccanica naturale 
Marillion: Marbles 
Paatos: Kallocain 
Kenso: Fabulis mirabilibus de bombycosi scriptis 
Moongarden: Round midnight 
Le Orme: L'infinito 

2003

Stereokimono: Prismosfera 
Mogwai: Happy songs for happy people 
Robert Wyatt: Cuckooland 
Muse: Absolution 
Groovector: Enigmatic elements 
La Maschera di Cera: Il grande labirinto 
Porcupine Tree: In absentia

2002

Indaco: Terra Maris 
Sigur Rós: ( )  
Trespass: In haze of time 
Eclat: Le cri de la terre 
Hostsonaten: Springsong 
Pat Metheny Group: Speaking of now 

2001

Le Orme: Elementi

 



Akt - "Blemmebeya" (Autoproduzione, 2011)

La migliore notizia dal pianeta Akt è proprio l'uscita di un nuovo lavoro: questo trio bolognese aveva fatto il suo esordio nel 2007 con un disco già notevole come "Dentrokirtos", ma non stava scritto da nessuna parte, considerati i tempi, che ci sarebbe stato un seguito. Invece ecco arrivare "Blemmebeya", che non solo conferma lo spessore del gruppo, ma ci rassicura anche sulla buona salute del nostro underground. Nonostante tutto esiste, anzi resiste, elabora con i suoi tempi, e solo quand'è il momento dà alla luce i frutti del suo impegno. Di prim'ordine, a volte, ed è questo il caso.

Il versatile trio imperniato su Simone Negrini (tastiere, synth, batteria), Alessandro Malandra (basso e contrabbasso) e Marco Brucale (chitarre) si produce ancora in proprio, volutamente al di fuori di ogni compromesso commerciale, e anche stavolta non usa mezze misure: "Blemmebeya" è un disco impegnativo, complesso, ricco di sfumature, anche se a tratti il suono si compatta e trova sponde più fruibili in un certo progressive d'annata, sia pure plasmato a dovere secondo le esigenze dei contenuti messi in campo. Che sono anche qui molto originali e di stretta attualità: si tratta di un vero concept-album, infatti, che illustra gli effetti di un'informazione invasiva, petulante e acritica, capace di condurre all'atrofia del pensiero, producendo uomini senza testa, appunto, come nell'immagine scelta per la cover. Questo l'assunto di base, ma come funziona il disco?

Funziona bene, e fin dalle prime battute, introdotte dal breve estratto di un'intervista a George Carlin ("Prima della fine"), che scivola poi nella prima vera traccia da segnalare, "L'assalto". E' uno dei momenti cruciali della sequenza, con i cambi di tempo e le belle aperture di synth e chitarra nel cuore di una trama sonora molto ricca, con un testo che sintetizza l'idea di fondo del progetto ("è un chiassoso assalto in formazione che ci priva delle nostre teste"): seppure non impeccabile, il cantato è comunque più efficace che nel disco d'esordio, e proprio in questo episodio si nota una cura maggiore nel gioco delle armonie vocali. Un altro indizio che il tempo per il trio non è passato invano.

L'altro brano di lunga durata è "Di vento", e a mio parere è il picco dell'album, perché vi confluiscono in un impasto generoso le migliori qualità degli Akt: ironia sulfurea nei riferimenti del testo ("Voce rauca monocorde, canto come Giovanni Lindo") e lucidità critica che trascolora in una consapevolezza malinconica, mentre la raffinata tessitura strumentale regala la superba progressione di una seconda parte che sprigiona insieme pathos e potenza, specie quando la vibrante chitarra elettrica di Marco Brucale sale in primo piano. Emozionante.

Nel disco, in effetti, abbondano sapori diversi, magari abbinati all'interno dello stesso brano, quasi a catturare meglio la realtà babelica e stordente protagonista del disco: voci campionate, segnali, interferenze. Ecco allora la ritmica serrata e ansiogena dello strumentale "TG Egeo", con i suoi umori balcanici di vaga ascendenza-Area, spezzata da brevi pause dove trovano posto brevi citazioni di sigle televisive. Di rilievo qui il grande lavoro al synth di Simone Negrini. "Stati d'animo Uniti" invece è uno degli episodi musicalmente più ostici e personali, dove il clima volutamente cupo, focalizzato da uno dei testi più espliciti del disco, è bilanciato da briosi inserti di chitarra acustica e improvvisi stacchi ritmici. Altrove c'è spazio per momenti di intenso lirismo che riflettono un bisogno di evasione dall'assedio mediatico, magari in consonanza con gli elementi naturali: ad esempio "Favonio", costruito ad arte sulla chitarra acustica e il pianoforte, con un canto assorto ben adeguato al contesto. Oppure "Mani aperte", dominato dalle tastiere e da un'atmosfera molto evocativa anche nei suoi effetti elettronici, che non tolgono ma semmai aggiungono suggestione al pezzo, come pure l'uso peculiare delle percussioni e del mellotron.

L'epilogo eloquente de "La fine" chiude in una chiave desolata, perfino nichilistica, il lucido manifesto sonoro firmato dagli Akt, e sembra il corollario più ovvio di un viaggio intenso e problematico che tocca un punto nevralgico del nostro tempo. In generale, siamo di fronte ad un lavoro coraggioso e coerente, quasi sempre calibrato a dovere tra la parte lirica e quella musicale: i due piani convivono con ottimi risultati, e a volte la sintesi che ne scaturisce è addirittura sorprendente, perché ragione e pathos, nelle nove tracce, trovano un riuscito punto d'incontro che finisce per valorizzare anche il senso ultimo del progetto. Insomma, "Blemmebeya" è un altro disco di sicuro valore che arricchisce la scena alternativa italiana di questi anni, così difficili per ogni espressione fuori dal coro e dalle logiche stringenti del mercato: perciò prezioso e raccomandato.

           Leggi l'intervista         Sito ufficiale: www.abstrakt.it/


Magic Pie - "The Suffering Joy" (Progress Records, 2011)

I Magic Pie sono norvegesi, e giungono con "The Suffering Joy" al terzo appuntamento discografico. Ancora una volta schierato a sestetto, il gruppo annovera però, accanto ad Eirik Hanssen, il nuovo cantante Eriikur Hauksson al posto di Allan Olsen, voce solista nelle prime due incisioni. Per il resto, la musica ruota ancora intorno alle tastiere di Gilbert Marshall e soprattutto alla chitarra solista di Kim Stenberg, e rimane fermamente all'interno della tradizione sinfonica dei dischi precedenti, denotando però una bella personalità che prende corpo.

Il disco include nove tracce, ma l'apertura della suite intitolata "A Life's Work", divisa in quattro parti, è chiaramente il vertice dell'intera sequenza. Aperta da una base di mellotron e dalla romantica voce del nuovo arrivato, la piece si evolve in rapidi passaggi strumentali, dinamici e potenti insieme, con la breve parentesi acustica del terzo tempo ("A Brand New Day"), fino a sprigionare tutto il suo potenziale nella quarta e conclusiva parte: è qui che la band scandinava tocca il suo apice espressivo, con indovinate armonie vocali incastonate ad arte nel gioco incrociato di tastiere e chitarra, in un'alternanza molto efficace tra riff mozzafiato e parti cantate. Di rilievo in questo segmento finale anche l'apporto della cantante Maria Bentzen. Si tratta di una composizione magistrale, che innerva la lezione del prog sinfonico più classico, con un tocco di hard progressive spumeggiante e tecnicamente notevole, che trova la sua punta espressiva nella chitarra davvero incisiva di Stenberg. Il resto, dopo questa smagliante apertura, può apparire in confronto meno brillante, ma rivela piuttosto, al contrario, il carattere composito dell'ispirazione che sorregge i Magic Pie in questa terza prova. "Endless Ocean", ad esempio, enfatizza sonorità più morbide e soprattutto le voci, sostenute dal timbro acustico di chitarre e pianoforte, così come "Headlines", con la sua struttura più ariosa e complessa, tiene insieme i diversi umori tipici della band: efficaci parti cantate, intermezzi di vibrante rock chitarristico e vivaci aperture di synth e organo che rendono sempre vario e interessante l'ascolto.

Tra i vertici dell'album va collocato un pezzo come "Slightly Mad", che scivola intrigante tra spunti di chitarra acustica, voci corali ad effetto, e pesanti inserti rock che lasciano il segno, in questo caso corroborati da una sezione ritmica incalzante e puntuale, molto in palla. Il pezzo, forse il più variegato del disco, è anche speziato da sapori vagamente dark, esotici e psichedelici insieme, sottolineati anche dal timbro molto duttile e intenso delle voci maschili e della stessa Bentzen. Un ottimo saggio del talento multiforme della band. "Tired" presenta soprattutto il synth di Marshall in grande spolvero: è in effetti un altro brano eclettico e spesso trascinante, con i suoi intricati passaggi strumentali divisi tra gli spunti tiratissimi di una chitarra indiavolata e il piglio mordente del duo ritmico, abile a frantumare la scansione complessa del pezzo. Manca forse un po' di sintesi tra le diverse anime, a voler essere pignoli, ma qualche piccola lungaggine è compensata dalle belle trovate dei singoli, e da una grinta esecutiva non comune.

Il disco si chiude sulle note di "In Memoriam", più lineare rispetto agli episodi citati, forse anche più convenzionale. Le due voci sono protagoniste s'uno sfondo plumbeo e vagamente gotico, rimarcato da una scansione solenne e valorizzato dai consueti riff chitarristici, mentre una voce recitante in coda, ricollegandosi ai quesiti d'apertura, chiude idealmente il cerchio di un album dai molti meriti. Il terzo disco firmato dai Magic Pie ha infatti le carte in regola per imporsi ai vertici della nuova stagione prog: probabilmente, certe piccole discrepanze di tono qua e là, figlie di un eclettismo sonoro a volte straripante, impediscono un gradimento pieno e senza riserve, eppure la splendida suite iniziale e le qualità indiscutibili mostrate in ogni brano, uniti alle virtù dei singoli musicisti, rendono "The Suffering Joy" un lavoro da non perdere per tutti gli appassionati del genere.



Hostsonaten - "Summereve" (AMS, 2011)

Si chiude con questo album la tetralogia della "Seasonscycle suite" firmata dagli Hostsonaten di Fabio Zuffanti: un percorso iniziato nel 2002 con l'uscita di "Springsong", e sigillato oggi dalla pubblicazione di "Summereve", che conferma le migliori caratteristiche di un ensemble dall'organico piuttosto elastico, ma ogni volta in grado di esprimere compiutamente il disegno musicale concepito dal bassista genovese.

Anche questa, che in realtà è poi l'atto primo del ciclo, è una pagina ricca di trame suggestive, in bilico tra sinfonismo, arie folk, ficcanti passaggi rock e momenti di intenso lirismo. Nella generosa apertura di "Seasons's ouverture" si concentra a ben vedere tutta una serie di richiami che il resto del disco elargisce poi in maniera più ponderata, catturando ogni volta l'attenzione dell'ascoltatore. Nel brano citato, in particolare, alla misteriosa introduzione fa seguito un vibrante gioco percussivo, e un motivo di synth e chitarra che innesca a sua volta una fuga ritmica, potente e trascinante, dove sembrano risuonare insieme tutti gli umori forti dell'estate. Ottima la prova del tastierista Luca Scherani, impegnato anche al mellotron, e del batterista Maurizio Di Tollo, abile a scandire i vivaci cambi di tempo del pezzo.

Altrove non mancano le parti acustiche, che illustrano atmosfere più delicate, quasi eteree: ad esempio "Under Stars", cullata da arpeggi di chitarra e spirali di flauto e dell'oboe elegante di Luca Tarantino. Più spesso però i due registri tendono a cercare un suggestivo punto d'incontro, come in "Evening Dance", che ingloba nel placido tessuto acustico iniziale una serie di belle sterzate rock dove si distingue la chitarra elettrica di Matteo Nahum, in una continua alternanza di pause e ripartenze ad effetto, fino a sfociare nel brano successivo, "On the Sea", ancora segnato dalla compresenza di un oboe molto ispirato e inserti chitarristici, con l'aggiunta in questo caso degli archi. E' probabilmente uno dei vertici della sequenza, con una seconda parte davvero molto evocativa che lascia il segno.

Il disco, pur se interamente strumentale come nello stile del gruppo, denota anche un'anima melodica spiccata, con un sapore antico eppure senza tempo, che ingentilisce i diversi episodi evitando al tempo stesso ogni oscurità compiaciuta. Basta ascoltare la splendida "Glares of Light", con il pianoforte e il violino (Sylvia Trabucco) protagonisti di un magnifico arazzo cameristico, in un clima barocco di squisita fattura corroborato a dovere dall'incisiva chitarra solista: si tratta di un altro gioiellino che dimostra la maturità sonora raggiunta da questa valida formazione. Lo testimonia anche "Prelude Of an Elegy", dove intriganti sonorità spagnolesche sono abbinate a spunti vagamente fusion, con la disinvolta bravura dei musicisti di razza.

La coda di "Edge of Summer", ancora contrassegnata dalla chitarra di Nahum, chiude un album di raffinata bellezza, e insieme uno dei progetti sonori più ambiziosi degli ultimi anni, portato avanti con ammirevole perseveranza e capacità. Fabio Zuffanti e i suoi sodali tutti, dal primo all'ultimo di quelli coinvolti in questo viaggio affascinante, possono ben dirsi orgogliosi di questo come degli altri loro dischi: esempi eloquenti di cosa può davvero la musica, anche oggi, quando sembra che a nessuno interessi più e tutto si riduca alle solite squallide vetrine mediatiche. A noi invece interessa, e ci piace sottolinearlo: bravo Fabio, bravi tutti.

            Per informazioni e contatti: www.zuffantiprojects.com/


Syndone - "Melapesante" (Electromantic, 2010)

Va salutato con piacere il ritorno di una band come i Syndone, che nei primi anni Novanta contribuì al rilancio del progressive italiano con due dischi come "Spleen" e "Inca", e si ripresenta oggi con il solo Nik Comoglio della vecchia formazione ed un album che ripropone finalmente il gruppo di Torino all'attenzione degli appassionati.

Il nuovo quintetto sembra avere tutte le carte in regola per tornare protagonista, a cominciare da un cantante di razza come Riccardo Ruggeri, davvero convincente nel dar voce a una musica generosa ed estremamente personale, ricca di chiaroscuri che rispecchiano i contenuti profondi del disco. Come il titolo stesso lascia intendere, infatti, la sequenza dei dieci episodi ruota tutta intorno al simbolo della mela, quasi sempre alonata di una luce ambigua in tutte le sue rappresentazioni, a partire dalla tradizione biblica. I testi, indubbiamente efficaci nei loro riferimenti trasversali, dalla mitologia classica all'arte, sviscerano bene quest'ambivalenza che accompagna l'uomo fin dalle origini.

Dal punto di vista strettamente musicale, comunque, "Melapesante" si presenta variegato nei toni quanto compattato a dovere nell'amalgama tra le parti, con il parco-tastiere di Comoglio (hammond, piano e soprattutto synth) a recitare il ruolo guida come in passato, ma con l'apporto prezioso del bassista Federico Marchesano, decisivo in alcuni snodi della sequenza, e dei percussionisti Francesco Pinetti e Paolo Rigotto, che punteggiano con discreta varietà di soluzioni ritmiche la complessa trama strumentale. Siamo davanti ad una proposta dalle solide basi prog, all'incrocio dunque di molteplici influenze classiche e moderne, e al contempo capace di spiazzanti variabili, ad esempio in "Mela pensante", venata di umori corrosivi anche nell'ironica performance vocale di Ruggeri. Il resto del disco raduna atmosfere sfaccettate, inventive, spesso di travolgente effetto lirico: in primis la splendida "Giardino delle Esperidi", costruita su linee sinuose di basso e immersa in un clima nostalgico, enfatizzato dal timbro del violoncello e dal canto seducente, s'un tappeto percussivo molto sofisticato. Un vero gioiello.

In altri momenti, Comoglio è abilissimo a utilizzare il synth quasi come una vera chitarra solista: succede ad esempio nella bella apertura di "Melancholia d'Ophelia", brano di trascinante forza ritmica col basso ancora in evidenza, che si distende poi sull'organo e il cantato suggestivo di Ruggeri, tra pause e ficcanti ripartenze. Il breve strumentale "Allegro feroce" è un mordente jazz-rock scandito da piano, synth e gli archi ancora protagonisti, come pure il conclusivo "4 Hands Piano Boogieprog", breve sigillo nel quale il tastierista si diverte a riunire umori diversi con il suo pianoforte in grande spolvero.

Nel mezzo, tra questi pezzi di bravura, stanno altre corpose testimonianze dello spessore artistico della proposta-Syndone. Se "Magritte", ispirato al mondo visionario del pittore belga, è un malinconico acquarello sviluppato sulla chitarra classica (Pino Russo) e la delicata voce solista, con adeguati inserti di synth, "Malo in Adversity" rievoca l'attentato dell'11 Settembre 2001, mescolando sgomento e utopia nella bella performance del cantante, ben sostenuto dal duttile pianoforte di Comoglio e dal violino. Sono tracce dalla scrittura pregevole, che confermano il talento dei musicisti e lo spessore del progetto.

Altrove, l'ispirazione della formazione torinese si traduce in passaggi rock più incisivi: è il caso della title-track, con la voce che sale di tono nella progressione del tema guidato da organo e synth, e poi anche di "Mela di Tell", tra le punte espressive del disco grazie a una sapiente costruzione sonora arricchita in questo caso da un inserto di armonica. Notevole anche "Dentro l'inconscio", che pure parte in sordina sulla voce solista e cresce poi d'intensità sulle note dell'organo e la batteria di Rigotto, allineando il colore variegato delle tastiere al suono dell'oboe in una seconda parte davvero elegante, che cattura al meglio le qualità dei nuovi Syndone.

Prodotto come sempre senza sbavature da Beppe Crovella, "Melapesante" è il disco di valore di una band più che mai agguerrita dal lato tecnico, originale nella scrittura musicale e vitalmente proiettata in quel costante divenire sonoro, tra ricerca e tradizione, che distingue da sempre il migliore progressive: una proposta di tutto rispetto, insomma, che non delude affatto le attese e rilancia nel modo più brillante il nome dei Syndone sulla scena della nuova musica italiana.

           Intervista con Nik Comoglio           Info: www.syndone.it


Glass Hammer - "If" (Sound Resources, 2010)

Il nuovo disco della band di Chattanooga era molto atteso dai fans, soprattutto dopo la strana parentesi del precedente "Three Cheers For The Broken-Hearted", nel quale la ricetta a base di vintage prog che li aveva guidati fin lì veniva improvvisamente messa da parte. Riuscirà "If" a recuperare al gruppo di Babb e Schendel l'affetto dei suoi seguaci?

Lo dico subito prima di entrare nel merito: questo è un disco molto bello per chiunque abbia amato il classico progressive dei tempi d'oro. Paradossalmente, però, quello che sembra un pregio può anche rappresentare il limite di questa sequenza musicale così attraente ad un primo ascolto, con le sue sonorità sinfoniche e romantiche, farcite di melodia e spezie barocche. E' sempre il solito discorso, ma giova tornarci sopra: chi suona progressive oggi, può far finta che dagli anni Settanta ad oggi non sia cambiato niente? Secondo la risposta che darete a questa domanda, il disco dei Glass Hammer vi piacerà moltissimo oppure, pur apprezzandolo, vi lascerà dentro una certa perplessità.

Il punto più controverso è la presenza del nuovo cantante, Jon Davison, che possiede un timbro vocale incredibilmente simile a quello di Jon Anderson, il vocalist degli Yes, con una predilezione per i toni più alti. Non si può fargliene una colpa, certo, ma che sia una semplice coincidenza o un effetto ricercato dal duo Babb-Shendel al momento di sceglierlo come nuovo frontman, l'effetto è comunque identico. "If" sembra davvero un album ibernato in un cassetto dagli Yes a metà dei Settanta e scongelato nell'era digitale per i più nostalgici appassionati di certe sonorità. La cosa appare lampante fin dall'attacco di "Beyond, Within", col fraseggio accattivante dell'organo e lo sfondo del mellotron, e quando Davison comincia a cantare il richiamo è inevitabile, anzi obbligato.

Se ci si lascia trasportare dai suoni, comunque, nessun problema: il quintetto americano sa il fatto suo, e il ricco lavoro delle tastiere, con l'abile apporto del chitarrista Alan Shikoh e la buona verve del batterista Randall Williams costruiscono pezzi di indubbio fascino, dalla scrittura rifinita e mai banale. Schendel è bravo anche negli inserti di synth a colorare certe atmosfere, ad esempio in "At Last We Are", uno dei momenti più impregnati di lirismo, ma con rotture ritmiche e cambi di tempo che vivacizzano lo spartito. Qui Davison gioca col suo falsetto in maniera molto efficace, quasi come uno strumento aggiunto agli altri.

"Grace the Skies", uno dei brani più brevi della raccolta, è ancora all'insegna dello più morbido Yes-style, eppure accattivante nell'impasto della voce e delle tastiere, e la chitarra a supporto, mentre in "Behold, The Ziddle" il suono più freddo e tecnologico del synth richiama anche certi spunti di ELP, con la cadenza ritmica potente e variegata intervallata dalle note del pianoforte e il ruolo di raccordo del basso di Babb. Anche qui c'è uno stacco improvviso sulle percussioni, ben assecondato dalla voce di Davison, e l'atmosfera è sempre sontuosa, tecnicamente eccellente, piuttosto dinamica nelle soluzioni, elegante. Una caratteristica che riguarda l'intero album senza eccezioni, a conferma che siamo comunque davanti a una band di valore ormai sperimentato.

Nella parte finale, prima con "If The Stars" e quindi nella lunga suite "If THe Sun", i Glass Hammer scelgono un registro ancora più sognante e lirico. Nel primo episodio, sottolineato dal grande lavoro delle tastiere, evocativo e sofisticato, Davison è davvero molto convincente alle prese con un motivo arioso e melodico. Molto bello anche il suono della chitarra elettrica, che aggiunge una nota struggente allo spartito dominato da mellotron e organo, in quello che forse è il momento più romantico del disco, con un crescendo d'intensità nella seconda parte. Più ramificata nel suo percorso è la suite di chiusura, magniloquente e forse anche prolissa nel suo sviluppo: ventiquattro minuti sono sempre tanti, per tutti, anche se la progressione finale ha il suo fascino.

In conclusione, pur con tutti i legittimi dubbi che ho espresso in apertura, "If" rimane un bel disco, che quasi certamente appagherà i fans storici della band. A mio giudizio, però, questa operazione pesantemente retrò portata avanti dal gruppo statunitense costituisce un indubbio limite per l'apprezzamento convinto dell'album: un maggiore sforzo di elaborazione personale di certi modelli sarebbe auspicabile in un disco datato 2010.

           Per informazioni e contatti: www.glasshammer.com/


Big Big Train - "Far Skies Deep Time" (English Electric Recordings, 2010)

Non perdono davvero tempo i Big Big Train: sull'onda dell'ottima accoglienza tributata al precedente "The Underfall Yard" (2009), la band inglese si ripresenta ora con "Far Skies Deep Time", composto da cinque tracce inedite. Tecnicamente, il disco viene definito un EP: onestamente però, considerando la durata complessiva di oltre quaranta minuti, stiamo parlando di quello che una volta era un album completo a tutti gli effetti. La brevità della sequenza, inoltre, dà modo di apprezzare ancora meglio, in un solo ascolto filato, la personalità di quello che ormai è il nome di maggiore spicco della scena prog britannica.

Nel nuovo lavoro, si possono cogliere piccole differenze di base nell'impostazione sonora del quintetto: la più sostanziosa è probabilmente la rinuncia alla sezione fiati che garantiva all'ultimo disco una risonanza sinfonica molto suggestiva. Ora la scrittura del gruppo è più raccolta e compatta, anche più dinamica forse, ma chi pensa per questo a una resa inferiore nei risultati si sbaglia, e di grosso. Lo stile è sempre quello, un progressive rock dalle tinte molto romantiche e a suo modo molto classico, anche nelle liriche, che privilegia delicate armonie vocali accanto a sfumature strumentali morbide e complesse, impastate a dovere grazie ad arrangiamenti curatissimi, perfino puntigliosi.

Entrando nel merito dei singoli episodi, ad esempio, la splendida "British Racing Time" è immersa in un'atmosfera assolutamente struggente: le voci vellutate, anche corali, sono cullate da un tessuto strumentale elegante e avvolgente, nel quale svettano il vibrafono e note cristalline di chitarra, insiema al flauto dolcissimo di David Longdon e al pianoforte dell'ospite Toni Muller. Un vero gioiellino, che nell'impasto vocale può ricordare vagamente certe cose dei 10cc. L'altro momento di rilievo è l'apertura di "Master of Time": qui la voce solista di Longdon recupera il suo timbro più tipico in un testo accorato venato di rimpianto e nostalgia, mentre la scrittura musicale, più variegata, è bilanciata tra rallentamenti e riprese, con la batteria di Nick D'Virgilio e la chitarra solista protagoniste di un arazzo corposo dove trovano posto ancora il flauto e il mellotron in un bellissimo crescendo d'intensità.

"Fat Billy Shouts Mine" è invece tra i pezzi più dinamici, dalla ritmica mordente, pur aprendosi con delicati arpeggi acustici s'una scena evocativa di mare e sole per raccontare la morte di un celebre portiere di calcio inglese del primo novecento: il canto e la concatenazione vivace tra ritmo e pause ad effetto ricorda da vicino i maestri
Genesis, ma il suono caratteristico garantito dall'accordion e poi uno smagliante assolo tastieristico di Martin Orford sono i tratti veramente distintivi del brano. Da notare che la traccia doveva far parte dell'album precedente, ma per mancanza di tempo ne restò esclusa: in effetti riecheggia da vicino l'atmosfera di "The Underfall Yard", rispettando in pieno le migliori qualità del gruppo di Bournemouth. Vibrafono, flauto e una chitarra carica di effetti aprono le danze in "Brambling", frantumata ancora da un sostenuto gioco ritmico, mentre la voce si esprime in ariose armonie: la chitarra solista ha qui un ruolo più incisivo e alcune coloriture jazz a tratti, con lo sfondo sontuoso del mellotron a incorniciare l'evoluzione del pezzo. E' un altro episodio corposo, timbricamente ricco e generoso secondo lo stile della band.

Dove i Big Big Train confermano comunque tutto il loro potenziale sonoro, per scrittura e abilità tecnica, è nella conclusiva suite intitolata "The Wide Open Sea", che scorre fluida e intensa per tutti i suoi 18 minuti scarsi, senza alcun punto debole. Probabilmente, anzi, si tratta di una composizione destinata a rimanere tra i vertici raggiunti da Greg Spawton e compagni. Se il testo è ispirato all'ultimo viaggio del famoso chansonnier Jacques Brel, la costruzione musicale è magnifica, per come sa tenere insieme arie retrò, passaggi romantici e spunti rock di grande impatto. Persuasiva e seducente la voce di Longdon, complessa ma fascinosa la resa strumentale, con un flauto che incanta, il sinfonismo struggente del mellotron, la chitarra pirotecnica di Dave Gregory che sale in cattedra e un finale potente che trascina con la sua rapinosa forza espressiva.

Un suggello di classe superiore per un altro capitolo eccellente firmato Big Big Train: "Far Skies Deep Time", infatti, è davvero un disco imperdibile, non solo per chi già li ama, ma soprattutto per quanti ancora non li conoscono. Perché insomma, al di là dei generi e dei gusti personali, una musica così bella non può e non deve restare un ristretto privilegio di pochi appassionati, come accade troppo spesso: sarebbe un vero peccato.

            Sito ufficiale: www.bigbigtrain.com/


Nichelodeon - "Il gioco del silenzio" (Lizard, 2010)

Ci sono esperienze artistiche che è difficile o meglio ancora inutile classificare, talmente lasciano spiazzati per una ricchezza espressiva che appare inafferrabile. Una volta superata questa iniziale difficoltà, è possibile però aprirsi ad orizzonti nuovi e insospettabili: è appunto quello che ho pensato al primo approccio con il progetto Nichelodeon, gruppo milanese che da anni porta avanti un originale percorso multimediale a cavallo tra musica, arti visive e teatro, ma che approda solo ora al suo primo disco di studio, dopo un album dal vivo come "Cinemanemico", realizzato nel 2008.

"Il gioco del silenzio", per altro registrato come un vero live, dunque con giuste concessioni all'improvvisazione, è una raccolta di dodici tracce scritte in tempi diversi, che sfidano l'ascoltatore a spogliarsi di facili categorie critiche per abbandonarsi all'ascolto di questo ensemble da poco rinnovato, che ha nel cantante Claudio Milano il suo primo riferimento. La sua voce, così versatile e multiforme, è secondo me l'arma vincente del disco e del progetto-Nichelodeon, veicolando al meglio questo variegato mondo espressivo. La parola "gioco" inclusa nel titolo non è affatto casuale: rimanda a una concezione creativa libera da regole e convenzioni, ludica nel senso più nobile fatto proprio da tutte le avanguardie. Il risultato è una musica in costante divenire, sorretta soprattutto dai fiati, dal pianoforte e dai synth, fino alla viola elettrificata e alle percussioni, lungo percorsi spigolosi, tra violenti chiaroscuri e lampi struggenti di melodia ritrovata ("Malamore e la luna" ad esempio), sempre però rispondenti all'idea di sottrarre sogni e pulsioni al buio del silenzio: perchè "tutto fa male, la paura fa male più d'ogni cosa" canta Milano in "Apnea". E' proprio su quest'area emotiva rimossa che insiste la liberatoria proposta del disco: la musica, ovviamente, con la sua vasta gamma di soluzioni (tra noise, elettronica, teatro-canzone e psichedelia), ma soprattutto i testi, situandosi tra la parola ragionante o delirante, e le figure oniriche del profondo, con richiami alla realtà in atto sempre trasfigurati liricamente, fuori da ogni cronachismo.

Lasciando da parte i concetti più generali, mi limito a segnalare i momenti più intensi di un disco che colpisce per la varietà di richiami e citazioni liberamente maneggiati dal gruppo secondo un'ottica di vera "contaminazione". L'iniziale "Fame" aggancia subito per la cruda urgenza del testo, dove invettiva e solitudine si tengono insieme nella grande performance vocale di Milano, sulla base ossessiva del sax (Francesco Chiapperini), mentre il canto si apre più accorato nella splendida "Fiaba" in versi significativi sottolineati dal pianoforte (Andrea Illuminati):"Liberami dall'odio che è in me / liberami dall'odio che è me." La musica scorre tra pieni e vuoti, ondivaga e imprevedibile, con la voce solista che rimane il focus del disegno complessivo, anche con il contrappunto femminile (bellissimo il gioco di voci di "Amanti in guerra"), ma in un gioco di rimandi reciproco e continuo che arricchisce l'intera sequenza.

"Ombre cinesi", con il pathos sprigionato da una vocalità estrema e imprevedibile, fa pensare inevitabilmente a Demetrio Stratos: è un'altalena di tonalità che si muove nell'intrico di suoni dissonanti come l'ultima risorsa vitale. In altri episodi la parte strumentale, stravolta e disturbante, dilaga invece in un flusso magmatico di citazioni assortite (fino al tema di "Indiana Jones"!): accade in "Se", che recupera un celebre sonetto di Cecco Angiolieri attraverso la voce campionata di Vittorio Gassman, per convertirlo poi in un asciutto proclama di resistenza umana. La cifra distintiva dei Nichelodeon e del loro repertorio sta in questo vibrante corpo a corpo con il realismo più mortificante in nome della libertà e del sogno, sia pure ad occhi bene aperti, come emerge nel testo de "Il giardino degli altri", per me tra i momenti migliori. Dal punto di vista più strettamente musicale è notevole la progressione strumentale di "Ciò che rimane", con i fiati e la chitarra elettrica di Lorenzo Sempio in evidenza, mentre la bella voce solista rievoca qualcosa di perduto con una malinconia distillata ad arte dal pianoforte che chiude il disco.

"Il gioco del silenzio" è un album ricchissimo di spunti e intuizioni, e l'unico suo limite, paradossale, è legato alla natura "totale" del progetto-Nichelodeon, che nasce per essere visto e ascoltato insieme. Ecco perché è altamente consigliabile la visione del DVD "Come sta Annie? Twin Peaks 20th anniversary show" (Lizard/Andromeda Relix), pubblicato insieme al CD: sono due diversi spettacoli dal vivo andati in scena al Bloom di Mezzago, che mostrano la band esibirsi nella sua dimensione più congeniale. Nel primo capitolo del dvd ritroviamo in versione live sei pezzi inclusi anche nel disco, mentre la seconda parte è un interessante esperimento "multimediale" da non perdere. Si tratta in pratica della "sonorizzazione" in diretta dell'ultima puntata del famoso serial-tv "Twin Peaks" di David Lynch, con le immagini che scorrono intorno ai musicisti e al pubblico: un modo indubbiamente originale per celebrare i venti anni della messa in onda italiana, ma soprattutto l'occasione di apprezzare fino in fondo i Nichelodeon dal punto di vista dell'improvvisazione strumentale. Una performance davvero sorprendente, nella quale musica, video e perfino il dinamico work in progress della pittrice Ambra Rinaldo, sono protagonisti insieme dello stesso evento.

            Contatti: www.myspace.com/nichelodeonband


Psicotropia - "Psicotropia 3" (Luna Negra, 2010)

Questo trio spagnolo, messo insieme nel 1999 a Madrid, prosegue la sua parabola artistica a tre anni dal secondo album "Grog", offrendo un saggio della sua ambiziosa ricerca sonora che fin dall'inizio, per citare quanto scritto nella pagina ufficiale del gruppo, si propone di lavorare s'un progetto "sperimentale e d'avanguardia, in alternativa all'attuale stagnazione di idee e valori nel mondo del rock." Un programma decisamente impegnativo.

"Psicotropia 3", così s'intitola il nuovo lavoro della band, dichiara subito i suoi debiti verso maestri d'annata, come Frank Zappa e i secondi
King Crimson, e più recenti, come Muse o Radiohead. Riferimenti compositi che in qualche modo catturano l'ispirazione e il nucleo profondo di un sound che si basa sulle chitarre taglienti di Pablo Tato, il basso di Jaime Mariscal e la batteria di Juan Llull, affiancati però qua e là dagli archi e dalle tastiere. L'ossatura è un rock anche ruvido, privo di svolazzi, sorretto dalla vocalità poliedrica di Tato, che disegna oblique linee melodiche sul tessuto affilato della musica, in otto episodi che mostrano un'indubbia personalità a partire dalla ficcante apertura di "Space Habanera", con la chitarra protagonista che indica la cifra stilistica di fondo.

Addentrandoci nel merito della sequenza, si nota subito che il trio ha già raggiunto un buon amalgama strumentale, che tiene la qualità media dei pezzi sempre piuttosto alta. Accanto ai momenti più asciutti dominati dalle chitarre e da una ritmica sostenuta, come lo strumentale "Country Grog" ad esempio, o anche "Los espectros de Kronstadt", trovano posto atmosfere più articolate che giocano su tonalità di volta in volta malinconiche, sospese e comunque imprevedibili. Il caso più suggestivo è a mio avviso "Tinta", forse il vertice del disco, che parte in sordina sulla voce solista, il basso e la chitarra, e cresce poi d'intensità drammatica con l'ingresso congiunto di violino e violoncello. Un episodio intrigante. Un po' nella stessa scia l'inizio di "Patos", dal passo ancora più rallentato, ma costellato poi da improvvisi cambi di tempo, con l'efficace contrappunto tra chitarra e archi che apre il pezzo a umori diversi, ben restituiti dal duttile canto solista.

Tre le altre tracce si segnala anche "Piedra", un rock indolente e nervoso grazie al ritmo irregolare della batteria, prima di brusche accelerazioni guidate dalla chitarra e la voce solista sempre efficace. "Oigo silencio", invece, è sicuramente il momento più introspettivo dell'album, quasi un'immersione nell'ascolto del vuoto, realizzato con l'utilizzo minimalista di chitarra e percussioni, e la presenza ancora importante degli archi nella seconda parte a colorare l'atmosfera molto cerebrale del pezzo. La chiusura di "Bella", al contrario, è invece in sintonia con l'apertura, quasi a voler rimarcare una precisa scelta di campo: si tratta di un rock segnato da robusti riff chitarristici s'una ritmica secca e irregolare, con il pianoforte che a tratti accompagna il canto, e un'attitudine evidente alle cadenze ipnotiche e ossessive che furono tipiche, appunto, del Re Cremisi nel periodo di "Red".

Al momento di tirare le somme, il terzo lavoro firmato Psicotropia mostra un trio ricco di idee e spunti di grande interesse, soprattutto mai banali, che pure dà l'impressione di avere ancora margini di miglioramento davanti a sé. Il nucleo più schietto della loro ispirazione, un rock affilato al punto giusto con parti vocali piuttosto personali, potrebbe forse evolversi ulteriormente verso arrangiamenti capaci d'integrare gli elementi che ancora giocano un ruolo estemporaneo, ad esempio gli archi o le tastiere, per evitare piccole discrepanze dell'insieme. In realtà è solo una delle molte opzioni per un gruppo che, di proposito, rifugge le formule più conosciute in favore di nuove modalità espressive, com'è giusto che sia. Già ora, comunque, il gruppo madrileno mostra grande qualità e buon sangue nella sua proposta, e mi sento di raccomandare questo loro disco agli ascoltatori più esigenti in cerca di novità.

         Per informazioni e contatti: www.myspace.com/psicotropia


Areknamés - "In Case of Loss..." (Black Widow, 2010)

Gli Areknamés, impersonati dal tastierista, cantante e compositore Michele Epifani, arrivano al terzo appuntamento discografico di studio (a parte si colloca "Live at Burg Herzberg Festival 2007") che rappresenta forse il loro vertice, dopo i pur buoni responsi delle prove precedenti.

"In Case of Loss...", realizzato dal musicista abruzzese con tre complici come Antonio Catalano (chitarre), Simone Pacelli (basso) e Luca Falsetti (batteria), più altri ospiti che si aggiungono nei diversi episodi, ha infatti la stimmate del gioiello uscito a fatica da un curioso stato di limbo: tutti i pezzi del disco infatti sono stati registrati nel 2008, ma solo quest'anno la Black Widow si è decisa a pubblicarli. Nonostante questo, il disco suona eccellente e impeccabilmente prodotto, portando a maturazione le qualità del progetto. Le principali influenze ravvisabili (
VDGG in primis) sono adesso parte di un'spirazione sempre più personale, nella quale convivono intenso lirismo, anche nei testi cantati in inglese, e sofisticata scrittura musicale, con un risultato espressivo che cattura fin dalle prime note.

Se devo esprimere una preferenza soggettiva, tra le sette tracce della sequenza cito subito la stupenda "Don't Move", con la decisiva presenza degli archi (violino e violoncello) a supporto della bella interpretazione vocale di Epifani: è un brano che cresce lento e seducente sui tasti del leader e tocca lo zenith per accumulo graduale, regalando un'emozione vera che dimostra tutto il potenziale del suono-Areknamés. Un potenziale peraltro confermato da tutto il disco, sia chiaro, che denota una pregevole uniformità stilistica. L'iniziale "Beached", ad esempio, conquista per la scansione ipnotica di tastiere e basso, proiettando la voce solista al centro di morbide spirali psichedeliche. Il pezzo si dipana tra pause e riprese del tema dominante, tra efficaci inserti di vibrafono e sanguigne spezzature rock, con il contributo corposo della batteria.

Sapienti sfumature fusion connotano i diversi momenti, a cominciare da "Alone", dove ancora il piano elettrico, il basso e la chitarra creano l'atmosfera soffusa nella quale si muove a dovere il canto malinconico di Epifani, fino all'ingresso del sax di Carmine Ianieri e poi dell'organo: un episodio di sapore crepuscolare e squisita concezione strumentale, tra i migliori della scaletta. Sullo stesso tenore si muove "Dateless Diary", ma con improvvise accensioni rock che integrano il lavoro del synth. "A New Song" brilla invece di una luce superiore, con la sua iniziale dimensione romantica interrotta poi da un vivace cambio di tempo e colore, che porta ancora in primo piano la vibrante chitarra di Antonio Catalano insieme a una sezione ritmica particolarmente frizzante. Immersa in una sorta di space-rock dalle sfumature cangianti è pure "Where", con le tastiere vaporose che dominano la scena ben supportate dalla chitarra solista, evocativa e morbida, e dal violoncello di Sara Gentile.

Nella lunga suite di coda divisa in otto segmenti, "The Very Last Number", gli elementi portanti del disco confluiscono in un tessuto strumentale fluido e generoso di sapori, tenuti insieme da una matrice fusion elegante quanto incisiva, e dalla bella voce solista. E' un'atmosfera sospesa, romantica e a tratti oscura, che si esprime al meglio sulle note languide del violoncello, del vibrafono (Cristiano Pomante) e delle ricche tastiere del leader, incluso l'organo verso il finale, ma con i consueti e preziosi breacks di sax e chitarra a garantire il giusto dinamismo alla musica: quasi ventuno minuti di grande suggestione.

Tirando le somme, "In Case of Loss..." è un disco di tutto rispetto, di sicuro fascino, nel quale Michele Epifani-Areknamés mostra di aver trovato forse la sua dimensione ideale, un equilibrio raro tra i contenuti lirici e quelli musicali, che ne fa uno degli artisti di punta del panorama prog italiano. Questo è davvero un album da non farsi sfuggire.

           Per informazioni e contatti: www.myspace.com/areknames


The Dreaming Tree - "Progress Has No Patience" (Autoproduzione, 2010)

Questa band inglese di Wolverhampton arriva al secondo disco, dopo "Grafting Lines and Spreading Rumours", pubblicato nel 2007. Si tratta di un quintetto organizzato secondo una formula piuttosto classica: quattro strumentisti (chitarra, basso, tastiere, batteria) e un cantante solista come Chris Buckler, davvero bravo a valorizzare il lavoro dei compagni con la sua versatile performance.

I Dreaming Tree suonano in effetti un rock che privilegia la forma-canzone rispetto alle lunghe escursioni strumentali che ci si aspetterebbe da una band dedita al prog, ma questo non impedisce loro di far valere qualità tecniche e interessanti idee musicali in grado di catturare l'ascoltatore. Anzi, paradossalmente è proprio la varietà espressiva messa in campo dalla formazione inglese che può lasciare un minimo disorientati: tra gli undici episodi offerti dal disco, infatti, si avvicendano morbide ballate d'atmosfera, affilati hard-rock dalle venature dark, e sofisticato pop-rock melodico, il tutto peraltro tenuto insieme da un amalgama eccellente, e soprattutto dall'ottima presenza vocale di Buckler, vero filo rosso della sequenza.

La chitarra solista di Dan Jones è la spalla ideale del cantante, fertile e inventivo coi suoi riff elettrici che connotano sia le pagine più grintose che i brani più melodici. Il brillante attacco di "Silence Won't Steal" (curiosamente la tracklist parte dalla traccia 2) riesce a situarsi giusto a metà tra i due estremi, con la chitarra tagliente, la voce morbida e le tastiere solo di sfondo, già evidenziando il nucleo migliore dell'ispirazione, mentre a tratti le scelte sono più nette. "Grown Too Small", ad esempio, è un pezzo che non sfigurerebbe nel repertorio melodico di gruppi come Steely Dan e simili, con perfetto bilanciamento tra le parti vocali e il piano elettrico di Steve Barratt, e lo stesso può dirsi anche di "Love and the Heart", mentre altrove la dimensione rock più sanguigna prende il sopravvento, pur senza mai smarrire il costante equilibrio tra le parti: è il caso di "You the One", traversata in lungo e largo dai riff chitarristici, con brevi intermezzi di tastiere e adeguate parti vocali, e anche di "Arcadia", sul versante di un agile dark-rock dalle tonalità scure rinforzato da un buon lavoro del synth assieme alla chitarra.

A mio avviso, comunque, il gruppo tocca i suoi vertici espressivi quando le due anime riescono a trovare una convincente fusione stilistica che sa esaltare una scrittura musicale già matura, senza inseguire, magari inconsciamente, modelli già noti e affermati. Succede soprattutto in due brani collocati in sequenza, proprio al centro dell'album. Prima "Moult", un raffinato crescendo emotivo giocato sulla bella voce solista, la chitarra raffinata e la sapiente cornice delle tastiere: una costruzione davvero esemplare, tra pause suggestive e riprese, che tocca lo zenith nel finale sulle corde di Jones. "Ophidia", che segue, è un altro esempio eloquente del valore del gruppo: si tratta di un rock venato di tensione, dal ritmo più nervoso, sviluppato intorno al canto introspettivo e multiforme di Buckler, efficacissimo, fino al consueto gioco incrociato di chitarra e tastiere nell'ultima parte. Un gioiellino.

Bisogna sottolineare che i Dreaming Tree sono la classica band eclettica con molte frecce al suo arco, così che anche gli episodi più prossimi a un' intrigante dimensione pop risultano accattivanti, magari spostando il focus sul pianoforte elegante di Barratt, come in "Slender Versions of the Truth", episodio comunque di livello, o nella conclusiva "The Only Truth", dove l'atmosfera si concentra tutta sul canto intimista di Buckler ben supportato dal tastierista.

Il gruppo ha talento e intuizioni di prim'ordine, insomma, ma per non dissiparli dovrebbe riuscire ad incanalare la sua ricca creatività in uno stile più definito e meno dispersivo: in quel caso, considerate le sue evidenti capacità, non ho dubbi che possa affermarsi tra le realtà più stimolanti della scena progressive attuale.

           Sito Ufficiale: thedreamingtree.co.uk/


Argos - "Circles" (Musea, 2010)

Lo spirito della vecchia Canterbury, e del più raffinato progressive britannico col suo nobile retaggio musicale, rivive ancora in qualche giovane formazione devota alle sonorità d'annata: è appunto il caso degli Argos, una band tedesca che arriva da Mainz, e che pubblica ora un album come "Circles", seconda uscita dopo l'esordio dello scorso anno.

Si tratta di un quartetto nato nel 2006 dall'incontro tra Thomas Klarmann (basso, flauto, tastiere e voce) e Robert Gozon (voce, tastiere e chitarra), e che dimostra un'apprezzabile coesione strumentale negli undici episodi del disco: i toni quasi sempre ben calibrati, gli ottimi arrangiamenti e anche parti cantate più che discrete concorrono alla buona riuscita della sequenza, lasciando intravedere qualità di fondo non comuni. La brillante apertura di "Sammel Surium", con la sua ariosa patina fusion a incorniciare gli spunti di chitarra e di synth, predispone subito al meglio.

Freschezza di suoni e soluzioni piacevolmente dinamiche caratterizzano episodi come "A Thousand Years", con le belle parentesi di flauto e il canto assorto sul pianoforte, tra una ripartenza e l'altra: importante qui il ruolo delle tastiere, ma anche il chitarrista Rico Florczak con i suoi soli di eccellente fattura non è da meno nell'economia del pezzo, sicuramente tra i momenti migliori.

La voce solista di Robert Gozon riecheggia a tratti il miglior Peter Hammill, con la sua tipica altalena di toni aspri e lirici al tempo stesso: lo si nota in particolare nella splendida "Custody of the Knave", probabilmente il vero picco dell'album, sviluppata essenzialmente sul binomio di piano e voce, ma con un elegante crescendo sinfonico davvero notevole, e quindi in "Closed Circle", brano a struttura realmente circolare dalle sinuose movenze jazz, con il sax soprano in evidenza nel finale. Accanto ai momenti più complessi, sono però da segnalare anche episodi di morbida sapienza melodica, immersi in una solarità sommessa ma irresistibile, come "Willow Wind", impreziosita da evidenti richiami psichedelici. Prettamente canterburyano è invece "Lines on the Horizon", cantata stavolta da Klarmann, nel quale un'atmosfera sospesa e incantata, costruita sul piano elettrico e sulle armonie del flauto, s'illumina in deliziose aperture melodiche.

La tensione sale con i brani più lunghi, dalla scrittura più articolata. E' soprattutto il caso di "The Gatekeeper", ben sostenuta dalla batteria di Ulf Jacobs, e colorata a dovere dalle ricche tastiere di Klarmann, con Gozon capace peraltro di un'altra intensa prova vocale, mentre "Lost on the Playground", sebbene impreziosita dall'ottimo lavoro chitarristico di Florczak, suona al contrario eccessivamente frammentaria rispetto ad altri episodi del disco. Si tratta comunque di un peccato veniale nel contesto di un collage sonoro di tutto rispetto.

Di "Circles", a conti fatti, piace la maniera elegante e insieme sicura con la quale il quartetto tedesco recupera e aggiorna la ricca tradizione del prog più classico: nessuna tentazione "archeologica", ma una chiara scelta di campo nella scrittura musicale che sa rielaborare quegli spunti sonori senza strafare, anzi con invidiabile senso della misura e una cura certosina nel dosaggio dei vari elementi. Con queste credenziali, al netto di qualche trascurabile sbavatura che non penalizza il giudizio complessivo, il secondo disco degli Argos ha tutte le carte in regola per guadagnarsi un suo posto al sole nel panorama prog di questa stagione, e nelle simpatie degli appassionati più esigenti.

         Sito Ufficiale: www.myspace.com/returntowhatever


Conqueror - "Madame Zelle" (Ma.Ra.Cash Records, 2010)

Questa formazione messinese, che ha fatto il suo esordio discografico nel 2003, arriva oggi al quarto album di studio a tre anni dal precedente "74 giorni", confermando di essere ormai una solida realtà della scena prog italiana. Vanno anzitutto sottolineate un paio di novità nell'organico del quintetto, vale a dire l'ingresso di Gianluca Villa al basso e del nuovo chitarrista Mario Pollino, che non modificano però gli equilibri di base del gruppo.

Ancora una volta il disco ha una struttura concettuale: è infatti, per usare le parole inserite nel libretto, "la vita, la storia, la leggenda di Margaretha Geertruida Zelle", conosciuta da tutti come Mata Hari, celeberrima danzatrice e insieme agente segreto su più fronti che ha acceso le fantasie di intere generazioni. In nove segmenti, concepiti in simbiosi dal batterista Natale Russo e da Simona Rigano (tastiere e voce), l'album racconta momenti e misteri di questo personaggio, attraverso liriche raffinate che assecondano una sequenza musicale ariosa e molto elegante, dominata da una scrittura complessa e romantica, a tratti sinfonica.

La voce delicata e sensibile della poliedrica tastierista Simona Rigano restituisce un ritratto umano dove emozioni in chiaroscuro e complicati giochi politici vanno di pari passo: sin dalla sontuosa apertura della lunga "Margaretha" il tema scelto suggerisce atmosfere perfettamente adeguate, che dunque sanno evocare esotismo, mistero e sensualità. Nello spartito spiccano il pianoforte classicheggiante e soprattutto il synth, che fa un po' da filo conduttore lungo i nove episodi del disco, ma sono ugualmente decisivi nell'economia del suono anche i fiati di Sabrina Rigano (sorella minore di Simona), impegnata al flauto e al sax, e la stessa chitarra solista di Pollino, che dinamizza con i suoi riff incisivi le sofisticate atmosfere dell'album.

A proposito di esotismo, l'esempio più significativo è lo strumentale "Indonesia", aperta da echi di sitar e poi sviluppato sulle belle armonie del flauto e sulla corposa sezione ritmica, con le note lunghe della chitarra che incidono a dovere. E' uno dei momenti più suggestivi del disco. In linea generale, comunque, il tratto caratteristico del prog dei Conqueror è una riuscita coesistenza di eleganza strumentale e misurate sterzate rock, fratture ritmiche e romantico lirismo: in questo senso colpisce soprattutto "Fascino proibito", un gioiellino sonoro ben scandito s'un tempo dispari dalla batteria e innervato da ficcanti aperture di moog, tra eccellenti combinazioni di flauto e chitarra elettrica, con il sax che interviene nel finale. Lo stesso si può dire a proposito di "Occhio dell'alba", e di "H-21", ancora impreziosito da spirali di flauto e cadenze vagamente jazz, con interessanti fraseggi dell'organo nella seconda parte.

Anche se il racconto in prima persona porta spesso in primo piano il canto, ad esempio in "Doppio gioco", non mancano mai vivaci inserti strumentali di fiati e chitarra a scongiurare il rischio di una piatta illustrazione biografica. Un punto a favore, questo, del gruppo siciliano. Bella anche la tessitura nervosa di "Da sola", con la voce solista particolarmente efficace nella cornice strumentale dove synth, fiati e la chitarra roccheggiante di Pollino trovano un'ammirevole fluidità. La dimensione dei Conqueror è proprio questa discreta varietà di soluzioni, organizzata senza forzature o cadute di gusto, con un senso davvero pregevole della coralità strumentale: è un rock progressivo più raffinato e lirico che veramente potente, ma sempre estremamente gradevole, grazie alla brillante caratura tecnica dei singoli musicisti.

In poche parole, "Madame Zelle" è un bel disco, ricco di finezze strumentali e testi di notevole spessore, amalgamati con sapienza a formare un affascinante mosaico sonoro: merita però un ascolto attento e ripetuto per apprezzare tutta la ricchezza delle sue molteplici sfumature.

          Intervista a Simona Rigano      Per informazioni e contatti: www.conqueror.it/


La Maschera Di Cera - "Petali di fuoco" (Aereostella/Edel, 2010)

A quattro anni da "Luxade", la Maschera di Cera, uno dei molti progetti capitanati da Fabio Zuffanti, ritorna con questo quarto album di studio che, fin dal primo ascolto, appare come una summa semplificata dei lavori precedenti. C'è anche da sottolineare l'ingresso in formazione di un chitarrista di ruolo come Matteo Nahum, che contribuisce a disegnare un sound forse più aderente al concetto di rock-band propriamente detta.

L'attacco di "Fino all'aurora" è la migliore sintesi di questa nuova produzione, sempre affidata, non a caso, a una vecchia volpe del calibro di Franz Di Cioccio, storico batterista della PFM: partenza pancia a terra con organo, batteria e synth in grande spolvero, e l'efficace canto solista di Alessandro Corvaglia cullato da flauto e pianoforte nelle pause, prima di fulminanti ripartenze ritmiche con note lunghe della chitarra solista nel finale. In qualche modo, qui c'è già tutto della nuova Maschera di Cera, alle prese con un rock più immediato e incisivo, ma l'album ha comunque diverse frecce al suo arco che restituiscono un quadro più variegato dell'ispirazione che sorregge Zuffanti e soci.

Se è vero che il suono ha un approccio più compatto e fluido che in passato, non significa affatto che manchino tra i dieci brani momenti più intriganti e anche piccole sorprese: diciamo che emergono solo dopo ripetuti ascolti, ma valgono sicuramente il tempo speso a cercarle. "Tra due petali di fuoco", ad esempio, ha una costruzione diametralmente opposta a quella appena descritta: lenta e avvolgente, tra flauto e arpeggi chitarristici raffinati come il tocco pianistico di Agostino Macor, la composizione si evolve in un crescendo favolistico che prepara con cura il volo strumentale di una chitarra molto melodica sullo sfondo ad effetto delle tastiere. Un brano suggestivo, esaltato da un arrangiamento particolarmente elegante, che denota l'eccellente qualità tecnica del sestetto genovese.

I testi, sebbene spesso in primo piano, non tolgono spazio ai brillanti inserti strumentali dei musicisti, a tratti di rapinosa bellezza: è il caso de "L'inganno", con i preziosi intarsi flautistici di Andrea Monetti, uno dei protagonisti del disco, ben assecondato dal tocco classicheggiante del pianoforte. Ottimo nella circostanza anche il duttile lavoro percussivo di Maurizio Di Tollo. Gli amanti del progressive più "vintage" si esalteranno forse in altri pezzi della sequenza: ad esempio "Il declino", un esempio di hard prog molto tirato con intriganti combinazioni di piano e synth che rievocano il meglio del nostro prog d'annata. La stessa cosa vale per "D-sigma", trionfale parata di ficcanti duelli strumentali tra flauto e synth, con la chitarra di rinforzo e la ritmica che non perde un colpo, ma anche per uno strumentale di valore assoluto come "Phoenix", dove sul pathos drammatico dello spartito s'innestano ariose aperture di synth.

Il basso di Zuffanti sale invece al proscenio in "Discesa", in combutta con piano elettrico e flauto: è un episodio che privilegia una timbrica jazz, con le tipiche spezzature che incorniciano il canto solista di Corvaglia. Quest'ultimo interpreta quindi da par suo quello che probabilmente è il vero gioiello dell'album, cioè "Agli uomini che sanno già volare", firmato interamente da Di Tollo, e forte di un testo davvero coinvolgente: la confezione è sapiente, col suo andamento lento e ramificato che si esalta sulla voce e sul misurato crescendo strumentale, ancora con flauto e chitarra protagonisti insieme al pianoforte. Bello. La coda del disco, affidata a "La notte trasparente", rispetta lo schema della riflessione introspettiva che si carica progressivamente d'intensità, stavolta con un lungo solo chitarristico di Nahum introdotto dalle note solenni dell'organo. Un epilogo di classe, perfettamente adeguato al resto.

"Petali di fuoco", per tirare le somme, è un ottimo disco che consacra una volta di più lo spessore artistico di questa band italiana ormai nota e apprezzata anche all'estero. Intorno al leader Zuffanti e ad un vocalist eccellente come Corvaglia, si è formato un nucleo di strumentisti ormai ben affiatati che raramente delude le attese, e così è anche stavolta: se il disco può apparire meno avventuroso e sperimentale che in passato, e non si può negarlo, rimane però straordinaria la tenuta complessiva dei pezzi, quasi sempre calibrati a puntino tra le parti strumentali e quelle cantate. Un risultato, come sappiamo, storicamente mai facile da raggiungere nell'ambito della scena prog italiana: e dunque, a maggior ragione, onore al merito.

           Intervista a Fabio Zuffanti      Info e contatti: www.zuffantiprojects.com/


PBII - "Plastic Soup" (Autoproduzione, 2010)

Dietro la sigla apparentemente inedita per la scena progressive, si cela in realtà un gruppo olandese degli anni Settanta-Ottanta, la Plackband, nel quale suonavano tre degli attuali membri dei PBII: nel 2008, data della rifondazione, il quartetto è stato poi completato con l'arrivo del nuovo bassista Harry den Hartog. Il primo risultato discografico della formazione di Den Haag è appunto questo nuovo album dal curioso titolo "Plastic Soup", che merita subito una spiegazione.

Il gruppo ha voluto focalizzare in musica un grave problema come l'inquinamento della plastica, che deturpa soprattutto l'oceano Pacifico e non solo, con nefasti effetti di breve e lungo termine sull'ambiente marino: all'argomento, ancora piuttosto sottovalutato, è dedicata in particolare la suite centrale del disco, "The Great Pacific Garbage Patch", mentre nel libretto si forniscono dati e cifre eloquenti che meritano indubbiamente attenzione. L'album non è tuttavia un "concept" classicamente inteso, comprendendo altre nove tracce di tutt'altra natura.

In linea di massima, la musica dei PBII ha diverse carte da giocare che la rendono appetibile a una vasta platea: il loro è un rock piuttosto duttile, generalmente grintoso e ben suonato, nel quale un certo neo progressive melodico s'incontra con toni più "heavy", e con un dinamismo strumentale che riesce a evitare prolissità e forzature. Parla chiaro, ad esempio, l'attacco di "Book of Changes", minisuite in tre tempi che organizza a dovere le liquide tastiere di Michel van Wassem, dotato anche di una discreta voce, con le marcate fratture ritmiche e il brillante lavoro chitarristico di Ronald Brautigam che si proietta sullo sfondo del synth. Di buon effetto l'utilizzo del mellotron, che garantisce al suono della band quella nota vagamente "vintage" che non guasta.

La sequenza scorre piacevolmente in un'alternanza di temi che in realtà rimane sempre unitaria nei suoi colori fondamentali, a volte privilegiando un rock scandito da pesanti riff di chitarra ("In the Arms of a Gemini" ad esempio), ma più spesso trovando il giusto equilibrio in episodi evocativi come "Ladrillo", breve intermezzo con la chitarra in primo piano, o "Fata Morgana", uno strumentale che ricorda alla lontana i corrieri cosmici tedeschi per la sua dimensione sospesa ad arte. Molto bella anche "Living by the Dice", tra i vertici del disco, costruita con perizia sul pianoforte prima d'aprirsi con eleganza sul synth e la chitarra: si tratta di un brano dalla morbida tessitura strumentale che valorizza sia il canto solista che il buon livello degli arrangiamenti.

La suite citata in apertura, "The Great Pacific Garbage Patch", è comunque il vero ombelico dell'album, esatta fotografia di questo prog di buona tenuta, vivace quanto misurato, anche quando sembra ripercorrere sentieri espressivi già battuti. Le buone armonie vocali, la fluida coloritura delle tastiere e della sezione ritmica, graffiata spesso in superficie dalla chitarra solista, anche in chiave acustica, offrono un ascolto sempre godibile, anche in quei momenti che possono suonare appena più ordinari. A completare il quadro c'è poi un pezzo melodico e decisamente attraente come "It's Your Life", cantato dall'ospite Heidi Jo Hines: col suo efficace crescendo vocale sulle note del pianoforte, in altri tempi sarebbe stato un singolo ideale per trainare l'album.

A conti fatti, pur senza niente di spettacolare, "Plastic Soup" si segnala come un esordio di buona fattura nel segno del neo-prog, del quale si apprezza anche il discreto sforzo di realizzazione, essendo in pratica un'autoproduzione, e l'ammirevole compattezza della struttura musicale.

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From.uz - "Seventh Story" (10t Records, 2010)

Giunti al terzo album della loro carriera, cominciata nel 2004, gli uzbeki Fromuz hanno voluto sottolineare la loro origine modificando graficamente il nome in From.uz: e a ragione, direi, visto che molto spesso anche nel circuito del prog è difficile uscire dagli stereotipi. Sapere che anche nella remota Tashkent, insomma, si può suonare così bene è un altro punto a favore della cosiddetta globalizzazione che investe ogni espressione culturale, rock incluso.

La formazione della band asiatica intanto ha registrato la defezione dei due membri storici Andrew Mara-Novik e Vladimir Badirov e l'ingresso dei nuovi Sur'at Kasimov (basso), Ali Izmailov (batteria), oltre a un secondo tastierista come Igor Elizov. Anche se il rinnovato quintetto è sempre guidato saldamente dal chitarrista Vitaly Popeloff, che firma in solitudine le musiche di questo nuovo disco, l'impressione iniziale è che la doppia tastiera abbia portato un potenziamento degli arrangiamenti di tipo sinfonico, che integrano la basilare impronta fusion dei From.uz, con un risultato molto suggestivo.

Dico subito che "Seventh Story" è un album davvero impegnativo, non solo per chi l'ha concepito e suonato, ma anche per l'ascoltatore. E' una sequenza di sette episodi lunga e anche complessa: una sorta di concept molto ambizioso, nel quale il tessuto sonoro è spesso infarcito di effetti speciali, come dialoghi parlati e intrusivi rumori ambientali, sin dall'iniziale "Perfect Place", che forse potrebbero anche infastidire qualcuno, ma che in realtà nulla tolgono al fascino della musica. Gli episodi più estesi, ad esempio "Parallels", si sviluppano sui potenti riffs della chitarra solista, in uno schema ritmicamente sostenuto che include preziosi inserti di synth e frequenti aperture verso atmosfere più distese dove trovano posto le parti vocali.

In "Taken", aperta da un lungo inserto parlato, la chitarra di Popeloff si lancia in lunghe scorribande alternate però a momenti più riflessivi, potenti ma evocativi, con un pianoforte classicheggiante a fare quasi da raccordo alle ripartenze più "heavy" della composizione. Emerge qui il contributo essenziale di una sezione ritmica sempre in palla, che asseconda a dovere le brusche sterzate del pezzo. Il chitarrista imprime il suo marchio anche nell'altro episodio lungo, "Desert Circle", tra i momenti più significativi del disco: in questo caso lo strumento elettrico, che vibra in maniera lancinante, è però affiancato dalla chitarra acustica in una parte centrale di squisito jazz, col piano e la batteria in grande spolvero, fino a inglobare una vibrante escursione nei territori del folk etnico. E' sicuramente un esempio eloquente della caratura tecnico-espressiva del gruppo di Tashkent.

Un brano come "Influence of Time", ch'esalta lo scintillante binomio basso-batteria, scorre ancora all'insegna di un rock chitarristico davvero intenso, fratturato e ricomposto più volte senza pause, tra soli calligrafici e forzature esasperate. Importante anche qui il lavoro del synth sullo sfondo. L'album ha in effetti un distintivo tratto ritmico, ma bilanciato a tratti da qualche tocco sinfonico e classicheggiante: è il caso del breve strumentale "Bell of the Earth", tutto giocato su pianoforte e synth, con inserti di vibrafono e marimba, in un clima di morbida eleganza che richiama i sinfonisti russi e fa del tutto a meno della sezione ritmica.

La chiusura di "Perfect Love", riprendendo il tema melodico del primo brano chiude il cerchio di un viaggio musicale coerente e sofisticato, portato avanti dal quintetto uzbeko con indubbio vigore e sicura personalità. Anche se personalmente non amo troppo dischi di tale lunghezza, raccomando senz'altro ai fans del progressive l'album dei From.uz: ha il fascino evocativo, perfino esotico qua e là, delle opere costruite con metodica sapienza, che però sanno convincere soprattutto per la grinta esecutiva e la matura coesione strumentale che traspare da ogni singolo tassello. Merita appunto per questo un ascolto attento e non superficiale per svelare tutta la sua bellezza.

           Per informazioni e contatti: www.fromuzband.com/

Big Big Train - "The Underfall Yard" (English Electric Recordings, 2009)

Il seme del prog classico seguita a dare frutti che sembrano ancora robusti e attaversano indenni anche climi avversi alla musica più raffinata, come quello che stiamo vivendo. Ed ecco che può capitare d'imbattersi in dischi come l'ultimo dei Big Big Train, un band inglese indipendente, che dunque si produce da sola, ormai giunta alla sua sesta prova discografica.
Attivo ormai dal 1990, in questo "The Underfall Yard" il gruppo di Bournemouth dimostra di aver raggiunto una maturità sonora davvero ragguardevole, che ne fa uno dei nomi di punta della scena alternativa britannica. Perché è pur vero che il richiamo ai maestri
Genesis è spesso evidente, come un debito originario che sarebbe inutile provare a negare, ma è altrettanto chiaro che Gregory Spawton, Andy Poole e il nuovo vocalist David Longdon, insieme al batterista aggiunto Nick D'Virgilio, viaggiano ad occhi bene aperti nella musica odierna, senza atteggiamenti "regressive", ma badando solo a conservare il meglio degli anni settanta all'interno di una musicalità elaborata, consapevole e moderna. Il risultato è una sequenza magnifica, distribuita in sei episodi, che scioglie ogni riserva preconcetta fin dalle prime note di "Evening Star", con le voci a cappella che introducono una fascinosa partitura: violoncello, mellotron, flauto, ma anche trombone, corno francese e tuba, sono protagonisti di un primo atto che conquista immediatamente.
In effetti, al trio di base bisogna aggiungere un vasto stuolo di strumentisti ospiti che contribuiscono quasi in ogni brano ad arricchire di sfumature le musiche firmate da Spawton (chitarre, tastiere, basso), e arrangiate con Andy Poole (basso e tastiere) e David Longdon (voce e flauto). In particolare, è negli episodi più estesi del disco che la struttura aperta del gruppo inglese si rivela vincente. Il suono finisce per dare l'idea di un rock sinfonico quasi orchestrale, che rimpolpa i temi portanti attraverso elaborati passaggi successivi: ad esempio "Victorian Brickwork", una dinamica escursione rock solida e cangiante insieme, con morbidi impasti vocali e intervalli di synth e chitarra elettrica, che sfocia in un maestoso finale dominato dai fiati, con la cornetta di Rich Evans in testa. Da brividi.
Anche la lunghissima title track, di oltre venti minuti, esalta la struttura sinfonica del gruppo: è veramente notevole la disinvoltura con la quale l'incalzante scansione ritmica garantita dalla batteria di Nick D'Virgilio si accompagna al lavoro complesso e rifinito delle tastiere (mellotron e synth soprattutto), della chitarra e quindi della corposa sezione fiati, in una successione di tonalità epiche e drammatiche, senza peraltro che venga mai meno l'unità profonda del pezzo. Una prova magistrale, che certifica il valore della band, con una menzione speciale per la voce eclettica di David Longdon, interprete di prim'ordine e sicuramente decisivo nell'economia dell'intero album.
Oltre al succitato Rich Evans, altri ospiti degni di menzione che affiancano il nucleo dei Big Big Train sono senz'altro il chitarrista Dave Gregory, eccellente solista soprattutto in "Master James of St. George" e "Last Train", e poi il violoncellista Jon Foyle, che col suono lamentoso del suo strumento conferisce alla musica quel tratto malinconico e uggioso davvero molto "british" che fa un po' da filo rosso di tutta la sequenza: cito per tutti "Winchester Diver", episodio che viaggia davvero in una dimensione sospesa, grazie anche all'ottimo flauto di Longdon.
Evocativo e romantico, nostalgico a tratti, ma anche capace di mescolare le carte con sapienti incursioni nei territori post-rock e fusion, "The Underfall Yard" non presenta praticamente punti deboli. Il particolare fascino sprigionato dalla musica è probabilmente anche un riflesso delle belle liriche scritte da Spawton, che sembra aver attinto in pari misura a vecchie cronache di età vittoriana e alle proprie vicende biografiche, in riferimento soprattutto al legame con un fratello scomparso. Di qui, forse, l'impronta vagamente decadente di questo disco davvero bello e prezioso: un vero gioiello che il progressive britannico di oggi, per fortuna, è ancora capace di regalare a chi ha orecchie, e cuore, per intendere. Probabilmente una delle migliori realizzazioni prog del 2009.

         Per informazioni e contatti: www.bigbigtrain.com/


Gan Eden-Il Giardino delle Delizie - "Ritratto di ballerina" (AMS/BTF, 2009)

Unico titolare del marchio Gan Eden-Il Giardino delle Delizie è Angelo Santo Lombardi: non una band dunque, ma un progetto solista nel senso più pieno del termine, dato che il musicista scrive tutte le parti strumentali, suonando in prima persona le tastiere, e affidando al solo Gabriele Paganoni chitarra, batteria e basso .
L'album, il secondo firmato Gan Eden dopo "Lavori in corso" nel 2007 (ma Lombardi ha pure inciso nel 2004 un altro album a suo nome), contiene quattro tracce che fanno capo a una precisa idea concettuale: vale a dire, per citare le sue stesse parole, "qualcosa che esprimesse la sofferenza che prova un artista nella sua lotta per emergere." In realtà il cd contiene in coda anche una quinta traccia "fantasma", la cover della celebre "Emozioni" di Lucio Battisti, dedicata ai genitori. Ad un primo ascolto, comunque, "Ritratto di ballerina" è il classico disco che, proprio per la sua impostazione solistica a tutto tondo, può suscitare opposte reazioni nell'ascoltatore: entusiasmo o irritazione.
Per entrare subito nel merito, l'apertura della title-track ci offre un condensato eloquente dell'arte di Lombardi: un organo dal timbro maestoso, oltre a un pianoforte piuttosto classicheggiante e al synth, sono la solida base sonora di un progressive piuttosto dinamico, ricco di fratture ritmiche che scongiurano il rischio della noia in favore di uno sviluppo ben articolato, a struttura circolare.
Interessante anche il testo, ben cantato dallo stesso Lombardi, che cattura il senso di una tensione creativa portata avanti in un isolamento quasi "titanico". Sono interessanti soprattutto le variazioni al pianoforte e le belle coloriture del moog, in un insieme che dimostra tutta l'abilità tecnica e compositiva del tastierista.
Se questo è forse l'episodio più brillante del disco, gli altri pezzi risultano ugualmente interessanti, anche se con toni disuguali e meno compatti, specie nella lunga "Reazioni a catena". Qui, a cominciare dal testo recitato dal tastierista come una puntigliosa dichiarazione di poetica, i diversi temi si avvicendano come scansioni di una vera suite aperta a suggestioni più frastagliate: il pianoforte inanella brevi frasi ripetute all'interno d'uno schema più ostico, attraversato da suoni sintetici e sincopi irregolari, fino all'arrivo dell'organo e della chitarra che fanno il suono più corposo, con squarci di vero rock. Piano e organo sviluppano quindi una serie di combinazioni piuttosto serrate, affiancate dal synth, tra pause rarefatte e brusche accelerazioni. Un episodio comunque intenso, che mantiene una certa tensione fino in fondo.
L'utilizzo dell'organo da chiesa, molto presente nel disco, si fa più massiccio nella quarta e conclusiva traccia, "L'epilogo", con le sue fughe iniziali, che poi a sorpresa cedono il passo a un tirato fraseggio rock, con chitarra e batteria in primo piano. Le liriche, stavolta in inglese, s'inseriscono ancora con buon effetto nel vivace tessuto strumentale che si placa infine sul pianoforte, prima d'incorporare, dopo una pausa, la citata cover battistiana.
Decisamente a parte nella sequenza, si colloca poi un brano come "Impulsi emotivi": si tratta di una incisiva improvvisazione di Lombardi al pianoforte, che rimarca la padronanza e anche la versatilità della sua ispirazione, tutt'altro che monocorde.
Come detto, un album del genere può raccogliere elogi e critiche in ugual misura: personalmente vedo "Ritratto di ballerina" come un discreto esempio di fusione tra un progressive rock di buona fattura e aspirazioni più variegate, spesso eleganti, che alla fine riesce a coinvolgere con la sua composita ricetta musicale.
Niente di sconvolgente, forse, rispetto alle sonorità "settantiane" che sicuramente ispirano Lombardi, ma considerando che si tratta di un progetto solistico, non mi sembra affatto un risultato scontato: si potrebbero infatti citare molti progetti consimili naufragati nell'eccesso, se non nella noia. La nuova prova di Angelo Santo Lombardi, in arte Gan Eden, è invece nel suo complesso un buon disco, che potrebbe riservare piacevoli sorprese al pubblico dei prog-fans, e magari non solo.

         Info e contatti: ganedenilgiardinodelledelizie.jimdo.com/    Leggi l'intervista


Raven Sad - "We Are Not Alone" (Lizard Records, 2009)

Dietro la sigla Raven Sad c'è un solo musicista, ovvero il pratese Samuele Santanna, che con "We Are Not Alone" arriva al suo secondo disco dopo l'esordio di "Quoth". I suoi riferimenti dichiarati sono le sonorità space-rock dei Settanta, inclusi i corrieri cosmici, e un prog atmosferico, liquido e vagamente "ambient", nel quale elettronica, suoni campionati e strumentazione analogica cercano una personale convivenza. Riuscita?
Diciamo subito che l'album è piacevole, suonato e prodotto con amorevole cura artigianale, ma che personalmente mi ha convinto solo in parte. Questione di gusti o semplici idiosincrasie, forse. Comunque, l'importante è spiegarsi, e allora proverò a entrare nel merito della proposta musicale firmata Raven Sad.
I brani sono undici, alcuni molto brevi, altri più estesi, tutti però unificati sotto il concetto espresso dal titolo: ecco spiegata la continua presenza di voci e interferenze varie che creano tra un episodio e l'altro una sorta di osmosi sonora rispondente all'idea di un universo più vasto e composito di quel che conosciamo. Tecnicamente parlando, l'effetto complessivo richiama alla lontana il collage di "Dark Side of the Moon", coi suoi spazi parlati collocati ai margini della musica, ma più spesso ancora le suggestioni di molta musica ambientale, che scivola ambiguamente tra rumori "rubati" e suoni sintetici, creando un amalgama a volte affascinante e ipnotico, altre volte semplicemente ripetitivo.
Santanna canta (quattro pezzi su undici) e suona in prevalenza le chitarre, ma si avvale anche di altri musicisti impegnati soprattutto alle tastiere (Marco Chiappini e Fabrizio Trinci), per dare alle sue composizioni una forma più organica. In realtà, le differenze sono minime, e il disco mantiene dall'inizio alla fine una sua compatta omogeneità stilistica, col rischio però di suonare un po' stancante per la limitata varietà delle soluzioni.
Indubbiamente bella è "More Life Forms", composizione lenta e avvolgente, ben interpretata dalla voce di Santanna, altrove meno efficace, che sfodera anche un tocco di chitarra molto raffinato. Forse è il momento migliore di una sequenza piuttosto altalenante nei risultati. "Meteor" gioca su ritmi sintetici più ossessivi, e si giova anche del sax di Gilberto Giusto: tra elettronica e breaks fiatistici, è un episodio che ben rappresenta una tendenza generalizzata a creare atmosfere sospese, calate in una dimensione indefinita, qui non particolarmente originale.
Nelle due parti di "An Awful Waste OF Space" il richiamo ai cosmici tedeschi è più che evidente, sia pure ricondotto in un ambito meno avventuroso, più sereno e rassicurante: synth e chitarre disegnano uno scenario ipnotico di buon effetto nel primo segmento, mentre nel secondo il pianoforte di Fabrizio Trinci aggiunge una nota più pensosa, in combinazione con la chitarra acustica. Ancora più rarefatta è la lunga "Not Ready To Know", costruita con certosina attenzione intorno a poche note di chitarra integrate dal sax, nel consueto tessuto di effetti elettronici e tastiere. Una traccia intrigante e molto rappresentativa dello stile di Santanna.
L'altro pezzo particolarmente lungo è proprio la title track posta in coda all'album: rispetta fino in fondo, in chiaroscuro, i tratti salienti del suono-Raven Sad, che fa dell'elettronica la sua cifra più riconoscibile. Come in altri pezzi del disco, Santanna canta e suona qui tutto solo chitarra, basso, synth e drum programming, oltre a organizzare i vari effetti speciali.
A questo proposito, viene da pensare che forse l'utilizzo di una vera batteria, e più in generale di una strumentazione analogica qua e là, avrebbe reso il suono più corposo e incisivo di quanto non sia. "We Are Not Alone" non è un brutto disco, comunque: per quanto eccessivamente lungo, offre sicuramente suggestioni interessanti a quanti hanno amato le sonorità psico-elettroniche d'annata, aggiornate con tutto il repertorio moderno di certo "ambient". A mio parere, però, questo è il punto, gli manca quasi sempre il guizzo decisivo a colpire l'immaginario, così da lasciare veramente il segno in chi ascolta. Peccato.

         Per informazioni e contatti: www.facebook.com/raven.sad.58


Astra - "The Weirding" (Rise Above, 2009)

In tema di novità discografiche, in ambito prog, ci si può imbattere in almeno tre categorie di proposte: la prima, e più diffusa, è quella che potremmo definire una sorta di "clonazione" delle sonorità classiche del genere; all'opposto, in minoranza, stanno le proposte che si sforzano di rinnovare la formula vintage più nota e guardare avanti; da ultimo stanno invece soluzioni a metà tra le une e le altre, che cioè pur facendosi ancora interpreti di certi stilemi d'annata, denotano al tempo stesso una loro personalità.
Gli Astra, band californiana che fa il suo esordio con "The Weirding", rientra a mio avviso in quest'ultima corrente. L'album è lunghissimo e a suo modo sontuoso: un concentrato di atmosfere stilisticamente ben collocate negli anni d'oro del rock progressivo più tipico, che probabilmente farà la gioia di quanti stravedono per certe sonorità. Non si può dar loro torto, in effetti, perché questo quintetto non sembra tanto interessato al puro esercizio stilistico, quanto realmente "posseduto" dal demone del prog settantiano, come se certe soluzioni, perfino una certa timbrica strumentale, facessero parte del DNA di questi ragazzi. E questo, per certi versi, fa la differenza, e costituisce il fascino innegabile di questo disco.
I brani sono otto, alcuni di considerevole durata, e proprio in questi ultimi si può notare la peculiarità del gruppo statunitense: una sorta di vera "voluttà" ch'emana direttamente dal disco come un incantesimo e accalappia l'ascoltatore, complice di quest'avventura felicemente regressiva nel nome del passato. Tra il romantico tocco dei Genesis, la spericolata visionarietà dei King Crimson prima maniera, e le asperità gotiche e oscure di altri nomi storici del firmamento prog-psichedelico, gli Astra riescono di sicuro a coinvolgere, spesso a commuovere perfino, anche se alla fine non sempre convincono.
"The Rising of the Black Sun", tra spirali di flauto, arpeggi chitarristici e percussioni assortite, introduce subito il mondo espressivo del gruppo: il riff chitarristico è potente e insistito, così come il drumming di David Hurley, disegnando uno scenario gotico sottolineato dal mellotron. Non ci poteva essere un biglietto da visita più eloquente.
L'ossatura del disco si regge soprattutto sui due polistrumentisti Richard Vaughan e Conor Riley: oltre a disimpegnarsi entrambi alle chitarre, il primo suona in particolare synth e mellotron, mentre il secondo aggiunge al resto anche organo e pianoforte. Fondamentale nell'economia del suono-Astra è però anche un chitarrista "ricco e abbondante" come Brian Ellis, che connota quasi tutti i brani con la sua verve pirotecnica che pare graffiare indelebilmente lo spartito costruito dai compagni. Una ricetta, insomma, che non passa inosservata. La lunga title-track è un efficace compendio delle qualità espressive messe in campo dai cinque: si distingue il cantato alla Peter Gabriel, in uno schema prima gentile e raccolto, che si apre poi sul mellotron visionario e sulle lunghe digressioni chitarristiche, di taglio psichedelico e acido, in un ondivago alternarsi di tonalità liriche e apocalittiche ad effetto. Bello.
Nella sequenza affiorano anche episodi più morbidi, come "Broken Glass", un breve motivo cantabile cullato da un arpeggio delicato, ma il resto vive tutto all'insegna del rock più ambizioso e potente. Tipici manifesti di questo stile sono "Silent Sleep", più romantica e ancora nel solco dei Genesis, e poi "Ouroboros", forse il picco dell'album: aperto dalla chitarra solista e poi dirottato lungo scenari sinfonici e decadenti, con l'organo e la chitarra che procedono appaiati in felice contrappunto, il brano sviluppa una progressione magnifica di grande potenza, dove Ellis fa parlare il suo strumento con rara intensità. Sono momenti che suscitano una sorta di autentica "trance" estetica: di colpo sembra di essere ancora nel cuore degli anni Settanta, quando suoni simili aprivano orizzonti inediti alla musica rock, divenuta a un tratto il ricettacolo perfetto di tante suggestioni diverse, colte e popolari al tempo stesso. Sembra che gli Astra si siano fermati lì.
Anche lo strumentale "The Dawning of Ophiuchus" è particolarmente evocativo: chitarra e synth creano un'atmosfera cosmica molto seducente, quasi sospesa in un vuoto siderale dove tutto potrebbe succedere. La musica qui gira su se stessa, è una bolla sonora autosufficiente e fuori del tempo. Il fascino ambiguo degli Astra sta appunto in questa sospensione spazio-temporale che accomuna tutti quegli artisti che ripercorrono le tracce del progressive classico: da un lato il piacere dell'ascolto è assicurato, dall'altro è lecito chiedersi se non si dovrebbe pretendere qualcosa di nuovo da chi oggi suona prog. Sta di fatto che anche l'epilogo del disco, "Beyond to Slight the Maze", con i fraseggi organistici di Riley in bella evidenza, conferma questo culto per la musica che fu, con tutti gli ingredienti giusti al loro posto.
Per quanto probabilmente eccessivo nella durata, "The Weirding" è un disco suonato benissimo, con un'adesione totale e apparentemente genuina alle formule sonore che hanno fatto la storia del rock progressivo: più che un semplice manierismo, insomma, quello degli Astra appare in definitiva un modo di essere e di sentire la musica che non lascia indifferenti: emoziona e trascina, nonostante tutte le riserve che si possono avere, proprio come se il tempo non fosse trascorso. Da ascoltare.

         Per informazioni e contatti: www.astratheband.com/


Viima - "Kahden Kuun Sirpit" (Viima Records, 2009)

I finlandesi Viima, che giungono alla seconda prova discografica dopo l'esordio di "Ajatuksia maailman laidalta" (2006), sono a mio avviso l'esempio migliore di quello che sostengo da tempo parlando delle nuove band che fanno progressive. Perché qui c'è un dischetto di poco superiore ai 40 minuti, ma in questa breve sequenza musicale non troverete mai una nota fuori posto e, soprattutto, non avrete l'impressione di una musica che gira a vuoto: i cinque componenti del gruppo di Turku hanno realizzato un album davvero bello, dove si apprezza la compiutezza di uno stile mai ridondante, che matura assecondando le proprie inclinazioni stilistiche invece che inseguire suggestioni sparse o facili formule di dubbio gusto.
"Kahden kuun sirpit", che è costato alla band circa due anni di lavoro, ci offre quattro brani, tre di media durata più la lunga suite del titolo, tutti improntati a uno stile sinfonico intriso di qualche ricordo di Canterbury, ma soprattutto legati al tipico tocco che connota tutte le produzioni che arrivano dai paesi del Nord Europa: passo elegante e felpato, evocazione di grandi spazi naturali e malinconia crepuscolare distillate in un rock che solo all'apparenza può suonare freddo, quando invece cattura semplicemente una dimensione diversa e più meditativa.
Questo è particolarmente vero per il secondo episodio del disco, "Unohtunut", col suo attacco solenne sulle tastiere di Kimmo Lahteenmaki, e la parte lirica sottolineata dal canto evocativo del fiatista Hannu Hiltula: gli spazi di mellotron e pianoforte, accompagnati dal flauto, ci portano in una natura libera e incontaminata, dove poi fanno il loro ingresso anche la chitarra elettrica di Mikko Uusi-Oukari e la sezione ritmica in una seconda parte di esemplare pulizia formale. Un piccolo gioiello che fotografa un quintetto nel suo momento migliore.
Più vivace, con le sue garbate cadenze folk ancora guidate dal flauto, è l'iniziale "Autio pelto": l'impasto sonoro vede la chitarra solista più in evidenza nel cuore del tema dominante, con le sue note cristalline che richiamano alla mente i
Focus più classici. Interessante anche il lavoro del synth che colora il pezzo, e il cantato in lingua finlandese sempre di buona fattura.
Il fiatista è protagonista soprattutto di "Sukellus", unica traccia interamente strumentale, col suo sax soprano che scandisce la brillante tessitura del pezzo insieme all'organo: il synth entra quindi in scena insieme al mellotron che introduce dopo una frattura una seconda parte più misteriosa, con il sax che torna in primo piano con godibilissime variazioni così come la limpida chitarra solista.
La lunghissima title track di quasi ventitré minuti, il cui testo è dedicato alla storia della città di Turku, raduna tutte le qualità già emerse del gruppo in una partitura più elaborata e ricca di sfumature, senza per questo perdere la sua peculiarità di fondo: un senso innato della misura e un gusto per le soluzioni più eleganti che rifuggono eccessi e forzature. Anche qui la solennità del mellotron e le spirali del flauto disegnano uno scenario che prende gradualmente corpo sul tranquillo canto solista, l'ondivaga pulsazione ritmica e le coloriture sinfoniche delle tastiere, ben integrate dal gioco dei fiati: spazi assorti e trasognati ci vengono incontro attraverso le note cesellate del gruppo, tra chitarre (elettriche e acustiche), organo e synth mirabilmente orchestrati a comporre un insieme raffinato di sicuro fascino.
Un album come "Kahden kuun sirpit" ha insomma tutte le carte in regola per attrarre i fans del rock progressivo: riporta in auge le migliori pagine del sinfonismo anni Settanta ma incastonate in una ricetta sonora che personalizza la sua ispirazione, delicata e poetica, nel richiamo alla ricca tradizione della scena nordica. Una tradizione che già in passato ha regalato perle e ancora oggi, con dischi del genere, mostra una tenuta davvero eccellente.

         Per informazioni e contatti: www.viima-org/


Beardfish - "Destined Solitaire" (Inside Out, 2009)

Questo è il quinto album pubblicato dagli svedesi Beardfish, e pone alcuni interrogativi sull'identità musicale di una band che pure possiede indubbie qualità.
"Destined Solitaire" contiene nove pezzi per una durata complessiva a mio parere eccessiva, dato che sfido qualcuno, al giorno d'oggi, ad ascoltarsi un'ora e un quarto di musica in un colpo solo. Il risultato è per forza di cose un deficit di attenzione che tende a diluire l'ascolto del disco nel tempo, riducendone fatalmente l'impatto complessivo. Come se non bastasse, a questo si aggiunge che il materiale dei quattro svedesi sfugge ad ogni rigida classificazione di genere. Siamo in un contesto progressivo, d'accordo, ma questo non serve affatto a definire l'essenza di un'ispirazione musicale davvero camaleontica, che mette insieme rock barocco e patafisica canterburiana, jazz-rock smaliziato e accattivanti pop songs melodiche, acidità post rock e perfino accenni di heavy metal, con l'utilizzo del tipico "growl" da parte del cantante Rikard Sjoblom: succede nella seconda traccia che intitola il disco, per altro una delle più ineffabili della sequenza.
Ineffabile è davvero lo stile dei Beardfish, per la varietà sorprendente dei richiami sonori che compongono un affresco cangiante, nel bene e nel male, col rischio di saturare l'ascoltatore, spiazzato da tante fonti diverse. La citata title track, per entrare nel merito, affastella il gioco incisivo delle chitarre con il cantato vario e ben impostato, in un insieme sempre ben congegnato e suonato, va detto, con ammirevole affiatamento. Ancora più lunga e complessa è "Until you Comply", oltre quindici minuti dove non è difficile cogliere citazioni del Canterbury più melodico, calato in uno spartito elastico nel quale l'organo dello stesso Sjoblom costituisce l'ossatura principale, tra parentesi di raccolto lirismo ed enfatici crescendo, fino al picco chitarristico di David Zackrisson nel finale.
E' una musica ricca e trasversale, che fuga sicuramente il rischio della noia. Quando il gruppo si compatta, poi, riesce a sfoderare autentiche perle: ad esempio "Where the Rain Comes In", dove il fraseggio tastieristico va di pari passo con la bella voce solista, sempre ondivaga e ricca di sfumature, in un rock barocco di squisita fattura e a tratti davvero trascinante.
Ancora più sorprendente un episodio strumentale come "Coupe de Grace", che spicca soprattutto per la bella coesistenza tra l'accordion e l'organo, in un impasto a mio avviso decisamente originale che sottolinea, se ce ne fosse ancora bisogno, l'estrema versatilità della band scandinava: l'uso intelligente del synth e la buona presenza del basso (Robert Hansen) fanno del pezzo uno dei gioielli del disco. L'altro strumentale "Awaken the Sleeping", posto in apertura, è uno dei momenti più vicini alle sonorità del prog barocco d'annata, con la sua tessitura speziata di tastiere e chitarre, e la ritmica nervosa che apre continue digressioni all'interno del tema principale.
A parte "In Real Life There's No Algebra", che si segnala per una scansione sincopata dominata stavolta dalla chitarra, il resto dell'album impasta tutte queste influenze in lunghe galoppate strumentali dove si riafferma il virtuosismo tastieristico di Sjoblom, assieme all'articolazione sempre notevole delle parti vocali, come in "Abigail's Questions", ma con qualche lungaggine di troppo. In un angolo, perfetto nella sua brevità, sta invece un pezzo delizioso come "At Home...Watching Movies", che cattura con eleganza una suggestione malinconica sulle corde della chitarra acustica.
Piccole gemme del genere danno l'esatta misura del talento indiscutibile del gruppo. "Destined Solitaire" è un disco che trasuda grandissima vitalità, mostrando un potenziale sonoro debordante che pure, paradossalmente, è anche il vero problema dei Beardfish attuali: se solo riuscissero a focalizzare meglio il proprio repertorio in una sintesi più organica, non esiterei a metterli tra i primissimi gruppi che oggi suonano rock progressivo. In ogni caso, l'album contiene momenti molto belli, e così ben suonati, che mi sento di raccomandarne senz'altro l'ascolto.

         Per informazioni e contatti: www.beardfishband.com


Ubi Maior - "Senza Tempo" (AMS-BTF, 2009)

Sono trascorsi quattro anni dal disco d'esordio degli Ubi Maior: "Nostos", pubblicato appunto nel 2005, rivelava una band molto interessante, alle prese con un rock progressivo che s'innestava abilmente, con piglio decisamente dark, sul ceppo della migliore tradizione italiana dei Settanta. Il risultato era notevole, ma disuguale, con qualche episodio slegato dal resto.
Il gruppo milanese che si ripresenta ora con "Senza Tempo" sembra aver eliminato certe sbavature, e il disco suona indubbiamente molto compatto dall'inizio alla fine. Probabilmente gli giova anche l'ispirazione unitaria delle liriche, basate s'una "graphic novel" di culto come Sandman, di Neil Gaiman, che aiuta i cinque musicisti a incanalare la propria creatività in una precisa direzione lirico-stilistica.
L'album si compone dunque di dieci segmenti organicamente collegati, con un affinamento di quelle qualità espressive già emerse nella prova precedente: un gioco aggressivo e ben organizzato delle chitarre e delle tastiere intorno all'ottima voce solista di Mario Moi, che ha il ruolo più delicato come interprete della gamma emotiva, ampia e frastagliata, che colora peculiarmente i singoli passi del racconto. Il suono dei nuovi Ubi Maior, peraltro in formazione immutata rispetto al debutto, risulta insomma più fluido, e articolato con bella duttilità intorno ai suoi elementi portanti. Soprattutto la componente drammatica e visionaria, che sembra il tratto veramente distintivo del gruppo, viene esaltata compiutamente nel nuovo progetto, senza certe discrepanze che emergevano in passato.
Lo si nota nei brani più estesi, soprattutto. Ad esempio "Sogno", con la sua enfasi da classico hard-rock sulla chitarra di Stefano Mancarella, e le coloriture intriganti di organo e mellotron (Gabriele Dario Manzini): la voce di Moi si muove con disinvolta autorevolezza all'interno d'un tessuto rock che s'apre in parentesi inopinate, a tratti quasi rarefatte, prima di ricompattarsi con naturalezza dietro le taglienti note della chitarra. E' un saggio eccellente delle migliori qualità del gruppo, ribadite anche altrove. "Disperazione", più breve, sceglie un registro espressivo molto raffinato, con il canto cullato dalla chitarra acustica che sale di tono, mentre la musica si ramifica tra sinistri bagliori, sottolineati anche dal basso di Walter Gorreri, in un crescendo di grande effetto.
Alcuni episodi, nel disco, rimandano da vicino al prog più classico senza che questo suoni riduttivo, anzi: "Delirio", per citarne uno, porta in cattedra soprattutto l'organo Hammond e il pianoforte di Manzini accanto alla chitarra, in uno schema molto seducente e dal mobile disegno, nel quale i soprassalti lirici si alternano a delicati inserti di violino, con il basso sempre incisivo nel lavoro di raccordo. Un brano come "Destino" ribadisce poi questa capacità di abbinare le tonalità più dure, tipicamente dark-rock, con inserti lirici dove la voce scivola fluidamente su arpeggi prettamente acustici prima del gran finale.
Il punto di raccordo del lavoro, che fa un po' da filo rosso al'intera sequenza, è costituito dalle quattro parti di "Morte": molto suggestivi soprattutto il primo tempo, che apre l'album con la giusta dose di intensità drammatica, e poi il terzo, con il refrain ossessivo di piano e chitarra acustica intorno al canto assorto di Moi, che in pochi versi sa esprimere la tensione ideale del personaggio narrante.
Sono sfumature, queste, che confermano le qualità e lo spessore di un disco che sembra non lasciare niente al caso, trovando un dosaggio davvero notevole tra il piglio più sanguigno del rock elettrico e le finezze liriche di un mondo fondamentalmente romantico, combattuto tra fantasmi e ossessioni ricorrenti.
"Senza Tempo", per tirare le somme, è un gran bel disco. Suonato con grinta e intensità da cima a fondo, senza veri punti deboli, è un manifesto di musica rock progressiva ormai matura, dove gli Ubi Maior sanno far convivere le formule del passato e le sonorità del presente con una facilità solo apparente: in realtà bisogna davvero sottolineare l'ammirevole sforzo della band, intelligente quanto basta per lavorare con umiltà sui propri limiti e superarli in questa convincente seconda prova. Un esempio da seguire, e un disco da non lasciarsi sfuggire.

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Kotebel - "Ouroboros"(Musea Records, 2009)

Questa band, fondata a Madrid dal tastierista venezuelano Carlos Plaza sul finire degli anni Novanta, giunge con "Ouroboros" al suo quinto album ufficiale. Rispetto al precedente "Omphalos" (2006) l'organico si è stabilizzato in un quintetto dove spicca la doppia tastiera, con Adriana Plaza accanto a Carlos, e mancano invece i fiati, come pure le parti vocali.
La scelta del leader, per questo nuovo progetto, è dunque quella di dare il massimo risalto alla parte strumentale, che in questo caso è ispirata a un mondo arcano, popolato da creature leggendarie presenti nelle culture e nei miti più antichi. A prima vista, una fonte perfetta per sbrigliare la fantasia di Plaza e compagni, anche sulla scorta, se vogliamo, di tanto progressive classico che ha spesso saccheggiato soggetti del genere in maniera più o meno riuscita.
La suite principale dell'album è intitolata appunto a "Ouroboros", vale a dire il serpente che divora se stesso, arcaico simbolo del ciclo della vita che si rinnova continuamente: si tratta di nove segmenti elaborati a partire da un tema iniziale, e dispiega al meglio l'arte del gruppo, attraverso una sapiente costruzione dominata da un mellotron maestoso sul quale la chitarra solista di César Garcia Forero interviene con bella duttilità. L'atmosfera creata è indubbiamente suggestiva, ben bilanciata tra momenti più rarefatti, col piano classico spesso protagonista, e corposi ritorni di fiamma con la ritmica e la chitarra in primo piano.
Nelle vivaci sonorità del synth, anche nell'apertura di "Amphisbaena", si avvertono qua e là echi di celebri suite degli anni Settanta: in particolare vengono in mente certi passaggi del
Banco di "Darwin", sia pure articolati qui con un'enfasi barocca più insistita, proprio perché manca al gruppo spagnolo il momento liberatorio del canto e il focus ispirativo si concentra tutto sull'articolazione complessa del tema musicale.
Molto bella anche "Behmoth", tra le cose più riuscite del disco, dedicata a una sorta di colossale ippopotamo biblico, e dunque caratterizzata da un andamento lento e solenne, sottolineato dal colore epico del mellotron e da riff chitarristici in tono. "Satyrs" è un altro momento con la chitarra di Garcia Forero in evidenza: il pezzo ha una struttura rock più definita, con sincopi ritmiche che scandiscono la progressione elettrica, mentre il piano fa come da contraltare, molto efficace, con le sue brevi incursioni jazzate.
Il mosaico sonoro dei Kotebel ha effettivamente un fascino particolare. Un certo classicismo, evidente nella concezione stessa delle trame strumentali, ma anche nelle ricche sfumature timbriche, va di pari passo con il carattere evocativo e molto eclettico di ogni passaggio musicale, nel quale coesistono diversi registri e influenze composite, tutte però amalgamate con sapienza all'interno di una stessa ispirazione, come affluenti che irrorano il medesimo corso d'acqua. Una musicalità solida quanto libera nelle sue varie articolazioni, che finisce per intrigare solo dopo ripetuti ascolti.
La personalità raggiunta dal quintetto si conferma anche nei restanti episodi dell'album: da "Simurgh", con la sua elegante progressione sulle note limpide della chitarra solista, ben sostenuta anche dalle vivaci percussioni di Carlos Franco Vivas e dal piano, fino alla brillante chiusura di "Legal Identity V1.5", dove il ritmo frantumato e nervoso si apre in un crescendo drammatico alle ficcanti incursioni di synth, chitarra e piano in uno dei pezzi più tirati e tumultuosi del disco. Come bonus track, in coda, c'è anche la lunga "Mysticae visiones", in una bella esecuzione live registrata durante il Gouveia Art Rock edizione 2001.
In conclusione, "Ouroboros" ha tutte le carte in regola per catturare l'attenzione dei progsters più esigenti: la sua ricetta peculiare è infatti un art rock tecnicamente raffinato ma non arido, suonato con grinta e duttilità nella costante ricerca, soprattutto, di un paesaggio musicale evocativo quanto originale, sia pure nel solco di una ricca tradizione. Un paesaggio mentale, quello dei Kotebel, che insegue la terra promessa del migliore rock progressivo di sempre: la musica che ancora non c'è. Consigliato.

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Arpia - "Racconto d'inverno" (Musea Records, 2009)

Ci sono artisti che sfuggono alle definizioni, e sembrano concepire la loro creatività come un perenne divenire nutrito di suggestioni così variegate da spiazzare continuamente le attese. Credo proprio che Leonardo Bonetti, con i suoi Arpia, appartenga a questa meritoria schiera di musicisti.
In effetti, chi a suo tempo aveva apprezzato un album come
"Terramare", avventuroso viaggio attraverso i secoli e la poesia della mutevole rappresentazione dell'Eros, si aspetterà forse di ritrovare anche in "Racconto d'inverno" quella stessa cifra stilistica: un duttile hard progressive dalle sfumature dark, suonato con un piglio piuttosto personale. Invece no, gli Arpia ci offrono stavolta qualcosa di profondamente diverso.
Bisogna tener conto che il progetto è ancora più ambizioso: cioè un disco che nasce quasi in simbiosi con l'omonimo romanzo scritto da Bonetti, e che cerca dunque di restituirne l'essenza attraverso i suoni. Il bello è che il gruppo sceglie a questo scopo una chiave musicale davvero inopinata, vale a dire una sorta di lunga suite ininterrotta che scarta a priori la dimensione del rock elettrico in favore di un suono in larga parte acustico, con le voci costantemente in primo piano.
Ecco, in quest'operazione sorprendente rispetto al passato, c'è qualcosa che rimane, e anzi si rafforza negli equilibri della band romana: la forza delle voci, appunto, che qui costituiscono davvero l'asse portante del disco. Se in "Terramare" la brava Paola Feraiorni era una presenza esterna, per quanto eccellente in alcuni episodi, ora il suo contributo vocale è almeno pari a quello di Bonetti, e il loro serrato binomio, lungi dall'esaurirsi in una mera riproposta del testo letterario, tocca dei vertici espressivi assoluti, che splendono di luce propria.
Si direbbe che l'idea sia quella di restituire allo strumento umano per eccellenza, la voce appunto, il ruolo che spesso il rock, specie quello italiano anche più grande, ha spesso mortificato e relegato in secondo piano. Bonetti deve aver pensato che, al contrario, solo il gioco di due voci in eterna dialettica potesse cogliere davvero la sostanza emotiva del suo racconto, così ambivalente e risonante: tra verità e delirio, passione e nichilismo, il filo conduttore più appropriato doveva essere proprio quello che scaturisce dalle vibrazioni emotive delle parti cantate, scavalcando l'impatto strumentale più sanguigno, ma forse anche più convenzionale e astratto. E' una scommessa, certo, ma secondo me vinta alla grande.
Come detto, la sequenza musicale scorre senza pause dal principio alla fine: i diciannove frammenti si succedono come un solo flusso emotivo, con i temi e le armonie vocali che spesso ritornano, si sovrappongono e s'intrecciano magicamente tra di loro, senza un attimo di noia. Non che la musica si riduca a semplice appendice, però: pur nella scelta acustica, quasi di basso profilo, le percussioni di Aldo Orazi, la chitarra di Fabio Brait, oltre al basso e alle tastiere dello stesso Bonetti, esprimono nella loro sobrietà un colore perfettamente intonato al contenuto delle liriche, sottolineandolo a dovere, come una cornice idonea a far meglio risaltare il quadro.
Proprio questa struttura profondamente unitaria, rende davvero difficile indicare i singoli episodi più riusciti di un racconto musicale tanto organico: tutto si tiene, in "Racconto d'inverno", e si deposita con la medesima intensità da cima a fondo. Mi piace comunque citare "Dimmi chi sei", che sembra prefigurare l'incontro tra i due protagonisti, e poi l'intensa sequenza "Ladri e stranieri"/"Soldati!", dove il duetto tra i cantanti si fa più stringente, con un pathos ben sostenuto dalle percussioni: ennesima dimostrazione, tra l'altro, della straordinaria verve di Paola Feraiorni, duttile quanto espressiva e capace di sfumature che arricchiscono di senso le belle liriche di Bonetti. In questo senso, sono di grande effetto anche "Casa non mai vista" e, ancora meglio, "Cristo guarito".
A livello strumentale, nell'ultima parte dell'album le tastiere salgono al proscenio per catturare la discesa del protagonista nel labirinto di una casa che sprigiona insieme mistero e promesse: è il caso di "Requiem" e soprattutto de "Gli scantinati", con le sue tonalità oscure e incombenti.
Insomma, comunque lo si guardi, "Racconto d'inverno" ha il fascino irresistibile dei dischi più audaci: prima infatti stupisce e disorienta, poi conquista con la sapiente alchimia di due voci magnifiche, che regalano emozioni con apparente naturalezza in uno spartito musicale che scorre con quella consumata semplicità che, al contrario, rivela consapevolezza e idee chiarissime. A mio avviso un piccolo capolavoro, che mi sento di consigliare a chi ama la musica in quanto tale, e non le etichette e le ricette più ovvie.
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Wobbler - "Afterglow" (Termo Records, 2009)

Questo secondo disco dei Wobbler, band norvegese formata nel 1999, si pone senza mezzi termini nel solco del prog sinfonico-barocco dei Settanta: è una di quelle operazioni che presentano sempre una certa ambiguità, e fanno anche parlare di formule stantie che andrebbero rinnovate, per non scadere nella pura archeologia musicale.
Obiezioni indubbiamente legittime, ma da valutare caso per caso. L'unico modo per sottrarsi a certe critiche, ovviamente, sta proprio nella qualità esecutiva di una miscela stilistica riproposta quasi quarant'anni dopo la nascita di un certo "vintage prog". Bene: la mia opinione è che i Wobbler abbiano appunto le qualità necessarie per elevarsi al di sopra di queste riserve preliminari verso un prog dichiaratamente "retrò".
"Afterglow" ci offre cinque tracce per una durata complessiva che supera di poco la mezz'ora, proprio come i vecchi ellepì del prog classico cui i norvegesi si richiamano, ma cosa importa? Personalmente sostengo da tempo che la mania odierna di riempire un nuovo cd fino all'inverosimile va spesso a detrimento della qualità, quindi entriamo subito nel merito senza farci problemi.
Va detto che i due episodi più estesi dell'album sono un rifacimento di vecchi demo che il gruppo ha diffuso a suo tempo sulla rete. Si tratta di "Imperial Winter White" e "In Taberna", che in effetti rappresentano al meglio l'essenza profonda del suono-Wobbler. Nel primo brano il quintetto scandinavo parte alla grande con un tema dominato dal timbro maestoso del mellotron, sul quale interviene la dinamica chitarra solista di Morten Andreas Eriksen: spezzato da deliziosi inserti di flauto, con una ricca sezione ritmica nel mezzo, il pezzo raccoglie in un abile intreccio tutto lo squisito cromatismo sonoro che ha reso celebre il progressive sinfonico dell'epoca d'oro.
Solenni entrate di tastiere e vivaci cambi di tempo, delicati arpeggi acustici e preziosi assoli di vibrafono, insieme a fughe d'organo e robusti riff della chitarra elettrica si avvicendano in questa lunga cavalcata sonora potente e raffinata al tempo stesso. Il tutto è proposto però con una grinta e uno spirito capaci di sedurre anche l'ascoltatore più smaliziato che pure riconoscerà, qua e là, le ovvie influenze di
King Crimson o Gentle Giant, anche nelle parti vocali di Tony Johannessen: perché nella ripresa consapevole di un modello affermato si può palesare comunque personalità, ad esempio nel dosaggio e nel gioco combinatorio dei singoli ingredienti, ed è quello che il gruppo norvegese dimostra di saper fare benissimo.
Anche "In Taberna" conferma la positiva impressione di un amalgama invidiabile tra i musicisti, e soprattutto il certosino lavoro compiuto sulle proprie trame strumentali per migliorarne la resa. Il pezzo è smagliante, aperto da una fuga d'organo in serrata combinazione con la sezione ritmica e una chitarra solista decisamente "frippiana": via via nella corposa trama si aprono spazi di mellotron e flauti che punteggiano le riprese del tema principale, con un colore prevalentemente drammatico sottolineato anche dalle note acide di chitarra. Un altro affresco esemplare, nel quale il dominante colore barocco viene integrato con sapiente naturalezza da saporite spezie folk e dark-rock, con un finale sincopato insieme da una chitarra "hard" e dal moog di Lars Fredrik Frøislie.
Non meno decisivi, nella riuscita del disco, sono poi i tre brani di contorno, decisamente più brevi, ma ugualmente rifiniti in ogni sfumatura. "Interlude" è un aggraziato episodio per sola chitarra classica, con il violoncello di sfondo, mentre la chiusura di "Armoury", che riprende l'iniziale "The Haywain", è il momento più marcatamente folk della sequenza: flauti e tastiere, con le percussioni battenti, ricreano una sorta di elegante danza campestre di area celtica, fin quando, inopinatamente, un organo maestoso invade la scena con il suo suggestivo timbro gotico.
Insomma, non si può negare: "Afterglow" ha davvero il fascino del progressive-rock che fu, e di conseguenza farà la gioia di quanti ancora venerano quella stagione musicale, ma non è tutto qui. Poiché i Wobbler sono infatti eccellenti musicisti, la loro riproposta di quella musica ormai consacrata non sembra affatto, come spesso avviene, l'unico appiglio di chi non ha nulla di originale da dire: sembra piuttosto la conferma, meditata, che l'estro creativo può ancora spaziare proficuamente nei territori della contaminazione che proprio negli anni ruggenti del rock progressivo, così generosi di fermenti e audaci accostamenti stilistici, ha toccato il suo apice. Onestamente, a me sembra una buona notizia.
Per informazioni e contatti: www.myspace.com/wobblermusic


Delirium - "Il nome del vento" (Black Widow, 2009)

Due anni fa, quando uscì un disco come "Live-Vibrazioni notturne" degli storici Delirium, avevo scritto che certi ritorni sono da ponderare con calma, prima di entusiasmarsi sull'onda della nostalgia. L'album era fresco e molto piacevole, ma la riprova, come sempre, poteva venire solo da un disco con nuovo materiale. "Il nome del vento" è appunto l'attesa prova del nove sul senso di questa reunion del gruppo genovese: ed è davvero una bella conferma, devo dire.
Si capisce sin dal primo ascolto che sul nuovo materiale si è lavorato con grande cura e nessuna fretta, al punto che la prima impressione, per paradosso, è quella di un disco perfino "sovrarrangiato", molto laborioso e con pochi momenti da ricordare. Invece non è così: gli ascolti successivi ci svelano anzi un arazzo affascinante, dove ogni sfumatura sonora trova la sua esatta collocazione e regala anche un sano piacere di lasciarsi trasportare all'esatta confluenza emotiva di lirismo, tonalità sospese tra fusion e melodia, e vibranti inserti rock, mai gratuiti però, ma ben integrati al resto. Quello che spicca insomma è la capacità di assemblare tanti colori diversi in un insieme realmente organico, a tratti decisamente elegante, che mostra una personalità matura, frutto di esperienza e di un compiuto amalgama tra il nucleo storico del gruppo (Grice, Vigo, il batterista Di Santo) e i nuovi come il bassista Righini e il chitarrista/cantante Roberto Solinas.
Notevole soprattutto la gamma cromatica della dimensione strumentale, già nella title track, posta subito dopo la ripresa introduttiva di "Dio del silenzio" (da "Viaggio negli arcipelaghi del tempo", 1974): ottimo il cantato di Solinas alle prese con un testo asciutto e di buon effetto, con l'efficace controcanto femminile (Sophya Baccini), sul mobile tappeto degli archi e dei fiati di Martin Grice. Quest'ultimo è davvero il protagonista dell'album col suo eccellente e variegato lavoro, dal flauto ai sax e alle tastiere, rivelandosi un autentico jolly in grado di arricchire la partitura dell'intera sequenza.
Splendido il suo flauto evocativo di arie celtiche nella lunga "Dopo il vento", ad esempio, e ancora in "Cuore sacro", in bella combinazione con il timbro dell'organo di Ettore Vigo: è uno degli episodi dove l'effetto "vintage" si fa più sentire, salvo poi sviluppare un tema molto frastagliato dove la dimensione lirica e quella più mossa, con la chitarra di Solinas in evidenza, danno la misura esatta della buona ispirazione che sorregge i nuovi Delirium.
Un altro momento indubbiamente riuscito, secondo me, è "Luci lontane", costruito sul pianoforte e la voce di Solinas, con il mobile supporto del sax: è una composizione crepuscolare che sa legare l'atmosfera lirico-biografica a un tempo di grandi cambiamenti e nuove migrazioni, tra inquietudine e voglia di seguire l'onda. Un piccolo gioiello di gran classe, che mette anche in luce la vena indubbiamente felice di un paroliere come Mauro La Luce, da sempre collaboratore della band e sicuramente decisivo nella riuscita del disco.
Altri episodi mostrano una scrittura più pensosa, come "Profeta senza profezie", ben cantato da Lupo Galifi (ex vocalist del Museo Rosenbach), e lasciano più spazio alla parte testuale, pur essendo costruiti con la stessa perizia, ma in generale si resta intrigati dalla ricchezza delle sfumature timbriche, dal gioco delle armonie vocali e dalle piccole trovate dei singoli che costellano il disco. Sono davvero di grande effetto, ad esempio, due momenti strumentali come "Verso il naufragio" e "Note di tempesta": nel primo, la solida base ritmica s'inserisce nel corposo arazzo disegnato dal piano jazzato di Vigo e dal sax di Grice, fino a includere una fresca ripresa della celebre "Theme One" dei Van Der Graaf Generator, mentre nel secondo, aperto dagli archi, piano e synth sono il cuore propulsivo d'una vivace escursione in territori fusion nella quale la chitarra elettrica incide con breaks efficacissimi.
In conclusione, resta da rimarcare come i nuovi Delirium abbiano fatto le cose in grande, senza cedere al facile ricatto del passato, ma impegnandosi in un progetto tanto raffinato quanto impeccabilmente prodotto. Le emozioni che regala "Il nome del vento" non scaturiscono insomma del tempo che fu, ma da un presente musicale che poggia s'una solida base dove tradizione, prog classico e sonorità moderne si tengono per mano nel modo migliore. Un bel ritorno, e un disco consigliato.
Per informazioni e contatti:
www.idelirium.it/


Pure Reason Revolution - "Amor Vincit Omnia" (Superball Music, 2009)

Non si può mai stare tranquilli, maledizione: nell'ambito della musica che ci ostiniamo a chiamare "progressive" avvengono improvisi cataclismi e ce ne accorgiamo solo a cose fatte. Ti aspetti da un certo gruppo un determinato disco ed eccoti spiazzato da qualcosa di completamente diverso. Non è affatto un male, in linea di massima, ma il dubbio che si affaccia è il seguente: sei tu che sei rimbambito, perso dietro le tue annose formule musicali, o qui c'è qualcuno che se ne frega di ogni etichetta, legittimamente, per suonare solo la sua musica? Ovviamente, delle due ipotesi, l'una non esclude l'altra.
Io non ho ascoltato "The Dark Third", il disco d'esordio dei Pure Reason Revolution, ma a quanto pare questa formazione inglese aveva trovato subito l'alto gradimento di un pubblico trasversale, incluso lo zoccolo duro dei fans del progressive. Cosa penseranno costoro di "Amor Vincit Omnia"? Cose alquanto diverse, sembra di capire. Io intanto posso solo esprimere la mia opinione in merito.
Per metter subito le cose in chiaro, il disco non è affatto brutto, anzi: se lo si giudica in termini generali, si apprezza la costruzione certosina dei singoli brani, gli ingegnosi arrangiamenti e una produzione brillante. Quanto ai contenuti, il quartetto londinese ha voluto omaggiare il motto latino che Caravaggio, il grande pittore del Seicento italiano, ha dato a un suo famoso
dipinto, e ha costruito nove brani che sono un autentico trionfo di tematiche legate al concetto di un amore che tutto conquista. Dal punto di vista prettamente sonoro, questo comporta una cura maniacale del reparto vocale, con lunghi refrain ipnotici inseriti all'interno di strutture musicali dal ritmo ossessivo, valorizzate da un uso intensivo dell'elettronica.
Di fatto, siamo spesso davanti a un disco che si avvicina, e spesso si identifica, con quella che potremmo definire progressive-dance, o anche synth-pop: grande utilizzo del "loop", ad esempio, a creare una sorta di trance incantatoria, a tratti effettivamente di notevole effetto. Non si può negare che "Victorious Cupid", e soprattutto la sequenza "Keep me Sane/Insane", divisa in tre parti, producano un impatto dirompente: in particolare le voci di Jon Courtney (chitarre e tastiere) e Chloë Alper (basso e tastiere), più quella dell'altro chitarrista Jamie Willcox, creano un vero muro sonoro di vertiginose armonie e ritmi serratissimi, componendo un insieme decisamente attraente.
Lo stesso può dirsi di una traccia come "The Gloaming", dove i suoni elettronici convivono con quelli analogici, senza che venga meno però la seduzione ossessiva delle voci. A parte forse "Deus Ex Machina", sorta di electro-rock che prova a unire le due anime del disco, in tutto l'album le chitarre sembrano schiacciate da un missaggio che privilegia appunto i suoni sintetici e le parti cantate.
Quando invece le composizioni si distendono su ritmi più pacati, il risultato suona molto più ordinario, se non banale: è il caso di "Bloodless", con il motivo che galleggia sul pianoforte senza spiccare mai il volo. "Disconnect", per altro, con la classica voce filtrata a fare da filo rosso, sembra provenire da esperienze anni Ottanta ormai fuori tempo massimo, come la languida melodia intonata dal gruppo, francamente priva di mordente.
La conclusione di "AVO", acronimo del titolo, conferma comunque che la nuova fase dei PRR, piaccia o meno, ha ormai ben poco da spartire con le influenze del prog d'annata, e veleggia invece sul versante di un pop sintetico e sofisticato che fa perno soprattutto sull'indiscutibile fascinazione delle voci, affiancate da sapienti arrangiamenti in chiave elettronica e dalla pulsazione martellante dei ritmi. Una scelta non sappiamo quanto definitiva, ma in questo caso molto netta: resta da vedere cosa veramente abbiano in serbo per il futuro questi camaleontici musicisti. Bravi, a modo loro, ma soprattutto imprevedibili.


Nemo - "Barbares" (Quadrifonic, 2009)

I francesi Nemo non sono certo dei novellini, ma personalmente non li conoscevo prima d'imbattermi in questo loro ultimo disco. Si tratta di un quartetto attivo già dal 2000 e che in patria vanta ormai una certa notorietà: "Barbares" potrebbe riuscire a consolidare la loro reputazione anche negli ambienti del prog internazionale, ma entriamo nel merito.
Il disco verte, a grandi linee, sul concetto che l'umanità odierna è ancora prigioniera di un'anima fondamentalmente "barbarica", nel bene come nel male, e si compone di sei episodi, l'ultimo dei quali è la suite omonima lunga circa ventisei minuti.
"LDI", il brano d'apertura, c'introduce tra spirali di vento e ritmica martellante in questo universo irto di contraddizioni: i riff metallici del chitarrista JP Louveton dominano la scena assieme al synth di Guillaume Fontaine, illustrando uno scenario decisamente inquietante, impregnato di umori arabo-balcanici. Nelle pause s'inserisce la parte lirica dello stesso Louveton, la cui voce, duttile ma un poco esile, non sempre è adeguata al corposo contesto sonoro.
Segue quello che a mio parere è il momento migliore dell'album, cioè "19:59": si parte sulle dure cadenze dell'apertura, ma il ritmo dispari della batteria, con una presenza incisiva del bassista Lionel Guichard, e un cantato molto evocativo fanno subito lievitare il pezzo, al quale concorrono in ugual misura la robusta chitarra solista e il gioco delle tastiere, con un'altalena vivace quanto coerente che alla fine conquista. In linea generale, i Nemo sembrano aver digerito a dovere la lezione del prog-rock classico, ma soprattutto sanno muoversi con disinvoltura nella scia di un neo-prog ben articolato, che include riferimenti alle sonorità più "heavy", ma è spesso corroborato da una discreta vena melodica: lo dimostra "Le film de ma vie", una sorta di morbida ballata ben orchestrata sulle chitarre e il pianoforte, dove le parti vocali, anche corali, salgono finalmente in primo piano con buoni risultati.
Nel resto dell'album la band francese si muove s'un territorio variegato, denotando un gusto versatile e buone qualità di fondo, anche se il risultato è a volte controverso. "Faux semblantes" ad esempio segue uno schema ibrido, con la ritmica nervosa a fare da mobile tappeto al canto solista, qui particolarmente teatrale, e il colore quasi fusion del piano elettrico, in una partitura tecnicamente pregevole, ma forse meno riuscita del resto: interessante, comunque, il tentativo di legare questo tessuto strumentale più sofisticato alle consuete spezzature di sanguigno rock guidate dal chitarrista che prevalgono nel finale.
Piuttosto complessa è anche la struttura di "L'armée des ombres", con il canto drammatico al centro di un tema musicale mosso e vigoroso che cresce lentamente alla distanza: all'acme dell'intensità, la chitarra solista recita ancora la parte del leone sullo sfondo corposo delle tastiere, e poi, dopo una pausa, conduce il pezzo al suo epilogo. Un altro episodio di buona fattura.
L'altro punto focale del disco è poi la suite omonima, divisa in sette parti, che compendia in maniera più articolata la proposta sonora della band transalpina. Interessante l'uso del flauto da parte del tastierista Fontaine che punteggia tutta la sequenza, distribuita equamente tra le cadenze di un rock chitarristico tecnicamente eccellente e i contrappunti della parte lirico-melodica, con morbidi inserti acustici. Questa musicalità fluida e di piacevole impatto, dai risvolti mutevoli, ci fa apprezzare le potenzialità di un gruppo che sembra aver raggiunto una sua convincente maturità.
A essere pignoli, si può ancora rimarcare come la voce, qua e là, non regga il passo dei momenti musicali più intensi, ma non è una questione che incida più di tanto nel giudizio complessivo. D'altra parte il disco ha una sua discreta varietà di toni senza però risultare frammentario, come a volte succede in questi casi, ma conservando invece una sua identità stilistica. In conclusione, "Barbares" è un album che potrebbe incontrare il favore di molti fans del progressive, proprio per la compresenza vitale di aspetti melodici e sapori più forti in odore di prog-metal: una ricetta che a conti fatti mostra di funzionare piuttosto bene.
Per informazioni e contatti:
nemo.web.free.fr


Umphrey's McGee - "Mantis" (Sci Fidelity Records, 2009)

Sul fenomeno delle "jam bands" in Italia non si sa molto, ma negli Stati Uniti esiste un mercato molto prospero per questo genere. Si tratta essenzialmente di gruppi che nei loro concerti preferiscono improvvisare a partire da pochi schemi standard, sviluppando quindi uno stile molto flessibile e ricco di sapori diversi. Nato nell'ambito del jazz classico, il fenomeno riguarda oggi anche il rock: Umphrey's McGee è appunto una band originaria di Notre Dame, nell'Indiana, che s'inserisce nel filone in un modo tutto suo.
Fondato nel 1997, il gruppo ha ormai una lunga gavetta alle spalle, centinaia di esibizioni live per tutto il paese e un discreto pubblico che li segue fedelmente. Con "Mantis" giungono all'undicesimo appuntamento discografico, e l'album segna in effetti una svolta nella carriera del sestetto: per loro stessa ammissione, si tratta di un lavoro più elaborato e ambizioso dei precedenti, e soprattutto il primo che non nasce dal materiale elaborato dalla registrazione dei loro shows, ma completamente inedito.
Così, pur restando legati al loro approccio in buona parte spontaneo, i dieci episodi del disco offrono un eloquente saggio dell'effettivo valore della band americana. I loro riferimenti musicali sono alquanto eterogenei, comprendendo sia i nomi classici del vintage prog che un certo hard-rock, senza dimenticare la lezione dei Beatles o di Frank Zappa, ma se il camaleontismo sonoro di "Mantis" può lasciare inizialmente perplessi, alla fine appare invece come il frutto maturo di un lungo lavoro a 360° nel rock odierno: un rock generoso, ricco di variazioni e richiami, potente quanto complesso nelle sue sfumature, che si avvale all'occorrenza anche degli archi (violino, violoncello e viola) e dei fiati.
Se l'attacco di "Made to Measure" è un brillante pop melodico con le deliziose interferenze jazz del clarino, è nei brani più estesi che il potenziale sonoro dei sei può palesarsi appieno. La title track, soprattutto, ci mostra un tessuto strumentale che abbina stacchi di pianoforte classico (Joel Cummins) al riff metallico e aggressivo delle chitarre (Brendan Bayliss e Jake Cinninger), in un insieme sempre dominato dal canto solista di Bayliss: dopo una cesura ad effetto, l'atmosfera cambia di colpo e si distende sull'organo fino al gran finale che riprende sangue sul gioco incrociato di percussioni e chitarre. Bello.
L'impressione è di avere di fronte una band che suona a memoria, qualunque sia il contesto sonoro prescelto, giovandosi di un'intesa cementata per anni sul palco. Gli Umphrey's McGee restano comunque un gruppo molto americano nella concezione e nello sviluppo dei temi: lo rimarca anche l'eccellente orchestrazione delle parti vocali, spesso corali, e quella innata capacità di spendersi generosamente in certe zampate di puro rock chitarristico che si esalta anche nei momenti più melodici, ad esempio in "Red Tape" o in "Spires", col suo potente tema rock sottolineato dalle voci corali e una seconda parte dall'arrangiamento orchestrale.
Più frastagliate sono le due parti di "Cemetery Walk", specie la prima, dove la linea della chitarra solista incide in un tessuto ritmico molto sostenuto, con le parti corali ancora in evidenza e un crescendo conclusivo davvero ad effetto. In "Turn & Run" si fa notare una chitarra particolarmente abrasiva che a un certo punto si trascina dietro il resto della band, mentre la chiusura di "1348" spicca decisamente come il momento più "fusion" della sequenza.
In sintesi, "Mantis" è un disco ricco e molto speziato, che può spiazzare l'ascoltatore per l'ampia gamma dei suoi riferimenti, ma nel quale si apprezza la coesione e lo spirito camaleontico di una band che fondamentalmente resta fedele alle sue origini: non si accontenta cioè di un semplice esercizio di stile, ma mette le sue qualità solistiche al servizio d'una concezione aperta e "in progress" della musica, intesa soprattutto come un meraviglioso gioco di squadra. Un'idea che è onestamente difficile non condividere davanti a un disco come questo.
Per informazioni e contatti:
www.umphrey's.com/main.php


Matthew Parmenter - "Horror Express" (Strong Out Records, 2008)

Matthew Parmenter è noto soprattutto come voce solista dei Discipline, band americana spesso classificata come "retroprog" per i suoi riferimenti agli anni Settanta. La stessa etichetta potrebbe attaccarsi al cantante in questa sua seconda prova da solista, dopo "Astray", pubblicato nel 2004. Dirò di più: a tratti sembra davvero di ascoltare Peter Hammill coi suoi Van Der Graaf Generator, e questo può essere irritante per chi pretende da un artista una sorta di immacolata unicità creativa. Ammesso e non concesso che una tale unicità esista davvero, ovviamente.
In ogni caso, il mio consiglio è di mettersi di fronte al disco con la mente sgombra di pregiudizi e lasciarsi catturare dal fascino della musica. Allora sarà facile, come è successo a me, venir lentamente risucchiati nell'ambiguo viaggio sonoro messo in scena da Parmenter: una sorta di incubo in dieci capitoli, nutrito di una oscura dedizione ai cosiddetti fantasmi interiori e alle creature della notte, i mostri veri o immaginari, o meglio, in metaforica sintesi, al buio. E infatti la prima traccia dell'album si chiama "In the Dark": un'atmosfera di straordinario lirismo, sostenuta con sobria eleganza dalla voce accorata del cantante e dal pianoforte, più il mellotron e altre tastiere suonate tutte in prima persona da Parmenter, il quale per capirci suona tutti gli strumenti dell'album in un progetto solista fino in fondo. La fascinazione di quest'apertura è di presa immediata, spalancandoci un mondo espressivo dominato dall'emozione romantica per eccellenza: la solitaria e risonante presa di coscienza di un universo traversato dal dolore e dal male, dentro e fuori di noi. Aderendo totalmente a quest'assunto, "Horror Express" ricava dal desolato panorama che descrive una sorta di gotica, e paradossale, sublimazione del male attraverso la dimensione lirico-musicale.
"O Cesare" è un altro momento esemplare di questo percorso artistico portato avanti con encomiabile coerenza da Parmenter, che lascia spesso la sua voce librarsi come uno strumento aggiunto nel cuore della sue trame sonore con un effetto molto coinvolgente. Ogni nota sembra emanare da una consapevolezza dolente della purezza perduta e offesa, ben sostenuta dal gioco armonioso delle tastiere, ma anche degli archi: la splendida "Kaiju" è una breve parentesi strumentale dominata ad esempio dal violoncello, simile a una colata lavica uniforme che condensa i sentimenti più neri. Anche "Golden Child", col pianoforte in crescendo che viene poi affiancato da chitarra e mellotron, è un meraviglioso esempio delle capacità evocative del cantante nei confronti di questo fosco immaginario dove la purezza sembra esistere solo un attimo prima di conoscere l'abisso.
La musica allora si fa più cupa, sin dalle prime note disturbanti di "Monsters From the Id", col suono cadenzato del pianoforte a scandire la tensione che il canto estremamente duttile di Parmenter sa sprigionare. Va sottolineata la scelta di non ampliare mai troppo lo spettro strumentale, privilegiando sempre le sonorità delle tastiere e della voce, con poche eccezioni nella sequenza. Anche nella lunga "Polly New", ad esempio, dopo l'attacco corposo di mellotron, la linea s'increspa s'un ritmo più mosso ma per incanalarsi poi in un disegno classicamente armonioso, dove la chitarra elettrica sottolinea con eleganza la progressione del tema.
E' così anche in "All Done(Horror Express)", arricchita dal sax, mentre nella conclusione strumentale di "The Cutting Room" il pianoforte suonato con vigore s'inscrive in un quadro dalle tinte epiche e sinistre che chiudono il viaggio.
E' vero che nella seconda parte dell'album ci sono momenti nei quali l'accoppiata piano-voce può suonare a tratti ripetitiva, ma questa apparente riduzione ai minimi termini espressivi è proprio l'arma vincente, quasi una scommessa vinta, di un album coraggioso nelle sua struttura e soprattutto di grande forza evocativa. Non so in effetti che collocazione possa avere un disco del genere, così fuori dalle mode e da ogni facile effettismo, nel mercato musicale odierno: a mio parere, la complessa ma indiscutibile bellezza di questo progetto solista meriterebbe comunque più dell'ascolto distratto che spesso riserviamo alla musica che ci circonda. Perché anche oggi ci sono artisti, e dischi, che sanno ricambiare la dovuta attenzione con un livello emotivo davvero impagabile, e questo è appunto il caso.
Per informazioni e contatti:
Discipline


Universal Totem Orchestra - "The Magus" (Black Widow, 2008)

Il progetto Universal Totem Orchestra arriva al suo secondo capitolo discografico, ben nove anni dopo l'esordio di "Rituale alieno" (1999). Di quella prima esperienza non sopravvivono nel gruppo attuale che due soli musicisti su sei: il batterista Uto G. Golin e la cantante Ana Torres Fraile.
Nonostante questi mutamenti e il tempo trascorso, il disco che abbiamo di fronte è un'opera ambiziosa e complessa, che conferma l'idea di un gruppo dalle solide basi e di indubbia preparazione, che concepisce ogni sua prova come un tassello in più sulla strada d'una ricerca tanto coerente con le sue premesse, quanto aperta a ogni elemento che possa arricchirla di senso.
"The Magus" si compone di sei tracce molto corpose, per una durata che sfiora gli ottanta minuti complessivi: forse troppi, viene subito da pensare, ma andiamo con ordine. Come nel disco precedente, la formazione trentina indaga il tema dell'alienazione umana in ogni suo aspetto, e qui in particolare si concentra sui lati più esoterici che spesso fanno parte della nostra vita. "De Astrologia", lunga apertura dell'album, c'introduce all'argomento nel migliore dei modi: un motivo cantabile di grande effetto apre le danze di questa escursione nel mondo dello zodiaco, caratterizzato da riferimenti più o meno oscuri. Subito si apprezza la bella voce di Ana Torres Fraile, col suo timbro da soprano alquanto duttile, all'interno d'un tessuto strumentale di volta in volta potente, misterioso o suadente, tra intervalli e ritmiche riprese. C'è qui tutto il potenziale di questa band, che richiama da vicino l'esperienza della "Zeuhl music" dei
Magma, soprattutto, ma con una grande libertà espressiva che scongiura ogni rischio di pedissequa imitazione del modello.
La tendenza ai ritmi ossessivi è peculiare, come l'iterazione a più riprese dei singoli spunti, in un impasto serrato che poi si distende sul piano e il sax in morbide cadenze jazz. Lo schema si ripete nell'attacco di "Coerenza Delle Percentuali", ancora più aggressivo, con la chitarra di Daniele Valle e il piano elettrico di Fabrizio Mattuzzi in bella evidenza. Il canto lirico della Torres Fraile s'incide all'interno d'un tema ritmico molto serrato, prima di scivolare con grazia cristallina s'un morbido giro armonico davvero accattivante, mentre nel finale il pezzo riacquista vigore sulle dure cadenze della chitarra solista.
"Les Plantes Magiques" è il momento più evocativo della sequenza, e conquista ancora per il timbro squisito della cantante, sostenuta a dovere dal pianoforte e dal sax di Antonio Fedeli: un motivo di vera bellezza, risolto con grande classe e l'ausilio di voci corali nell'ultima parte, immersa in un'atmosfera esotica molto suggestiva.
Eccellente anche l'attacco di "Ato Piradime", cantato in spagnolo in quanto ripreso in parte dal cinquecentesco "Cantico Espiritual" di Juan de La Cruz, prima di uno sviluppo estremamente mosso, giocato ancora tra chitarra, sax e synth, col decisivo apporto della batteria di Golin che frantuma ad arte l'articolazione del tema. Un free-jazz martellante e spigoloso domina pure lo strumentale "Mors, Ultima Linea Rerum", nel quale spicca il ruolo incisivo di chitarra e sax in un pezzo di grande tensione, nel quale s'inserisce poi anche il piano.
La conclusione di "Vento Madre" sembra riannodare i fili con l'apertura del disco: ritmica potente e voci suggestive abbinate in un solo impasto, preludono a uno svolgimento mosso e sempre imprevedibile al quale portano acqua i singoli strumentisti e le voci abilmente combinate tra loro.
Dicevo della durata eccessiva: non so quanti oggi siano in grado di ascoltare ottanta minuti filati di musica in un colpo solo. Onestamente credo si debba puntare sulla qualità prima che sulla quantità, e che un buon disco di quaranta minuti sia sempre preferibile a un prolisso minestrone senza vera personalità. In questo caso, però, è giusto sottolineare che "The Magus" è un album di grande, anzi grandissima qualità, suonato al meglio da una band di prim'ordine che di personalità ne ha da vendere. Questo rende comunque l'ascolto molto coinvolgente, e spinge anzi a ripetuti ascolti per assaporare i singoli passaggi offerti da Golin e compagni.
Per una volta, parlando di musica prog italiana, mi preme sottolineare l'ottima orchestrazione delle voci alle prese con liriche ricercate e mai banali. Se a questo si aggiunge la pregevole fattura degli arrangiamenti e la bravura dei singoli musicisti, è facile concludere che siamo in presenza di un album assolutamente consigliato, che ha tutte le carte in regola per rimanere come una delle migliori uscite italiane degli ultimi anni.
Per informazioni e contatti: www.universal-totem-orchestra.com/


Pandora - "Dramma di un poeta ubriaco" (AMS/BTF, 2008)

Un altro gruppo italiano che cerca fortuna nel solco del progressive anni Settanta: i Pandora sono piemontesi e si formano nel 2005, arrivando solo ora alla prima realizzazione discografica.
Si tratta di un quartetto che vanta ben due tastieristi, Corrado Grappeggia e Beppe Colombo, e quindi suona il progressive di stampo barocco e classicheggiante che ci si può aspettare, ma con una spruzzata di sonorità "heavy" che contribuisce a personalizzare questa ricetta di base. L'album contiene sette tracce, tutte di livello discreto almeno dal lato strumentale: peccato che le parti vocali, e i testi, non siano che raramente all'altezza della musica, anche in questo fedeli alla tradizione poco invidiabile del prog italiano d'annata, tanto eccellente a livello compositivo quanto mediocre, con poche eccezioni, nelle parti vocali.
In effetti l'apertura de "Il giudizio universale" è quanto mai promettente, e probabilmente il momento migliore della sequenza: in particolare il colore drammatico di organo e synth e la batteria marziale di Claudio Colombo riescono a creare un clima dai contorni "dark" davvero coinvolgente che lascia il segno. In questo caso anche la voce di Corrado Grappeggia è ben sintonizzata con il resto, e dunque ci predisponiamo al seguito con fiducia.
Inopinatamente invece, il disco ci offre questa dicotomia quasi costante tra il tessuto strumentale, sempre ben elaborato, e una parte lirica che stenta a tenere il passo e rischia di vanificare quanto creato dal gioco incrociato dei due tastieristi. E' il caso ad esempio di "Così come sei", dove al complesso arazzo sonoro, ricco di spunti interessanti e con l'ottima presenza del chitarrista Christian Dimasi, corrisponde un cantato non troppo convincente. Ancora meno brillante è il ruolo della voce in un brano apertamente favolistico come "Breve storia di San George": qui anzi il contasto è ancora più stridente, perché l'atmosfera incantevole, davvero elegante, creata dal prezioso lavoro dei due tastieristi si accompagna a un testo francamente obsoleto e poco incisivo. Non è certo un peccato rifarsi all'immaginario medievale che ha nutrito per anni la creatività del progressive anni Settanta, ma riproporre oltre trent'anni dopo stilemi e stereotipi del genere, oltretutto con così scarsa convinzione, è un vero peccato.
La composizione che intitola il disco è invece un pezzo dal sapore più intimista e sofferto, almeno nella parte lirica, contraddistinto da un buon lavoro congiunto di pianoforte e organo, con il consueto tour de force del batterista, mentre la chitarra solista incide con buona verve nello schema. La voce seguita però a lasciare perplessi, come pure nel lungo finale di "Salto nel buio": in questo lungo brano si riconfermano pregi e difetti della formazione piemontese. La musica suggerisce atmosfere preziose e classicheggianti, a tratti veramente notevoli, specie per l'abile tessitura delle tastiere, ma la parte lirico-testuale non ha purtroppo lo stesso spessore: manca una vera integrazione, anche dal punto di vista metrico, tra lo sviluppo musicale e il cantato, così che il risultato non è mai pienamente convincente.
Da quello che ho detto fin qui, è facile capire che il meglio dei Pandora sta proprio negli episodi strumentali, dove la band può articolare liberamente le proprie trame sonore. Infatti "March to Hell" e la più estesa "Pandora" (con un breve "recitativo" in apertura) dimostrano le reali possibilità del gruppo: ottima la chitarra solista, vivaci e ficcanti le fughe d'organo come le parti di synth, con un batterista sempre potente e propulsivo che sa il fatto suo. In questi momenti la formazione piemontese mostra d'aver assimilato e digerito l'eredità dei padri fondatori del prog italiano (con tracce di Metamorfosi, Locanda Delle Fate, New Trolls e altro ancora), e di avere anche il talento necessario ad aggiornare la lezione con un rock più sanguigno e moderno. Solo a patto però, questa è la mia opinione, di avviare a soluzione il problema delle parti cantate e della voce solista. Oppure di farne a meno.
Per informazioni e contatti:
www.pandoramusic.eu/


Mogwai - "The Hawk Is Howling" (Pias, 2008)

Il nuovo disco dei Mogwai arriva dopo una serie di prove anomale, come il progetto "Zidane: A 21st Century Portrait", che a sua volta faceva seguito ad un album a mio avviso interlocutorio come "Mr Beast" (2005): era dunque lecito attendere con grande curiosità la mossa successiva del gruppo.
Bene, in quest'ultima uscita il quintetto scozzese sembra recuperare per certi aspetti la felice vena di "Happy Songs For Happy People", uno degli episodi più personali della sua discografia: quella mistura di elettronica "soft" e vagamente psichedelica, capace di grandi picchi emozionali, e sinistre derive elettriche dai risvolti più ossessivi.
Il disco è composto di dieci tracce che segnano appunto la predilezione per atmosfere morbide, sospese, cesellate con un paziente lavoro di accumulo sonoro che privilegia il synth e la progressione del tema fino al suo compiuto sviluppo. All'insegna di questa cifra estetica sono la splendida apertura di "I'm Jim Morrison, I'm Dead", tanto per chiarire subito le intenzioni: un pianoforte che stilla poche note sospese è il punto d'avvio di un arazzo che sembra davvero sprigionarsi dalle tenebre, lento e maestoso, supportato dal cromatismo del synth e da una costante accelerazione, con pause e riprese ad effetto.
A volte la musica sembra compiacersi di se stessa, ad esempio nella parentesi un poco esangue di "Local Authority", ma più spesso, per fortuna, la band cattura l'attenzione col suo accorto dosaggio strumentale.
"The Sun Smells Too Loud" ad esempio è un episodio accattivante, quasi sorridente, con il riff melodico di chitarra che rimane in testa. Molto bella è "Thank You Space Expert", composizione quasi onirica nel suo lento incedere sulle note del vibrafono finché il timbro squisito del piano non conduce il tema alla sua piena espressione: un pezzo davvero eccellente, che conferma il talento dei cinque scozzesi per le atmosfere soffuse, di lancinante dolcezza. L'ennesima riprova è un pezzo come "Danphe and the Brain", con la sua progressione ad effetto che avvolge nelle sue spirali fantastiche.
La musica dei Mogwai mostra in queste occasioni la sua natura contemplativa e assorta, grazie soprattutto alle tastiere di Barry Burns, ma nel disco non mancano momenti dove le chitarre distorte dei compagni, a cominciare da Stuart Braithwaite, fanno sentire con forza il loro peso nell'economia del suono. E' il caso soprattutto di "Batcat", col suo riff ossessivo supportato a dovere dalla ruvida batteria di Martin Bulloch, e anche di "I Love You, I'm Going To Blow Up Your School", mentre "Scotland's Shame" somiglia all'incompiuta espressione d'una tensione a lungo covata, costruita sul chitarrismo più meticoloso, che implode quando sembra sul punto di esplodere.
Cupa e ruggente si dipana la finale "The Precipice", perfettamente aderente al suo titolo e dominata in lungo e largo dalle chitarre debordanti di Braithwaite e Cummings, ma a mio parere il meglio di questo nuovo album firmato Mogwai sta altrove: e cioè proprio nelle tracce più meditative, basate sul tenace sviluppo armonico di temi che partono in sordina per mostrare solo alla lunga tutto il loro potenziale evocativo. In questo puntiglioso metodo compositivo, che privilegia le sfumature timbriche sul rock metallico più abrasivo e scontato, la band di Glasgow dimostra ancora una volta la sua forza e la sua cifra distintiva nell'odierno panorama che oggi definiamo "post-rock".
Chi si aspetta ogni volta qualcosa di radicalmente innovativo rimarrà probabilmente interdetto di fronte a "The Hawk Is Howling", ma chi ama i dischi succitati dei Mogwai e ne apprezza soprattutto l'impostazione sonora così peculiare, troverà invece buoni motivi per compiacersi di questa loro nuova uscita. Un ascolto senz'altro raccomandato.
Per informazioni e contatti:
www.mogwai.co.uk/


Le Orme - "Live in Pennsylvania" (Sonny Boy/Self, 2008)

L'unico album dal vivo a nome delle Orme, fino ad oggi, era il famoso "In concerto", registrato in maniera quasi amatoriale nel 1974. Era ora di dare a quel documento tutt'altro che impeccabile un seguito più degno, e il gruppo veneto ha pensato allo scopo di utilizzare lo show che ebbe per teatro il NearFest edizione 2005, uno degli appuntamenti più noti al mondo per chi segue il progressive.
C'è voluto molto tempo, d'accordo, ma almeno Tagliapietra e compagni hanno fatto le cose in grande: la confezione infatti abbina i due cd del concerto al dvd dello stesso, in una rassegna forzatamente sintetica ma davvero notevole dal punto di vista tecnico e spettacolare. La parte del leone la fanno "L'infinito", all'epoca realizzato da poco, e il capolavoro riconosciuto della band, cioè "Felona e Sorona", che occupa da solo il secondo dischetto.
Una cosa che salta subito agli occhi è l'apporto che al suono del gruppo dava l'eccellente Andrea Bassato, recentemente uscito dall'organico, tastierista compassato quanto poliedrico, e oltretutto capace di destreggiarsi al meglio anche al violino: lo si nota qui nella riproposta di "Cemento armato", dove le lunghe divagazioni originali di Pagliuca sono in parte sostituite da una splendida performance violinistica che arricchisce uno dei pezzi più noti del repertorio donandogli nuova linfa.
Parlando di tastieristi, comunque, Michele Bon regge bene il confronto per tutta l'esibizione, passando con disinvoltura dall'organo al "guitar simulator", non solo in "Cemento armato", ma anche negli estratti da "L'infinito", come "La voce del silenzio", ad esempio. Nello stesso episodio spicca il timbro inconfondibile di Aldo Tagliapietra, particolarmente evocativo in uno dei momenti più lirici di quello che rimane l'ultimo disco di studio pubblicato dal gruppo.
Il cantante, dall'atteggiamento quasi ieratico e sempre convincente per tutto il concerto, si accuccia quindi nella posizione più comoda per suonare il sitar di "La ruota del cielo", ideale ponte sonoro tra la tradizione indiana e quella melodico-occidentale. Tutti questi pezzi sono eseguiti con una fedeltà scrupolosa all'originale, con le poche eccezioni descritte, e si apprezza l'amalgama privo di sbavature tra i quattro musicisti.
Risulta di grande effetto, quasi a sorpresa, la sequenza tratta da "Uomo di pezza", in particolare "La porta chiusa" eseguita in coda a "Gioco di bimba": il colore drammatico dell'organo e del synth, in combutta con il vivace lavoro percussivo, creano ancora un'atmosfera che non sembra affatto scalfita dagli anni passati, e questo grazie alla coesione tra i due tastieristi.
La riproposizione integrale di "Felona e Sorona", invece, riafferma il valore di una suite concettuale dal taglio "fantasy", profondamente allegorica nello spirito delle liriche, che il pubblico americano mostra di amare molto, tributando una vera ovazione al quartetto dopo aver applaudito lo show personale di Michi Dei Rossi alla batteria, unica concessione improvvisata rispetto allo spartito originale. Il canto di Tagliapietra è impeccabile, come il suo lavoro cesellato al basso e alla chitarra acustica, mentre Bassato e Bon illustrano con grande varietà di spunti la vicenda incrociata dei due pianeti gemelli e complementari: molto efficace soprattutto il lavoro combinato dei due in un brano come "L'equilibrio". Davvero un'esibizione di gran classe, insomma, sigillata dal pathos drammatico della finale "Ritorno al nulla", altro momento dove ancora si esalta la verve percussiva di Dei Rossi.
Perfetto nei suoni e ben congegnato nella parte visiva, che evita inutili virtuosismi in favore d'un montaggio molto calibrato, "Live in Pennsylvania" è davvero il documento che mancava nella lunga discografia delle Orme: una vera chicca per gli appassionati storici, ma anche un'ottima occasione offerta ai più giovani di entrare in contatto con una delle più longeve e gloriose formazioni del rock progressivo italiano. Da non perdere.
Per informazioni e contatti:
www.le-orme.com


Sigur Rós - "Með suð í eyrum við spilum endalaust" (Emi, 2008)

I Sigur Rós non tradiscono mai le attese, e tre anni dopo "Takk" si ripresentano con un nuovo lavoro che pur confermandone l'indiscutibile magia sonora, offre qualche spunto nuovo.
Se il quartetto resta quello di sempre, s'intuisce però un approccio al disco più semplice e spontaneo del solito: in effetti, un accentuato sapore melodico, soprattutto nella prima parte, e la prevalenza del registro acustico, sembrano testimoniare in questo senso. In realtà, dietro l'apparente semplicità si nasconde il consueto talento e soprattutto l'innata capacità di toccare vertici espressivi di prim'ordine anche con mirabile economia di mezzi, facendo leva sull'intensità dell'interpretazione.
Il disco, dal titolo insolitamente lungo per gli standard della band islandese (significa "con un ronzio nelle orecchie suoniamo all'infinito"), è stato registrato tra New York, Cuba, Inghilterra e la nativa Islanda e si compone di undici tracce. L'apertura di "Gobbledigook" è un episodio marcatamente pop, cadenzato su chitarre acustiche e percussioni, con l'inconfondibile vocalità voce di Jónsi Birgisson ben appoggiata dal coro. E' un po' la cifra distintiva dell'album, che si dipana poi con altri esempi di questa vena apertamente melodica e a tratti trascinante. In particolare "Inní mér syngur vitleysingur", col piano suonato a martello e gli archi in grande evidenza, risulta davvero molto godibile anche per l'apporto di una sezione fiati. Al posto delle lunghe e avventurose progressioni degli altri dischi, siamo insomma davanti a una concezione musicale più ariosa e dinamica, nel quale l'elemento percussivo garantito da Páll Dýrason risulta spesso decisivo. Lo dimostra anche "Við spilum endalaust", forse l'episodio più cantabile di tutti, ancora impreziosito dai fiati e dalle sincopi del batterista.
Quando però ci sembra di aver capito tutto, ecco che i Sigur Rós tirano fuori dal cilindro alcuni episodi più pensosi, più in linea col passato, come ad esempio la splendida "Festival": introdotta dalle note evocative dell'organo e modulata sul falsetto struggente di Jónsi, il brano è un crescendo che tocca l'apice con l'ingresso cadenzato delle percussioni e degli archi in un finale scintillante.
In "Ára Bátur" la solennità strumentale è sottolineata dall'orchestra della London Sinfonietta e dai coristi della London Oratory School, in una progressione che enfatizza le migliori caratteristiche del canto solista. L'effetto è indubbiamente notevole. La seconda parte dell'album, in effetti, a parte la bella "Með suð í eyrum", che rotola sulla ritmica e il pianoforte di Kjartan Sveinsson, sceglie soluzioni più intimiste e raccolte, tralasciando la brillantezza melodica della prima parte: ad esempio "Illgresi", prevalentemente per voce e chitarra, o il breve strumentale di "Straumnes", delicatissima parentesi per sole tastiere.
Il protagonista assoluto torna ad essere il cantante, come nella suggestiva "Fljótavík", accompagnato dal piano e dagli archi, e nella finale "All alright", che per inciso è in assoluto la prima canzone del gruppo cantata, ma dovrei dire meglio "sussurrata" con ineffabile dolcezza, in lingua inglese.
Alla resa dei conti, l'ultimo lavoro dei Sigur Rós è comunque un disco di grande livello, il cui solo difetto, paradossale, è di arrivare all'indomani di almeno un paio di capolavori assoluti (l'omonimo del 2002 e "Takk"): forse per questo c'è chi ha trovato da ridire, parlando addirittura di una band in declino. Non sono d'accordo: la mia impressione è che Jónsi e compagni stiano semplicemente cercando nuovi orizzonti sonori dove espandere le proprie qualità, dato che per ogni musicista che si rispetti la ripetizione è davvero letale. Ogni ricerca può essere faticosa, e deludere i fans della prima ora, ma onestamente questo "Með suð í eyrum við spilum endalaust" rimane un signor disco, da qualunque lato vogliate giudicarlo, e mi sento di consigliarlo a occhi chiusi come una delle migliori uscite dell'anno.
Per informazioni e contatti:
www.sigur-ros.co.uk/


Hostsonaten - "Winterthrough" (AMS/VM2000, 2008)

Il prolifico genio di Fabio Zuffanti prosegue la sua opera a largo raggio nel campo della scena prog contemporanea, e con gli Hostsonaten, una delle sue molteplici incarnazioni, giunge al secondo appuntamento del "ciclo delle stagioni", dopo il bellissimo "Springsong" (2002).
Come sempre stiamo parlando di una suite classicamente concepita: una sorta di musica a programma che s'ispira appunto alle suggestioni che si legano a ognuna delle quattro stagioni. Ad affiancare il bassista e leader stavolta sono cinque dei suoi musicisti più fidati, capaci di garantire una strumentazione molto corposa e insieme duttile quanto serve allo scopo: si segnalano soprattutto, nell'economia del suono, la doppia tastiera di Alessandro Corvaglia e Robbo Vigo, oltre ai fiati di Edmondo Romano.
Il disco si apre con la splendida "Entering the Halls of Winter": un pianoforte minimalista incide il suo testardo graffito e dietro a lui, uno dopo l'altro, vanno chitarra, batteria e mellotron, edificando nota su nota un castello sonoro via via più maestoso, ma attraversato da rarefatti inserti ambientali, garantiti soprattutto dai fiati. Bello.
La sequenza vive di questo doppio registro, tra atmosfere dilatate, quasi stillanti umidità di piogge sparse, e robuste sferzate ritmiche, dove soprattutto incidono il synth e la batteria, con la chitarra solista di Matteo Narhum a supporto: un bell'esempio è il breve "Snowstorm", con la sua progressione fiatistica di grande effetto.
Tra i brani più intensi si segnalano delicati inserti come "White Earth", un soffuso quadretto impressionistico tinteggiato da delicati arpeggi di chitarra, piano e basso, che danno veramente il senso d'un paesaggio prigioniero d'una favola, come pure "Though Winter's Air" o l'impalpabile tessitura di "Ruins".
Altri episodi come "Over the Plain" mostrano invece la versatile vena del gruppo: il fitto lavoro percussivo, col basso felpato e lo splendido lavoro dei fiati, illustrano un'atmosfera mobile e nervosa che odora di jazz, mentre il moog di Alessandro Corvaglia domina la brillante "Outside". Si scivola insomma nella stagione invernale illustrata dagli Hostsonaten con il piacere intenso che solo certa musica, suonata e rifinita con cura in ogni sfumatura, riesce a trasmettere: è come venire lentamente risucchiati in un dipinto tridimensionale grondante colori, umori e brividi. I temi a volte ritornano da un brano all'altro, come fili d'un sapiente ordito destinati a comporre un mosaico di suoni, sempre coerente pur nella sua varietà.
Personalmente ho solo un piccolo appunto da muovere al disco: gli inserti di una voce recitante, in "The Crystal Light" o "Red Sky", per quanto brevi e calibrati nel contesto, rischiano di appesantire un disegno musicale che non sembra averne alcun bisogno. A mio parere, l'estro tecnico-compositivo di Zuffanti e soci appare pienamente capace di catturare l'attenzione senza certe sovrapposizioni. Sono notazioni a margine, comunque, che non spezzano affatto l'incantesimo di "Winterthrough".
La lunga "Rainsuite", che chiude l'album, illustra bene nei suoi quattro momenti la ricchezza strumentale raggiunta dal gruppo: gli spunti e le variazioni disseminate negli altri episodi si compongono qui in un corposo affresco di taglio sinfonico e romantico, nel quale spiccano il pianoforte e il mellotron come elementi guida del tema, che si arricchisce poi della chitarra solista, limpida e vibrante, fino al sigillo dei fiati.
In conclusione, un disco del genere non può sfuggire a tutti i seguaci del prog italiano di oggi, compresi i più esigenti: qui troveranno davvero pane per i loro denti.
Per informazioni e contatti:
www.zuffantiprojects.com/hostsonatenweb


Sensitive To Light - "From the Ancient World" (Cyclops, 2008)

Nel panorama del prog attuale convivono ormai tradizione e sperimentazione, spesso fuse in una varietà di stili e riferimenti che da sola racconta molto bene il lungo percorso di questa musica dal suo primo apparire ad oggi.
Nel caso dei Sensitive To Light, formazione francese che giunge al secondo appuntamento discografico dopo "Almost Human" (2006), il riferimento principale sembra essere soprattutto Mike Oldfield e il suo repertorio che attinge in pari misura al folklore celtico e al rock elettronico.
Da un lato abbiamo infatti il leader, Vynce Leff, dichiarato ammiratore del polistrumentista inglese, e dall'altro la cantante scozzese Jenny Lewis, che col suo bel timbro melodico riecheggia da vicino certe suggestioni celtiche: il risultato è una sequenza di otto brani di buon livello, che senza far gridare al capolavoro riescono comunque a coinvolgere nelle loro belle trame strumentali.
La parte più riuscita è probabilmente la lunga suite omonima posta in apertura, che si dipana in quattro momenti per circa trenta minuti complessivi. È qui che la vena dei Sensitive To Light sembra perfettamente a suo agio nell'atmosfera immaginifica evocata dalle liriche: il canto di Jenny Lewis incide con calibrata energia nello schema strumentale creato dalla chitarra di Leff, dalle tastiere di Jean-Philippe Dupont e anche dal sax, in un insieme ben amalgamato e distribuito tra soprassalti ritmici e solenni pause venate di mistero.
Melodia suadente e spunti roccheggianti si alternano felicemente secondo modelli ben noti, ma riproposti con molto gusto dall'ensemble francese: a parte il vibrante sviluppo del primo movimento ("Ephemeral Past"), si apprezza l'eclettica verve chitarristica di Leff, a suo agio nei lunghi assoli come nei momenti più intimisti, e il corposo apporto del batterista Réjane Turrel al movimentato disegno sonoro.
Il chitarrista si disimpegna bene anche al flauto dolce, come in "Legend and Fairytales", spargendo insieme alla voce femminile romantiche spezie che sanno di antiche leggende ambientate in scenari medioevali.
Il resto del disco scorre sui medesimi binari, anche quando esce dai confini di questo repertorio favolistico e mitizzato. Se "Sleeping Volcano", una ballata ad effetto ben costruita, eccede a tratti nella ricerca di tonalità esasperate, portando la stessa vocalist s'un terreno meno congeniale, in "Real World" la voce della Lewis mostra invece buona stoffa d'interprete in tutt'altro contesto: è un rock nervoso e cadenzato, basato s'una ritmica agile e brillanti trame di synth e sax, che si spegne poi dolcemente.
Quanto a "November", si tratta a mio parere di un piccolo gioiello: malinconico e crepuscolare sin dal titolo, scorre s'un tessuto strumentale di grande delicatezza, che richiama l'antica arpa celtica, sul quale il canto solista incide il suo graffito purissimo cesellandolo con la sua grazia inconfondibile.
In coda trova finalmente posto il quinto e ultimo movimento della suite iniziale, privo stavolta di parti cantate, e impregnato invece di echi orchestrali: il pianoforte riprende, depurandolo, il tema portante della composizione, mentre synth e timpani si aggiungono in crescendo per dar vita a un enfatico arazzo prettamente sinfonico. Elegante, certo, ma forse fin troppo di maniera per risultare davvero convincente.
Insomma, il secondo disco dei Sensitive To Light non manca di qualche sbavatura qua e là, ma è un lavoro più che gradevole, a tratti di forte impatto emotivo, e complessivamente lascia intravedere ancora larghi margini di miglioramento.
Con una messa a fuoco più consapevole delle proprie qualità di base, evidenti soprattutto nella suite che intitola l'album, l'accoppiata tra le qualità vocali di Jenny Lewis e la buona stoffa tecnica del gruppo guidato dal chitarrista, promette di regalare ancora intense emozioni ai seguaci del progressive di taglio più sinfonico e romantico.
Per informazioni e contatti:
www.sensitivetolight.net


Akt - "Déntrokirtòs" (Autoproduzione, 2007)

Questo disco è stato concepito e realizzato già da qualche tempo, ma poco importa, poiché si tratta di uno dei progetti musicali più personali che ho avuto modo di ascoltare ultimamente. Ed è ancora una volta singolare che si tratti di un'autoproduzione, non inserita cioè nel circuito ufficiale della distribuzione discografica: ma forse, viene da pensare, era l'unico modo per questo trio bolognese di esprimersi compiutamente, senza piegarsi a certe logiche di mercato.
Akt affonda le sue radici nel 1998, ma la band, inizialmente più numerosa, dopo varie vicende si stabilizza appunto nel terzetto attuale, formato da Marco Brucale, Alessandro Malandra e Simone Negrini.
Per introdurre "Déntrokirtòs" partiamo proprio dal titolo e quello che gli sta dietro: è un termine greco composto ("albero curvo"), e nelle intenzioni simboleggia un "ideale arcipelago ovunquestante". Le sette tracce del disco costituiscono dunque i sette capitoli di un viaggio immaginario in un mondo che c'è ma scorre inosservato intorno a noi: uno spunto suggestivo, che rimanda indubbiamente alle allegorie concettuali del progressive più classico. Gli Akt però, senza rinnegare certi riferimenti, hanno avuto il merito di sviluppare la loro ricerca con paziente tenacia, senza crogiolarsi nelle formule più sperimentate, così da presentarsi oggi con una proposta musicale che brilla per una sua cifra davvero riconoscibile. Gli stilemi tipicamente prog sono qui corroborati, e spesso rigenerati, dall'uso intelligente dell'elettronica e da una scrittura musicale molto sofisticata, capace di elaborare materiali diversi all'interno d'un disegno che si rivela alla fine profondamente organico e unitario, nel rispetto dell'idea di fondo.
La splendida apertura evocativa di "Spazzadiluvi", avvolgente costruzione per tastiere e chitarre, col basso pulsante in primo piano, mostra la buona tessitura dell'ordito, nel quale tecnica e personalità convivono in eccellente simbiosi, con fratture e inserti lirici che fugano al momento giusto il rischio di un'eleganza cristallizzata nei modelli del passato.
La musica degli Akt si distingue da molte altre proposte odierne appunto per questa sua duttilità di base, come altri momenti della sequenza confermano. "Comete", ad esempio, esordisce con un tocco minimalista di piano per impennarsi poi in un crescendo maestoso, di grande effetto, nel quale si esalta anche la chitarra lancinante di Brucale. Più ritmica e movimentata è "Waltz Oblio", che associa un fraseggio particolarmente serrato a originali innesti di sonorità più nostalgiche, secondo un duplice registro che ritroviamo anche in altri episodi. Il dosaggio dei suoni campionati non appare mai gratuito, ma ben integrato e funzionale al contesto, così da contribuire efficacemente all'insieme di una musica estremamente moderna, colta e vitale allo stesso tempo.
Molto bella la sequenza che abbraccia "Alcune Margherite di Legno" e "Le Sette Impressioni del Fauno Scorpione", dove un certo lirismo romantico si lega alle rotture stranianti delle parti vocali, con frequenti cambi di tempo e un'altalena timbrico-emotiva, sulle tastiere di Negrini e le chitarre, sempre incisiva. Nel secondo dei due brani, il gioco del registro introspettivo e quello più sinfonico si fa più stringente, fino a sovrapporsi con grande intensità. Un dualismo che si placa davvero solo nel toccante epilogo di "Abbandonia", ritorno alla realtà di sempre.
Se un piccolo appunto si può muovere a questo bellissimo disco, a tratti perfino sorprendente, è forse una certa incertezza delle parti vocali, non sempre all'altezza dei testi, che sono invece di grande spessore ("Elicrisio" ad esempio) e concorrono alla riuscita del progetto non meno delle musiche. Un peccato veniale, questo, che non inficia assolutamente il giudizio complessivo su "Déntrokirtòs": un'opera raffinata, da ascoltare più volte per coglierne l'intima essenza, che personalmente raccomando a tutti i seguaci della musica più alternativa, non solo per i suoi contenuti, ma anche per la qualità della realizzazione. Un mix che non vi deluderà da parte di questo ottimo trio italiano dal quale è lecito aspettarsi ancora grandi cose.
Per informazioni e contatti:
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The Mars Volta - "The Bedlam in Goliath" (Universal, 2007)

Rieccoci davanti ai Mars Volta, che sfornano un nuovo capitolo della loro giovane ma già impressionante discografia: ogni nuova uscita della band di ispano-americani ha finora lasciato il segno in pubblico e critica, sia pure con effetti diversi, e lo stesso sta avvenendo con quest'ultimo prodotto.
Circa la genesi dell'album, diciamo subito che si tratta di un concept, come avveniva per il debutto di "De-loused in the Comatorium" (2003) e anche in "Frances the Mute". Anche qui, ovviamente, niente di banale: il nucleo ispirativo sarebbe nel dono che il chitarrista Omar Rodriguez-Lopez ha fatto al cantante Cedric Bixler Zavala di una "ouija board". Trattasi di una tavoletta usata ritualmente nelle sedute spiritiche, di origine oscura, in questo caso proveniente da Gerusalemme e accompagnata da una storia che il gruppo ha provato poi a mettere in musica. Niente male come premessa.
Il disco comunque non arretra di un millimetro rispetto ai precedenti, e allinea dodici tracce caratterizzate dalla consueta furia strumentale che ha reso famosi i Mars Volta: una parata di stili fenomenale, e soprattutto una straordinaria grinta nell'esecuzione dei temi proposti. E' questo che colpisce ogni volta: è un rock polisenso dalle mille sfaccettature, abrasivo e devastante, che si presta a opinioni diverse, eppure rimane indiscutibile la caratura tecnica della band. Anche nel brano più complesso e lancinante, dall'impatto sonoro che stordisce, si apprezza l'eccellente qualità di Rodriguez-Lopez e compagni, capaci di non perdere mai il filo rosso che unisce l'incredibile varietà di spunti che la loro musica riesce a sprigionare.
Del resto, entrando nel merito, si parte subito a razzo con "Aberinkula", dove il canto esasperato di Zavala è la punta acuminata di un hard-rock frenetico, sottolineato dalle rullate poderose del nuovo acquisto Thomas Pridgen, le bordate di synth e di un sax ficcante, in un insieme strumentale che mozza il fiato.
Davvero poche le pause atmosferiche in questa scaletta al calor bianco, ma quando si tira appena il fiato è ancora e comunque grande musica: prendete "Tourniquet Man", strisciante incursione psichedelica che rotola tra spirali elettroniche, mellotron incombenti e chitarre scorticate con metodica indolenza. Non c'è mai niente di prevedibile nella vena del gruppo americano, perché tutto nasce nel segno di un'urgenza espressiva tirata al massimo, a volte quasi insopportabile nella sua ricerca costante di un nuovo limite.
Anche gli arrangiamenti si connotano per l'estrema originalità di ogni soluzione, come in "Soothsayer", dove l'esotismo di sapore orientale è associato a un motivo melodico molto accorato, eppure minato da una chitarra malata e da una sequenza incrociata di suoni e disturbi che lo rendono ancora più struggente. Sembra l'esatta fotografia dello stile-Mars Volta: gli estremi che convivono, cozzano, sembrano fondersi in un mosaico sonoro inaudito, poi sfumano nel silenzio prima che la giostra ricominci il suo giro.
Di questo impasto avventuroso e vitalissimo di tonalità la voce solista di Cedric Bixler Zavala si conferma come uno dei punti decisivi, o per dire meglio il vero terminale: duttile quanto incisiva, sa toccare corde diverse senza mai ripetersi, per rendere fino in fondo il lato più emotivo della musica, spesso graffiando come, tra gli altri esempi, nel caso di "Goliath", un torrido hard-rock che ribolle di synth e riff chitarristici in serie, tra i vertici assoluti del disco.
Insomma, chi avrebbe giurato che il gruppo californiano si sarebbe dato una calmata optando magari per un rock più accomodante, è stato nuovamente smentito dall'impatto inequivocabile di "The Bedlam in Goliath", perché la fucina del duo Rodriguez Lopez-Zavala, le menti creative della band, invece che ammorbidire i toni sforna un altro attestato dirompente della propria concezione "totale" del rock in versione terzo millennio: una sorta di manifesto lavico di quella Babele sonora che ha attraversato gli ultimi quarant'anni di musica, e che artisti di questo spessore sanno ancora resuscitare dalle proprie ceneri. Un altro disco imperdibile.
Per informazioni e contatti:
www.thebedlam.net


Radiohead - "In rainbows" (Autoproduzione, 2007)

Dell'ultimo parto di Yorke e compagni si è parlato soprattutto per l'azzardo produttivo della band inglese: il cd, prodotto in proprio, è stato infatti messo direttamente online sul sito ufficiale ed era possibile a tutti scaricarlo, anche gratuitamente. Un vero salto nel buio per tagliar fuori la discografia ufficiale, puntando solo sul rapporto diretto con la sterminata platea dei fans. Com'è andata la scommessa, cifre alla mano, lo sapremo tra poco, ma qui vorrei limitarmi invece a parlare dell'aspetto creativo della faccenda.
"In rainbows" raduna dieci nuove creazioni del gruppo, e la prima impressione è quella di un disco che lascia da parte le sperimentazioni più ambiziose, come i toni eccessivamente spigolosi di altre prove precedenti, tornando invece a una musicalità più schietta. Che significa in pratica? Semplicemente che l'estro dei cinque ha scelto suoni più melodici e non eccessivamente sovrarrangiati, che mirano soprattutto a focalizzare la tipica dimensione crepuscolare che sembra depositata nel loro DNA, in particolare nel timbro vocale inconfondibile di Thom Yorke. Pensare anche quest'ultimo lavoro della band senza la sua tipica vocalità è infatti impresa ardua: è lui il terminale di questo rock ondivago, spesso ammaliante, che si agita nella sua acida malinconia di base, cullata da arrangiamenti che, pur nella loro cifra semplificata, catturano infallibilmente l'attenzione.
Nel dettaglio, "Nude" è sicuramente uno dei momenti più attraenti: parte in sordina, con synth liquidi di sfondo e il basso di Colin Greenwood che pulsa sotto la voce intimista di Yorke, per gonfiarsi lento e irresistibile di un pathos sempre trattenuto, che non grida ma scava in profondità.
Non meno interessante, ma più umbratile, è "All I need", dapprima articolata s'un tono cinereo che poi s'apre a sorpresa sul pianoforte e scivola quasi estatica, come sospesa, sulla voce solista che sale d'intensità nel finale. Pezzo suggestivo proprio nella sua ossatura elementare. Questo minimalismo nelle soluzioni musicali fotografa bene l'intera sequenza, e dimostra come musicisti di talento sappiano andare a segno senza inutili eccessi nella confezione delle proprie idee. Ne è ulteriore dimostrazione lo splendido sigillo di "Videotape", un motivo per pianoforte e voce che vibra di emozione nella sua nuda circolarità, con il solo, raffinato apporto alle percussioni di Phil Selway.
Ovviamente, il disco vive anche di ritmi più corposi, sia pure con risultati disuguali, a volte meno incisivi. E' il caso dell'iniziale "15 step", ad esempio, dove l'elemento percussivo più serrato è la base per un cantato più nervoso e insistiti effetti di tastiere. Con il rock di "Bodysnatchers" le chitarre di Johnny Greenwood e O'Brian entrano con decisione nel tessuto strumentale, e il loro riff portante ci mostra la versione più acida della vena espressiva dei Radiohead, che il canto così duttile di Yorke sa interpretare sempre a dovere. Anche un episodio come "Weird Fishes / Arpeggi", un ripetuto arpeggio chitarristico e poco più, trova il suo vero valore nel cantato, prima che il basso e le tastiere colorino l'ultima parte. E' un po' lo schema della pregevole "House of cards", un altro momento di spicco del disco, mentre nella più breve "Faust arp" la voce è immersa nelle morbide sonorità degli archi che segnalano il brano come uno dei più romantici in scaletta, insieme a "Reckoning", pure sottolineato dai violini.
In sintesi, "In rainbows" non delude le attese, e regala comunque alcuni gioielli nel più limpido stile-Radiohead, qui però prosciugato fino a un limite espressivo di scrittura forse insuperabile, per linearità e pregnanza di soluzioni. Sarà curioso attendere, da questo punto di vista, la successiva mossa di Thom Yorke e dei suoi compagni, e non solo dal punto di vista della produzione e dello sfruttamento delle loro creazioni.
Informazioni e contatti:
www.radiohead.com


Nema Niko - "Meccaniche di pensiero" (Lizard, 2007)

Sotto la sigla Nema Niko opera da una decina d'anni una formazione veneziana già titolare di due dischi apprezzati dalla critica e dalla platea più attenta alle novità.
"Meccaniche di pensiero" ha in effetti la stimmate della musica più sperimentale che ambisce a nuovi orizzonti, in bilico tra musica, poesia e teatro: nove pezzi da gustare senza fretta per assorbirne l'intima suggestione, fatta di suoni rarefatti e parole che sembrano sgorgare da un diario intimo alimentato dalla ricerca di un senso latente, ma forse annidato proprio nel paesaggio più consueto.
È sicuramente un ascolto spiazzante e anche impegnativo, sin dall'attacco di "Vorrei", sagomato dal tocco di un piano minimalista sul quale la voce di Marco Tuppo recita dei versi venati di attesa, disillusi e romantici al tempo stesso. Nello schema entrano anche il violino e quindi la chitarra elettrica di Andrea Albanese a lacerare un paesaggio volutamente dimesso e circolare. Proprio in questa cifra stilistica assorta, prevalentemente acustica e con rari sussulti elettrici, sta il carattere distintivo dei Nema Niko: il loro è un perimetro ben delimitato, entro i quali si avvertono però fremiti a metà tra il rimpianto, la malinconia e la speranza, come testimonia la crepuscolare atmosfera di "Stanco ripetersi", esemplare della poetica di fondo che pervade il progetto della formazione veneta.
A volte sembra che il tessuto sonoro sia una semplice base dove appoggiare i testi, altre volte balza invece in primo piano nella sua chiave tipicamente intimista, mai troppo enfatica, se si eccettua forse "Il domatore e la trapezista", dominato da sonorità sintetiche e sincopato dal "drum loop" di Boldrin. Nella traccia che intitola il disco si parla di "atrofia percettiva, atrofia emozionale", quasi a segnare quel confine che si vorrebbe superare appunto, denunciandolo, nello sviluppo di altri segmenti musicalmente più intensi. Molto bella è "Incanto", cullata dal violino di Davide Gazzato e poi articolata morbidamente su chitarra, percussioni e il pianoforte di Luca Boldrin: la voce scava ancora nella consuetudine che turba e insieme irretisce, in un'altalena densa di risonanze. In "La parola", tra i momenti più efficaci dell'album, la voce recitante di Tuppo è affiancata dai vocalizzi vibranti di Ninfa Giannuzzi, immersa nella bolla liquida delle tastiere, mentre nel finale si fa notare il flauto.
Vagamente orientale, per l'uso molto calibrato di percussioni ed effetti vari, oltre alla trombetta cinese, è l'atmosfera di "Una voce", la composizione più lunga del disco nella quale si distingue ancora il violino che insieme alle chitarre è protagonista di una progressione piuttosto originale.
La sequenza si chiude con le due riprese di "Vorrei": nella prima torna la bella voce femminile, all'interno d'un ripetuto intreccio di chitarre (acustica ed elettrica), mentre nella seconda i suoni sintetici prendono il sopravvento nel tema dominante che si amplifica lentamente, con il basso di Adriano Barbiero in evidenza in un episodio di grande effetto che può ricordare le sonorità dei corrieri cosmici tedeschi.
Nonostante la proposta dei Nema Niko non cerchi mai il facile consenso, "Meccaniche di pensiero" è uno di quei dischi che s'impongono con la loro sapiente mistura di lirismo ben distillato, intriso di sentimenti molto contemporanei, e una tessitura strumentale senza dubbio assai personale, frutto evidentemente di una laboriosa ricerca condotta con meritoria costanza da parte del gruppo. Il pubblico del progressive più classico lo troverà probabilmente di ostica assimilazione, ma lo consigliamo a chiunque apprezzi le musiche più trasversali e fuori dagli schemi.
Informazioni e contatti:
www.nemaniko.it


Robert Wyatt - "Comicopera" (Domino, 2007)

Di Robert Wyatt è quasi inutile ripercorrere la lunga storia musicale che conduce fino a quest'ultimo atto discografico: è, semplicemente, uno dei padri riconosciuti della musica inglese più alternativa, sin dai tardi anni Sessanta. Specie da solista, ogni sua realizzazione ne ha confermato il genio peculiare, distillato con la sobrietà di chi si esprime solo quando ha qualcosa di nuovo da dire.
Dopo "Cuckooland" (2003) Wyatt si ripresenta ora con un lavoro di sedici episodi che ha voluto suddividere in tre atti distinti, come fosse un vero spettacolo teatrale. In realtà ogni gruppo di composizioni richiama una diversità d'ispirazione e d'occasione, come l'ultimo ("Away with the faires") che lo vede confrontarsi con brani non suoi, cantati in italiano e spagnolo.
Il disco però ci prende subito al laccio con l'apertura di "Stay tuned", struggente invocazione a non spezzare il filo d'una comunicazione difficile, ma fedele e preziosa: la meravigliosa voce di Wyatt, quel filo di voce inconfondibile per quanto sembra fragile, intona la sua preghiera ammantato dai toni soffusi dei fiati e di una voce femminile (Seaming To), con gli effetti aggiunti di Brian Eno, uno degli ospiti di lusso che anche in questo album omaggiano il vecchio "re di Canterbury". E' solo la prima perla di un collier che risplende di luci ammalianti e limpide visioni.
Si distinguono anche "You you", firmata in coppia con la storica compagna Alfreda Benge, sempre con la placida bolla dei fiati in evidenza, in particolare sax e clarinetto di Gilad Atzmon e il trombone di Annie Whitehead, e lo strumentale "Anachronist", con la voce usata come un altro strumento aggiunto nel soffice jazz vaporoso che stilla ancora dal gioco incrociato dei fiati. Musica indolente e irresistibile, che traduce in note lo stato d'animo racchiuso benissimo nel titolo. Una sensazione che non si fa mai lamentosa, però, e nella successiva "A beautiful peace", che apre il secondo atto ("The here and the now") si colora anzi d'un mordace piglio sarcastico: le liriche prendono di mira il conformismo asfissiante di certi paesaggi urbani, tra divieti e petulanti inviti alla salvezza, con il canto beffardo cullato sulla chitarra acustica di Phil Manzanera, in uno dei momenti più semplici e accattivanti della sequenza. Della stessa pasta è "Be serious", che satireggia le false certezze delle religioni consacrate, con la chitarra elettrica di Paul Weller che infila accordi in uno stile jazz molto godibile.
Senza parole, ma ancora di grande effetto e piena di risonanze, è invece "On the town square", dove l'inizio in sordina da festa povera si dilata sul sax tenore, la chitarra e le percussioni in una sorta di trasognata fantasia senza tempo. Splendide le armonie vocali di "Mob rule", nel più autentico stile-Wyatt, e ancora sferzante l'ironia di "A beautiful war", mentre "Out of blue" è un'altra invenzione mirabile che nobilita il disco: un incontro magistrale tra la voce filtrata di Eno, il canto e le tastiere spezzate del leader, in un insieme che stupisce e conquista come una piccola magia di arte combinatoria.
In fondo stanno quelle che altrove chiameremmo "cover" di composizioni altrui, e che in Wyatt è più giusto definire "riletture", spesso sorprendenti: come, su tutte, la splendida "Cancion de Julieta", da Garcia Lorca, proposta come una parata onirica sospinta in un vortice di fremiti e dissonanze, col violino distorto di Chucho Merchan in evidenza.
Interessante anche "Del mondo", dei vecchi CSI di Lindo Ferretti, con Wyatt abile a destreggiarsi nelle strofe non facili del testo italiano, e molto bella anche la conclusione della celebre "Hasta siempre comandante", mitico omaggio al Che, che scivola agile e jazzata sul tessuto strumentale offerto in questo caso da musicisti italiani.
Il disco non delude affatto, anzi guadagna qualche punto, secondo me, rispetto al precedente: Wyatt sembra il solito alfiere della musica senza trucchi e senza inganni, tenacemente fedele al suo mondo di valori, suoni, magie che lo rendono un artista in grado di regalare emozioni vere a chi lo ascolta senza pregiudizi. Non è affatto poco, e soprattutto è molto più di quello che sa offrirci la musica di plastica che fa da sfondo al nostro tempo.
Informazioni e contatti:
http://www.strongcomet.com/wyatt/


Solar Project - "Chromagnitude" (Musea, 2007)

Nati alla fine degli anni Ottanta dalle ceneri di una formazione precedente chiamata Solar System, oggi i cinque Solar Project sono una band tedesca piuttosto conosciuta che arriva al settimo appuntamento discografico. Il loro è un sound che si richiama esplicitamente a certo space-rock d'annata, contaminato com'è giusto da sonorità elettroniche moderne e una certa influenza del post-rock più raffinato.
Il disco che abbiamo davanti è composto di sette episodi, ognuno dei quali legato esplicitamente a un colore, nel tentativo di restituire a ciascuno di loro, attraverso la musica, la sua specifica suggestione: un evidente tributo alla tradizione dei concept-album di gusto progressive, giusto per chiarire i propri debiti formativi, con un occhio magari alla teoria dei colori di Goethe.
Del resto, bastano le prime note di "Red", tra i momenti migliori della sequenza, con l'uso sofisticato della chitarra e anche il cantato di Volver Janacek, a richiamare alla mente i Pink Floyd del periodo maturo ("Wish you were here" e dintorni). Per amor di verità le parti vocali, che oltre a Janacek coinvolgono Sandra Baetzel, per quanto ben inserite nella trama sonora non sono sicuramente la parte migliore del disco, che va ricercata altrove.
L'inizio liquido e atmosferico di "Gray", che apre l'album, connota subito la dimensione cosmico-psichedelica della band germanica: sulla scia delle tastiere di Robert Valet s'innesta un rock ben scandito sulla chitarra, con vivaci cambi di tempo sottolineate dal refrain vocale, tra i quali s'inserisce il sax della Baetzel. Un attacco indubbiamente ben congegnato che predispone ottimamente al seguito.
Nei due episodi più lunghi, i Solar Project lasciano molto spazio alle tastiere, e anche alla buona tecnica chitarristica di Peter Terhoeven: è il caso di "Green", segnato anche dalle combinazioni ravvicinate e insistite con il fraseggio organistico di Valet che creano una particolare tensione onirica. "Black", invece, apre sulla chitarra acustica ed evolve poi, dopo il cantato femminile, verso virtuosismi d'organo e una serie di fratture ritmiche fin troppo insistite: discreto, ma non eccezionale, con qualche lungaggine di troppo nell'articolazione strumentale.
Più compatta invece la struttura di "Blue", dove il bel timbro del sassofono nel cuore del pezzo ha comunque una sua attrattiva. Di buon livello è anche "Yellow", contrassegnata da una progressiva dilatazione del tema, che si apre sul mellotron e incorpora poi suadenti arie orientali, fino a una decisa accelerazione ritmica ch'esalta ancora l'organo e la chitarra solista nella parte finale.
A completare il disco è un pezzo molto incisivo come "White", che recupera il brillante tema di "Gray", come a chiudere idealmente il cerchio di questo percorso cromatico messo in musica dalla band tedesca.
Tirando le somme, a mio parere "Chromagnitude" merita una sufficienza abbondante, anche se non mancano piccole sbavature nel risultato complessivo. I Solar Project danno il meglio negli episodi non troppo dilatati, dove sembrano ripetersi oppure non riuscire ad amalgamare i diversi temi proposti: negli episodi più riusciti, invece, emerge un vivace impasto delle singole parti, con una discreta verve melodica a tratti, che viene poi valorizzata dagli spunti solistici di Terhoeven o anche del sax di Sandra Baetzel.
Più in generale, comunque, l'album ha il pregio di richiamarsi alla nobile tradizione del prog-rock di marca psichedelica senza rimanervi imprigionato, però, e cercando una saldatura con le nuove correnti del rock di questi anni. I risultati sono variabili, ma spesso fanno centro e allora non ci si pente di aver acquistato un disco come questo.
Informazioni e contatti:
www.solarproject.de


New Trolls - "Concerto Grosso- The seven seasons" (Aereostella/Edel, 2007)

Forse era inevitabile che l'ennesimo ritorno discografico degli storici New Trolls dovesse riallacciarsi ai loro dischi più noti, e soprattutto al primo "Concerto grosso", registrato nel lontano 1971 e diventato nel tempo un vero classico del progressive italiano, in particolare di tutto quel filone di ricerca nato sotto il segno della contaminazione. Bisogna comunque puntualizzare alcuni dettagli di non poco conto per rimarcare che si tratta pur sempre di due operazioni molto diverse.
Anzitutto, di quella formazione, ritroviamo qui i soli Vittorio De Scalzi e Nico Di Palo (impegnato solo al canto e alle tastiere), finalmente insieme dopo anni di ripicche, mentre compaiono nel disco forze più giovani e un'altra vecchia conoscenza del prog italiano storico, come il batterista Alfio Vitanza, a suo tempo con i Latte e Miele. Le parti orchestrali invece, affidate una volta al maestro Bacalov, sono curate dallo stesso De Scalzi sotto la direzione di Stefano Cabrera. Chiarito questo, occupiamoci dei contenuti.
"The seven seasons", che forse allude alle sette vite del gruppo genovese, si compone di quattordici tracce tra loro organicamente legate, e quello che colpisce subito è appunto l'approccio profondamente unitario alla materia da parte dei nuovi New Trolls. Non si tratta più di calibrare pochi momenti di fusione tra l'orchestra e il gruppo, con la ricerca del singolo picco di grande effetto espressivo, come un solo di chitarra nel cuore d'una sezione d'archi, ma di arrivare piuttosto a un vera osmosi tra le due componenti. Progetto molto ambizioso, indubbiamente, ma al quale portano acqua la maturità di due musicisti di razza, come De Scalzi e Di Palo, e la consapevole riscoperta d'una componente melodica che s'integra con effetti sorprendenti alle trame barocche dell'orchestra. A parte alcuni episodi, infatti, come l'overture di "The knowledge", che pare un doveroso tributo al primo concerto grosso, col flauto che impazza tra i violini, o l'Allegro Brioso di "Barocco'n'Roll", prevale nel disco una vena di pensoso lirismo che lascia il segno: splendida è "Dance with the rain", malinconica ballata per archi, oboe, flauto e la voce sempre convincente di De Scalzi al suo meglio. Della stessa pasta, finissima, è il tempo "andante" di "Testament of time", dalle nobili cadenze orchestrali e pianistiche appena increspate dalle percussioni di Vitanza e da una chitarra solista che vibra quanto basta sul tema principale. Davvero molto suggestivo. Più vivace è invece "The ray of white light" (Rondò), con qualche ricordo dei Queen, dove la crescita del tema sul rock delle chitarre ci ricorda la sperimentata abilità nelle armonie vocali che fu un vero marchio di fabbrica dei New Trolls.
Strettamente legate tra loro sono "The seventh season" e "To love the land": nel primo brano, anticipato dalla cadenza del violoncello in "High education", il tempo "ostinato" degli archi si dipana insieme alle voci corali fino al testo inglese declamato da Shel Shapiro (storico leader dei vecchi Rokes), mentre nel secondo (Adagio) il canto di De Scalzi, immerso nel suono orchestrale con l'efficace appoggio della chitarra, dona al tema un respiro più ampio e disteso.
Sul piano squisitamente strumentale si segnala soprattutto la bella sequenza "The season of hope"/"Simply angels": qui, al raffinato preludio di pianoforte segue un rock finalmente più incisivo e sanguigno che fa esplodere sulle chitarre e la ritmica il tema portante, variato poi sui brillanti inserti vocali che, insieme al contrappunto dei violini, ne fanno un episodio particolarmente eclettico e vivace.
L'unico momento dove l'insieme può apparire forzato è "One magic night", con l'innesto d'una voce sopranile che a mio parere non aggiunge niente al motivo armonico di base, ma sono dettagli. Invece l'effetto-Rondò Veneziano, bisogna sottolinearlo, è aggirato quasi sempre con eleganza dal gruppo, che supera la dicotomia tra rock e barocco in favore d'un superiore piano espressivo, dove vive una musicalità complessa e straordinariamente ricca di vibrazioni antiche e moderne. La melodia di più lunga e nobile tradizione sembra il vero collante del progetto che De Scalzi e Di Palo hanno elaborato in questo bellissimo disco, che paga pegno alla nostalgia solo nel titolo, e ci si offre invece come un mirabile scrigno di suoni preziosi, da gustare con tutta la calma e l'attenzione che meritano creazioni di questo livello.
Informazioni e contatti:
www.newtrolls.it/page/home.html


Marillion - "Somewhere else" (Intact Records, 2007)

A tre anni di distanza dalla bella prova di "Marbles", probabilmente uno dei momenti più alti della loro recente discografia, i Marillion si ripresentano con un disco piuttosto controverso: le dieci tracce che lo compongono, infatti, sono chiaramente orientate a un progressive più lineare nelle soluzioni strumentali, spesso caratterizzato da un nucleo melodico di sicura presa, ma anche da qualche momento meno riuscito.
Il quintetto inglese sa indubbiamente il fatto suo, comunque, e anche in questo nuovo lavoro discografico riesce a infilare una manciata di episodi davvero notevoli, soprattutto grazie alla cura degli arrangiamenti, raffinati quanto versatili, e naturalmente alla bella voce solista di Steve Hogarth, sempre in grado di fare la differenza. La band nel complesso fa la sua onesta figura e il disco non dispiace, ma sono da mettere in conto le critiche e le perplessità di qualche ammiratore ancora innamorato del passato.
In ogni caso, per passare in rassegna il contenuto, l'attacco sincopato di "The other half", con un delizioso inserto di piano nel mezzo, colpisce nel segno per l'abilità vocale del cantante e la sperimentata compattezza del suono. Lo schema si ripete anche in "Thankyou whoever you are", in un crescendo strumentale garantito dalle tastiere di Mark Kelly, e la chitarra solista che vibra nel finale, e anche in "See it like a baby", pubblicato come singolo, mentre a mio parere la lunga title-track, nonostante il falsetto estremamente seducente di Hogarth, si trascina fin troppo e con qualche passaggio non particolarmente originale. Molto meglio un brano più breve come "Most toys", all'insegna di un post-rock secco e martellante valorizzato dal refrain incisivo e ben supportato dal lavoro chitarristico di Steve Rothary.
Tra gli altri momenti interessanti di un disco che, oltretutto, sembra dominato da uno sguardo non proprio positivo sui tempi che viviamo, segnalo "No such thing", una cupa dichiarazione per chitarra e voce filtrata, e la sofferta invocazione di "The last century for man", altrettanto pessimistica sulle sorti del mondo, ma costruita con un certo gusto orchestrale. Da ultimo ho lasciato quello che secondo me è il vero picco artistico dell'album, "A voice from the past": aperto dalle note minimali di un pianoforte che asseconda il canto assorto e ispirato di Hogarth, il pezzo è immerso in una splendida atmosfera crepuscolare, fatta di pause e riprese, fino allo zenith della tensione emotiva che la limpida chitarra solista sottolinea a dovere. Un bell'esempio davvero del migliore stile-Marillion.
Peccato che altre tracce non siano all'altezza di questo gioiello, lasciando talvolta l'impressione di un gruppo che si rifugia nel solido mestiere quando l'ispirazione non è al massimo: "The wound", ad esempio, è un episodio costruito con una certa cura, ricco di pregevoli inserti vocali e qualche numero strumentale ad effetto, ma nel complesso non decolla mai davvero.
Se quest'ultima incisione della band britannica ha un difetto, insomma, è proprio questo: una certa discrepanza nelle soluzioni musicali, a volte brillanti, a volte decisamente meno, che fanno rifulgere alla fine solo alcune perle sonore nel contesto generale del disco. "Somewhere else", sia chiaro, è un album di tutto rispetto e molti lo troveranno affascinante: ma i Marillion, questo è il punto, possono e devono dare di più.
Informazioni e contatti: www.marillion.com


Conqueror - "74 giorni" (Ma.Ra.Cash Records, 2007)

I Conqueror, gruppo di Messina, giungono al secondo appuntamento discografico dopo "Storie fuori dal tempo" (2005): rispetto a quella uscita, l'organico è rimasto identico, eccezion fatta per il nuovo bassista Daniele Bambino che ha rilevato Fabio Ucchino. Siamo dunque di fronte a un quintetto ormai discretamente affiatato, che dimostra di aver raggiunto in quest'album una certa maturità e una convincente identità sonora.
"74 giorni", per cominciare, è una sorta di concept che si rifà all'esperienza umana di Ambrogio Fogar, il celebre navigatore scomparso qualche anno fa: a lui e a Mauro Mancini, il giornalista che lo accompagnava nel naufragio al largo delle Falkland nel 1978, è infatti dedicato il disco. L'idea di fondo spiega la suggestiva impronta romantica che domina da cima a fondo i tredici pezzi della sequenza, intessuti con eleganza e rigore intorno al senso di una grande avventura per mare, con tutte le relative emozioni che è facile immaginare.
Dal punto di vista musicale, i Conqueror devono molto alla delicata e immaginifica vena di Simona Rigano, voce solista e tastierista, come pure ai fiati della sorella Sabrina e alle chitarre di Tino Nastasi: lungo queste coordinate, e fin dall'attacco di "Maschere di uomini", il suono del gruppo messinese si articola con innegabile bravura, lasciandosi apprezzare soprattutto per come sa reggere questo itinerario lirico-musicale senza sbandamenti o cadute di tono.
Le parti cantate si alternano a brevi episodi strumentali, ugualmente ispirati, come la splendida "Il viaggio", con il flauto e la chitarra elettrica supportati a dovere dalle percussioni di Natale Russo, o anche "Cormorani", delicato acquerello pianistico di Simona Rigano. La cantante, dotata di un timbro vocale molto particolare, si mostra all'altezza in "Orca", brano dall'andamento molto dinamico e ricco di ariose aperture strumentali, come pure nella più incisiva "L'ora del parlare", tra i momenti salienti del disco: la ritmica irregolare integra anche interessanti inserti di synth e il lavoro sempre notevole di flauto e chitarra che s'incrociano in maniera efficace, seguendo un andamento ricco di variazioni. Ugualmente mossa e vivace è "Non maturi per l'aldilà", che vede balzare al proscenio il timbro caldo dell'organo ben assecondato dalla chitarra in una combinazione davvero molto "vintage prog".
Tra le composizioni più intense s'inscrive anche "Preghiera", con la chitarra vibrante sotto la voce solista a disegnare l'arazzo del brano, complice il valido apporto al sax di Sabrina Rigano nelle pause più atmosferiche. Di grande effetto è "Nebbia ad occhi chiusi", l'episodio più lungo dell'album, che abbina atmosfere da space-rock al consueto svolgimento frastagliato, fitto di spezzature, sonorità elettroniche e inserti sognanti di flauto a dipingere una magica attesa degli eventi.
Avvicinandosi all'epilogo, la musica dei Conqueror acquista una progressiva tensione che si condensa soprattutto nella rarefatta "Master Stefanos", episodio potentemente evocativo con il flauto e la chitarra ancora in primo piano. Molto bello anche il sigillo di "Cambio di rotta", eccellente incrocio di spirali di synth e sassofono nel quale il canto di Simona s'inserisce con naturalezza, dimostrando tutto il valore e l'amalgama della band siciliana.
Il disco, per tirare le somme, è indubbiamente molto valido, e questo progetto così generoso di spunti e suggestioni ci consegna un'altra formazione italiana che meriterebbe una platea più vasta rispetto a quella fatalmente più sparuta degli appassionati di progressive: è quello che personalmente mi sento di augurare ai Conqueror e alla loro bella musica.
Informazioni e contatti:
www.conqueror.it


La Torre dell'Alchimista - "Neo" (Ma.Ra.Cash Records, 2007)

Questo gruppo di origini bergamasche arriva al suo terzo album dopo l'esordio del 2001 e il live "USA...You know?", registrato al prestigioso NearFest del 2002, ma pubblicato solo nel 2005.
Le promesse iniziali, comunque, sembrano trovare oggi eccellente conferma in questa raccolta di sette episodi inediti nei quali il quartetto sembra decisamente incanalato lungo direttrici stilistiche che rimandano alla grande lezione del rock sinfonico dei Settanta, suonato però senza troppo indulgere ai suoi modelli, con lodevole scioltezza e ottima coesione strumentale. Le tastiere brillanti di Michele Mutti, che non a caso firma tutte le musiche, restano la cifra dominante della Torre, anche per la mancanza in organico d'un chitarrista di ruolo, e bisogna dire che il tastierista mostra un brio notevole nell'ordire le trame strumentali che compongono il disco, destreggiandosi a dovere soprattutto all'organo Hammond e ai sintetizzatori, oltre che al piano in un paio di brevi strumentali.
Il rock della band scorre arioso e fluido, all'insegna d'un interno dinamismo che mette a nudo l'eccellente apporto della sezione ritmica, agile quanto serve, fugando presto il rischio latente di cadere nelle secche d'un virtuosismo fine a se stesso, freddo e impersonale. Niente di tutto questo in "Neo", anche se l'album rivela grosse ambizioni, ad esempio nelle liriche di un certo spessore, e la stessa scrittura è tutt'altro che banale, al di là dell'apparente facilità esecutiva di Mutti e compagni.
Un grande punto a favore della Torre è senz'altro la voce solista, dato che il bravo Michele Giardino mostra una notevole personalità e un timbro interessante, anche piuttosto versatile, capace di interpretare con dovizia di sfumature i contenuti piuttosto originali della parte lirica.
Passando all'analisi dei singoli brani della raccolta, che manca di veri punti deboli e scorre con notevole compattezza dall'inizio alla fine, si può citare l'attacco arioso di "Dissimmetrie", bella performance del tastierista arricchita dall'apporto al sax soprano di Mauro Donini, e poi le quattro parti di "Cerbero", dove si esalta l'amalgama tra le parti cantate e la struttura sempre mossa e articolata, con l'inserto di un violino (Francesca Arancio) che insieme all'organo incorpora con elegante naturalezza suggestioni barocche di grande effetto.
In "Medusa" compare anche il mellotron, abbinato però al consueto fraseggio dell'organo e al respiro incalzante di basso e batteria in una trama che si dipana ancora molto agilmente, come il canto ispirato di Giardino. Anche la prima parte di "Risveglio, procreazione e dubbio" mostra interessanti giochi vocali incastonati nel tessuto strumentale ricco e variegato, con lunghi inserti dalle tonalità più scure che portano in primo piano il synth e quindi, nel finale, anche il pianoforte. Lo stesso pianoforte squisito che domina lo strumentale seguente, "L'amore diverso", parentesi intimistica e particolarmente evocativa.
Nel finale, la seconda parte di "Risveglio, procreazione e dubbio", che ospita un bel gioco di flauto e ancora mellotron di sfondo, il rock della Torre mostra tutte le sue carte migliori in una trama ricca e imprevedibile, tra effetti sintetici e abili fratture ritmiche, mentre la voce solista spicca in cima a questa sagace piramide strumentale.
Un disco del genere piacerà molto ai fans del prog barocco d'annata, ma non solo: la sua intelligente confezione, mai pesante e invece fresca e spigliata, rischia di trovare seguaci anche negli appassionati più esigenti in cerca di buone vibrazioni. Perché indubbiamente, a conti fatti, La Torre dell'Alchimista sembra ormai in possesso di tutti i requisiti per ritagliarsi un posto di spicco nella nuova realtà del progressive italiano.
Informazioni e contatti:
www.latorredellalchimista.it


Rush - "Snakes & Arrows" (Atlantic, 2007)

Ci sono formazioni che non sembrano patire il tempo che passa, e anche se i fans si aspettano sempre l'ennesimo capolavoro, non lasciano mai davvero delusi nelle loro nuove uscite. I Rush, un trio canadese che ha cominciato la sua avventura musicale negli anni Settanta sotto il segno del rock più duro per evolversi rapidamente in maniera più originale, sono appunto tra queste realtà.
Anzitutto è da rimarcare come la line-up, caso abbastanza insolito, sia rimasta la stessa sin dal secondo disco ("Fly By Night", 1975), quando l'attuale batterista Neil Peart affiancò Geddy Lee (voce, basso e tastiere) e Alex Lifeson (chitarra): da questo momento il trio inanella una serie di incisioni decisamente notevoli, assimilando all'interno dei canoni hard-rock una serie di chiari riferimenti al mondo progressive, come le lunghe suites, e rimpolpando la strumentazione di base con le tastiere. Nel corso degli anni, ovviamente, il gruppo ha attraversato anche qualche calo d'ispirazione, ma ancora oggi ogni nuovo disco è atteso con appassionata curiosità da schiere di fedelissimi.
"Snakes & Arrows" è per molti versi un album che mostra i suoi anni, ma in un senso niente affatto negativo, anzi: l'impressione è che Lee e compagni, saggiamente, abbiano evitato di rifare il verso a se stessi o rincorrere mode effimere, come altri loro colleghi, per mettere invece a frutto la propria esperienza di musicisti abili e sempre più raffinati. Bando alle suites più elaborate, dunque, e brani più brevi, con ritmi meno frenetici di una volta, che lasciano emergere una componente melodica ancora brillante accanto a una scrittura rock che rimane di prim'ordine e può giovarsi di un affiatamento sedimentato nel tempo.
Il disco si compone di tredici tracce che riservano anche qualche sorpresa, ma colpiscono soprattutto per la compattezza dell'ispirazione, già con l'apertura di "Far cry", un potente hard-rock dal riff sperimentato. Si apprezza l'equilibrio tra le chitarre di Alex Lifeson e la ritmica dinamica del duo Lee-Peart, perfetta cornice per gli spunti più melodici, spesso corroborati da iniezioni di synth e archi, come nella bella "Faithless".
In una successione stilisticamente così omogenea non è comunque facile individuare gli episodi migliori, se non in base a piccole sfumature. Personalmente ho apprezzato molto un brano come "Armor and sword", ideale fusione di cantato melodico e martellante scansione rock, e poi la sequenza "Spindrift" / "The main monkey business": il primo è un brano dal riff tagliente e ossessivo, con suggestive riprese interne del tema, dove la splendida voce solista di Lee ha modo di riconfermare le sua qualità espressive, mentre il secondo è uno strumentale per niente canonico, un vero gioiello con il synth in bella evidenza sotto la chitarra solista e il basso pulsante, che dimostra una grande poliedricità nella concezione stessa dei brani.
Sono appunto questi preziosismi a fare la differenza tra i Rush e tante altre formazioni tipicamente heavy-rock dell'odierna scena musicale. "Hope" è un altro breve strumentale vagamente esotico per la sola chitarra acustica di Lifeson, che in "Bravest face" abbina le corde acustiche al riff abrasivo dello strumento solista. Eccellente anche l'epilogo, affidato alla positiva riflessione di "We hold on", mirabile esempio di rock-song trascinante e di sicura presa melodica, senza sbavature.
Le reazioni a questo album saranno probabilmente discordanti, e tutto questo fa parte del gioco: tuttavia mi sento francamente di augurare ad altri artisti di così lunga militanza la stessa, invidiabile maturità che i Rush dimostrano in "Snakes & Arrows", costruita dal trio canadese su un mix davvero raro di personalità e tenace affinamento delle proprie qualità di base, senza mai cadere nell'ovvio o, peggio ancora, nel puro manierismo. Avercene...
Informazioni e contatti:
www.rush.com


Alex Carpani - "Waterline" (Cypher Arts, 2007)

Il caso di Alex Carpani, tastierista e compositore in buona parte autodidatta, con interessi che spaziano tra l'elettronica, il jazz e il progressive, fa pensare che in Italia continui a proliferare un gran numero di personaggi di grande talento che aspettano ancora il giusto riconoscimento.
Dopo anni di esperienze molteplici e preziose, rimaste però confinate in ambito locale, Carpani ha scritto di getto questo suo ultimo lavoro nel 2003, durante un periodo di forzata immobilità: messo in contatto con l'etichetta americana Cypher Arts, il tastierista ha sviluppato il progetto, inizialmente privo di parti vocali, con l'aggiunta di liriche adeguate e l'intervento di Aldo Tagliapietra (il leader delle
Orme) come voce solista. Il risultato è appunto "Waterline", un album dedicato come dice il titolo inglese al "pelo dell'acqua", esile confine tra il mondo emerso e quello sommerso, con tutte le risonanze metaforiche del caso.
Fin dalla suggestiva copertina, firmata dal celebre Paul Whitehead, il grafico legato ai principali successi dei
Genesis, il disco si pone nel solco di un certo rock progressivo d'annata. Carpani dichiara senza riserve la sua predilezione per quella stagione musicale, e gli undici episodi dell'album dimostrano la perfetta assimilazione di certi modelli, filtrati però da una cifra tecnica e compositiva davvero notevole.
La splendida apertura di "The siren and the mariner" c'introduce a un paesaggio seducente, dove il gioco delle due voci (Tagliapietra e Beatrice Casagrande) s'inserisce in un contesto sonoro immaginifico, articolato sulle ricche tastiere del leader (piano, organo, synth) ma supportato da uno stuolo di musicisti eccellenti. Siamo di fronte a un rock barocco-sinfonico di squisita fattura, suonato con gusto, che rivela una personalità già matura. La sequenza, che a un primo ascolto colpisce per la forte omogeneità stilistica, rivela lentamente tutte le sue sfumature, fino a comporre una sorta di prezioso mosaico ricco di sorprese.
Il lirismo romantico, evidente in tutti i brani, non impedisce all'elemento ritmico di giocare un ruolo importante, come in "Levees' breack" ad esempio, che si snoda tra progressioni percussive e pause atmosferiche, con la chitarra e l'organo che s'incrociano continuamente. Molto bella anche "Reclaimed", dove Carpani si destreggia al meglio anche al moog, nel tipico alternarsi di pause e ripartenze che rimane la cifra distintiva della sua musica e tiene sempre vivo l'interesse.
Il classicismo elegante di certi attacchi al piano, come in "Agua claro", tra i momenti migliori, lievita regolarmente in un disegno sofisticato nel quale trovano spazio le trasognate parti vocali di Tagliapietra (vedi anche "In the rocks"), e soprattutto le ottime qualità dei musicisti americani coinvolti nel progetto. In uno strumentale come "A gathering storm", soprattutto, prevale un'atmosfera fusion davvero intrigante, con il sax di Cory Wright protagonista insieme al timbro della chitarra elettrica e della sezione ritmica formata da Dan Shapiro (basso) e Neil Bettencourt (batteria). Il viaggio di "Waterline" procede secondo un graduale e suggestivo accumulo di tensione strumentale, ad esempio nel crescendo pianistico di "The waterfall", prima di sfociare nel jazz arioso di "Catch the wave", ancora contrassegnato dal sax di Wright. Il vero suggello del disco è invece affidato alla rilettura bachiana di "Prelude in C min.", operazione eseguita con eleganza e misura.
E' difficile trovare un difetto a questo disco di Alex Carpani: è suonato benissimo dall'inizio alla fine, e lascia trasparire soprattutto un'ispirazione genuina che, pur legandosi ai modelli di un certo "vintage prog", sa tradursi in un approccio stilistico molto personale, moderno e raffinato nelle soluzioni strumentali come negli arrangiamenti. Un piccolo gioiello davvero, di fronte al quale viene subito da chiedersi: perché progetti di questo livello non trovano spazio nella discografia italiana di oggi? La domanda, ovviamente, è retorica.
Informazioni e contatti: www.alexcarpani.com  e www.cypherarts.com


Delirium - "Live / Vibrazioni notturne" (Black Widow, 2007)

Davanti a certi ritorni di fiamma, ammettiamolo, c'è sempre il sospetto dell'operazione biecamente commerciale, e molte volte è stato proprio così, con prodotti decisamente scadenti che hanno finito per sporcare l'immagine di questo o quell'artista. Per i Delirium sospendiamo per ora il giudizio, soffermandoci su questo disco dal vivo, registrato la scorsa estate, che segna il loro ritorno discografico, e in attesa magari di un seguito a base di nuovo materiale.
Della formazione originale, che incise tre album tra il 1971 e il 1974, non c'è più ovviamente Ivano Fossati, protagonista decisivo del bellissimo "Dolce acqua", disco d'esordio del gruppo genovese, ma ci sono ancora Pino Di Santo (batteria/voce), Ettore Vigo (tastiere/voce) e soprattutto l'inglese Martin Grice, impegnato al flauto e al sax. Completano il nuovo organico il chitarrista Roberto Solinas e il bassista Fabio Chighini. Il quintetto mostra anzitutto una verve strumentale e una freschezza nelle parti cantate che denota un entusiasmo genuino, un affiatamento che ha retto bene la prova del tempo: la stagione più eroica del progressive è finita, ma la passione sembra ancora la stessa.
Il disco è composto di tredici brani, equamente divisi tra il primo e il secondo disco ("Lo scemo e il villaggio", 1972), più qualche rarità e un paio di "cover". Nel repertorio più noto, il vero protagonista è Martin Grice, indiavolato folletto che con il flauto imperversa in cavalli di battaglia come "Dolce acqua: Speranza" e "Johnny Sayre: Il perdono", ma anche nelle più spigolose cadenze di "Villaggio", un jazz-rock con robuste iniezioni di chitarra elettrica e il piano squisito di Ettore Vigo, fino alla più atmosferica "Gioia, disordine, risentimento", dove il sax incide con bella personalità.
In altri episodi prevalgono vivaci armonie vocali coniugate al tipico tessuto jazzato, dalla ritmica nervosa e saltellante, come "Egoismo", oppure in "Culto disarmonico", dove i tempi dispari lasciano emergere l'ottima vena di Pino Di Santo alla batteria e il piano di Vigo, prima che Grice lasci ancora un segno graffiante con un sax particolarmente ispirato.
La musica fluisce sempre gradevole e impeccabilmente suonata, rimettendo a nuovo suggestioni che rivelano ancora un intatto potere evocativo, nonostante gli anni trascorsi. Interessante anche "Notte a Bagdad", il singolo uscito lo scorso anno, che attualizza il discorso musicale sottoforma di un fresco motivo antimilitarista, così come il medley dedicato ai Jethro Tull, protagonista ancora Grice sulle orme di Ian Anderson, e la riproposta di "With a little help from my friends", cantata proprio dal fiatista inglese.
L'apoteosi, ovviamente, è la celeberrima "Jesahel", uno di quei motivi che hanno segnato una stagione lontana e irripetibile della nostra musica popolare, e che sprigiona ancora un fascino tutto suo.
Il giudizio sul disco, insomma, è positivo, anche perché i nuovi Delirium hanno resistito alla tentazione di trasfigurare il loro repertorio d'annata, come altri avrebbero fatto, riproponendolo invece nella sua veste originaria, sia pure rinvigorito dalla freschezza dei suoni "live" e anche dalla presenza di una chitarra solista molto incisiva com'è quella di Roberto Solinas.
La speranza, però, e l'augurio, è che la band ligure possa dimostrare davvero le sue potenzialità in un disco tutto nuovo: solo allora avremo la sensazione che i Delirium sono veramente tornati, e non solo per un tuffo nella nostalgia di una notte.
Informazioni e contatti:
www.idelirium.it


Knight Area - "Under a new sign" (Laser's Edge, 2007)

A tre anni di distanza dall'esordio di "The sun also rises", questa formazione olandese si ripresenta con un album nuovo di zecca che ribadisce i suoi punti fermi. Fedele più che mai a certo prog romantico e favolistico, aggiornato secondo i dettami del cosiddetto neo-prog anni Ottanta, il gruppo guidato dal tastierista Gerben Klazinga mette insieme sette tracce che non si sforzano affatto di mutare pelle, e anche se qua e là la ritmica e gli arrangiamenti si fanno più serrati e incisivi, non c'è dubbio che il disco sia destinato soprattutto a quanti hanno nel cuore la lezione di Genesis o Marillion.
Rispetto alla prova precedente, comunque, c'è stato qualche aggiustamento in organico, che si riduce a un settetto, definendo meglio i singoli ruoli e lasciando al solo Mark Smit l'incombenza delle parti vocali. L'equilibrio così raggiunto appare ideale per far risaltare le qualità di questa musica, il cui rischio latente, ovviamente, è sempre quello di scadere nel puro "archeologismo" sonoro: chi sceglie modelli così nobili, infatti, deve sudare il doppio per dimostrare di avere una propria personalità.
Devo ammettere che al primo ascolto il disco non mi aveva entusiasmato, ma successivamente "Under a new sign" è risalito nella mia considerazione: non è un album che metterei tra quelli da non perdere, onestamente, ma allo stesso tempo mi sembra una sequenza di buon livello, che senza strafare mantiene comunque il suo interesse da cima a fondo, regalando anche qualche sorpresa.
L'omogeneità stilistica è tale che i brani tendono a somigliarsi tra loro, e ci vuole pazienza per definire le singole caratteristiche dei vari episodi. Il momento più romantico è senz'altro "Corteous love", delicato arazzo per pianoforte e flauto, affiancati poi dal violoncello: il cantante Mark Smit sfodera anche un eccellente falsetto prima che il pathos cresca alla distanza con l'ingresso della batteria. Il flauto di Joop Klazinga appare anche nelle due parti di "A different man", in apertura e in coda, episodi più movimentati che catturano meglio la personalità dei Knight Area. Qui il tastierista si destreggia bene tra mellotron e organo, mentre le fratture ritmiche sottolineano l'articolarsi del tema, tra inserti vocali e riprese strumentali, e nel finale è la chitarra solista a incidere con buon effetto. Nella seconda parte, più estesa, l'atmosfera si giova di synth enfatici e più robusti innesti di chitarra, secondo un lirismo inconfondibile che rimanda alla grande stagione del rock sinfonico, ma indubbiamente ben incastonato nel contesto sonoro.
Molto bello l'attacco di "Dreamweaver", ancora segnato dal synth, che colora ariosamente l'evoluzione strumentale del pezzo, per altro rimarcato da cadenze rock più aggressive e dal canto energico di Smit. Avviene lo stesso in "Mastermind": qui anzi l'altalena tra il cantato e le chitarre è la vera struttura portante, mentre chitarra solista e synth dialogano con grande vivacità a metà brano.
L'unico brano interamente strumentale è proprio quello che intitola l'album, e dà modo di apprezzare ancora una volta la buona vena del tastierista, capace di affrontare con gusto sonorità targate anni Settanta che restano imprescindibili per questa band olandese.
La produzione, a cura dello stesso Gerben Klazinga, è molto buona e alla resa dei conti la seconda prova dei Knight Area si raccomanda come un buon esempio di rock progressivo, elegante e ben suonato, anche nei momenti che più indulgono al passato.
Informazioni e contatti: www.knightarea.com


Xang - "The last of the lasts" (Galileo Records, 2007)

Questo quartetto francese di Cambray torna alla ribalta dopo circa otto anni dal disco d'esordio ("Destiny of a dream", 1999) con un ambizioso progetto musicale dedicato alla prima guerra mondiale. Già la foto di copertina, una lunga distesa di croci presa in un cimitero di caduti nel conflitto, ci porta nello spirito dell'album, come pure le cifre, i dati e le altre immagini contenute nel corposo booklet.
A partire da questo evento bellico costato lutti e dolori, gli Xang sviluppano otto tracce esclusivamente strumentali, contando sul potere evocativo della loro musica, sintetizzata in titoli che sembrano altrettanti capitoli "esemplari" di quel conflitto: fango, trincee, gas, camerati, e così via. Il gruppo suona un progressive di solida impostazione, tendenzialmente sinfonico, ma senza mai cadere negli stereotipi più obsoleti del genere, grazie all'attento equilibrio compositivo tra l'ampio spettro delle tastiere di Vincent Hooge e la duttile chitarra di Antoine Duhem. Ne viene fuori un suono compatto e potente, sufficientemente vario nelle sue trame strumentali, senza momenti deboli e davvero ben suonato da musicisti che sembrano aver raggiunto negli anni un eccellente affiatamento.
Lo si nota soprattutto nelle lunghe "Sacrifice", posta in apertura, e "Verdun". La prima, introdotta da una raffinata chitarra acustica, evolve poi sulle tastiere drammatiche in bella combinazione con le note lancinanti della chitarra solista all'interno d'un ritmo serrato, contrassegnato da fratture e riprese del tema. Bellissimo l'attacco di "Verdun", evocativo e solenne, con una chitarra delicata a sostegno delle tastiere: il synth di Hooge dipinge atmosfere cangianti, ben assecondato dalle scansioni acide della chitarra, in una successione di atmosfere che cattura il senso profondo racchiuso nel nome della località sede di una delle più tragiche battaglie del conflitto.
Sonorità più "heavy" si ritrovano nel più breve episodio di "Mud", dove la chitarra solista sale al proscenio con notevole mordente, e anche in "Trenches", dove il colore del synth si fa più drammatico e ficcante, mentre il chitarrista contribuisce al pathos del pezzo con lunghe distorsioni tirate alla spasimo. "On leave", tra i momenti più incisivi dell'album, mostra invece la capacità del gruppo francese di variare registro musicale: il sapiente intreccio di chitarra acustica, batteria e basso, suffragato dal piano elettrico in un contesto di raffinata fusion, cresce poi alla distanza con l'ingresso di un organo particolarmente acido. Altri momenti, come "Roommates", con il pianoforte e l'accordion in evidenza, o la finale "Gas", sono impregnati di tonalità nostalgiche e struggenti, sempre arricchite da corpose variazioni che danno il senso di una band indubbiamente dotata e padrona dei suoi mezzi.
"The last of the lasts" è un disco che può soddisfare in ugual misura i seguaci del prog sinfonico e coloro che invece prediligono sonorità meno canoniche e più moderne: è un affresco di musica sofisticata, che promette di svelarsi soprattutto dopo ripetuti ascolti, proprio in virtù delle molteplici influenze che gli Xang hanno saputo condensare in questo secondo capitolo della loro attività musicale.
Poiché, a quanto pare, i membri del gruppo non vivono di musica, e questo spiega gli anni trascorsi tra i loro due dischi, non sappiamo quanto dovremo attendere nuovi lavori da loro: speriamo poco, comunque, visto il livello decisamente alto raggiunto in questo caso. Di artisti così c'è sempre bisogno.
Informazioni e contatti:
www.xang.free.fr


Ghost - "In stormy nights" (Drag City, 2007)

Evidentemente la musa psichedelica non è mai morta e ha fatto proseliti anche in Giappone, come dimostra l'ultimo disco di questa band nipponica giunta ormai all'ottavo appuntamento discografico.
Si tratta di un gruppo dalle solide radici nel sound dei Settanta, che in questo caso lascia però da parte certe formule di prog più canonico per abbracciare atmosfere più personali, sempre più libere da schemi prefissati. Guidati da Masaki Batho, voce solista e chitarra acustica, i Ghost stanno bene attenti a non cadere nelle trappole "retrò" di tanti artisti loro connazionali, dediti a una sorta di clonazione musicale dei modelli anglosassoni: nelle sei tracce dell'album si sente subito il tentativo di crearsi un proprio universo espressivo, e non annacquare mai la propria ricetta stilistica per compiacere il pubblico.
Lo dimostra la lunga "Hemicyclic anthelion", quasi mezz'ora di musica che sfugge a qualsivoglia etichetta: sonorità fluttuanti e industriali, rumoristica ossessiva, chitarre distorte ed effetti elettronici di ogni tipo dipingono uno scenario fosco e inquietante, che ha forse l'unico torto di un'eccessiva durata, ma sgombra il campo da ogni equivoco sulle reali intenzioni del gruppo giapponese.
Altrove, la vena della band non è meno radicale, pur inquadrandosi in schemi di maggiore fruibilità: molto bella è l'apertura di "Motherly bluster", ad esempio, una sorta di folk-song per chitarra acustica, dove Batho dimostra le sue qualità di vocalist eclettico, ben assecondato da flauti e synth sapientemente orchestrati. "Water door yellow gate" è forse il gioiello della raccolta, con la sua atmosfera drammatica e martellante, garantita dalla ritmica marziale e dalla chitarra acida di Michio Kurihara che semina il pezzo di vibrazioni irregolari, mentre il canto del leader s'incide con chirurgica tensione emotiva. A ruota, come seguendo lo stesso schema, viene "Gareki no toshi", ancora segnata dai timpani ossessivi come il piano a martello di Kazuo Ogino, tra scomposte voci metalliche e i tortuosi percorsi di una chitarra solista senza pace.
Spiazzante anche la cover di "Caledonia" (a suo tempo incisa dai Cromagnon), dove le cornamuse debordano insieme alle scariche elettriche di chitarra, le voci stravolte e tirate, con Junzo Tateiwa che picchia invasato sui suoi timpani per scandire una specie di girandola orgiastica.
I tre episodi appena descritti costituiscono una sequenza sonora davvero impressionante, sotto il segno di una tensione ipnotica che sembra sciogliersi solo nel finale. Dopo tanta concitazione, i Ghost regalano infatti un colpo di coda come "Grisaille", una splendida ballata folk, da ricollegare all'iniziale "Motherly bluster", ma qui la voce di Batho sprigiona una malinconia superiore, struggente, mentre il motivo scorre cullato dagli arpeggi acustici e dal flauto, prima di una coda magnifica dove Kurihara sale ancora in cattedra e lascia vibrare a lungo le note della sua chitarra. Un sigillo di gran classe, perfettamente adeguato alla cifra stilistica del disco.
Siamo di fronte a un manifesto davvero prezioso di musica libera e creativa, concentrato in un album che mette in risalto, oltre alle qualità dei singoli, soprattutto un senso spiccato per la ricerca di soluzioni originali, molto ostiche talvolta, ma capaci comunque di regalare un brivido anche all'ascoltatore più smaliziato. Insomma, gruppi come i Ghost sono davvero merce rara di questi tempi: andrebbero conservati sotto teca, come i loro dischi. Questo, intanto, lo consiglio a tutti i musicofili più esigenti, sempre in cerca di emozioni diverse.
Informazioni e contatti:
www.ab.cyberhome.ne.jp/~pochamal/


Pain Of Salvation - "Scarsick" (Inside Out, 2007)

La Svezia è da qualche anno uno dei paesi leader della produzione discografica, vista la quantità e la qualità delle sue proposte. Nell'ambito del prog-metal, non c'è dubbio che una delle band di punta siano proprio i Pain Of Salvation, che giungono al loro sesto album con questo "Scarsick", un lavoro ambizioso e per niente semplice da inquadrare.
Il quartetto scandinavo, diciamolo subito, si dimostra sicuramente più agguerrito di tanti altri gruppi che dominano la scena: anche un ascoltatore non particolarmente avvezzo a certi stilemi di rock più duro, infatti, noterà a un primo ascolto la disinvolta serie di atmosfere e tonalità che si avvicendano nelle dieci tracce dell'album, fino a comporre un caleidoscopio di non facile lettura, ma indubbiamente mai banale. Dietro, pur senza entrare nel merito, s'intuisce un progetto unitario che mette al centro il mondo di oggi in tutta la sua complessa asprezza, visitata da angolazioni ogni volta diverse con modalità sonore assai difformi, quasi nel tentativo di restituirne il senso smarrito nella babele del tempo in atto. Questa chiave ci permette di comprendere meglio certe discrepanze stilistiche che altrimenti parrebbero il frutto di un'ispirazione schizofrenica o non troppo personale.
Il meglio del disco, a mio parere, sta nella prime tracce della sequenza, mentre qua e là, la band sembra inseguire fin troppe suggestioni per dare corpo al suo disegno, col risultato di lasciare interdetti. L'attacco di "Scarsick", per lasciar parlare la musica, è un brano dall'impatto devastante e oscuro, con la voce multiforme di Daniel Gildenlöw capace di reggere la tensione debordante delle chitarre e della ritmica con ammirevole bravura. Anche qui però, come altrove, si aprono piccole e inopinate parentesi melodiche, con le voci corali, che mostrano un certo eclettismo del gruppo svedese. Meno serrata nel ritmo, ma ugualmente potente, è la successiva "Spitfall", con la voce solista che inanella lunghe e concitate immagini cariche di rabbia e violenza su cadenze "rap", bilanciate da morbidi inserti cantati che rilanciano ogni volta il refrain ossessivo del tema portante. Il trittico iniziale è completato da "Cribcaged" che subito, con il tenero sottofondo vocale di un neonato, va a situarsi altrove: sembra una pausa, un intervallo di raccoglimento che sceglie le cadenze di una ballata per piano e chitarra, prima di evolvere in un bel crescendo sulla voce sempre intensa di Gildenlöw.
Qui le carte si rimescolano, e accanto a episodi davvero notevoli, come ad esempio la morbida "Kingdom of loss", o anche la più tirata "Idiocracy", con il timbro drammatico delle tastiere di Fredrik Hermansson finalmente in primo piano, si ascoltano spiazzanti ritmi "disco" anni Settanta ("Disco queen") o curiosi rock fin troppo lineari ("America"), che sembrano davvero tessere di un mosaico particolarmente complesso, che gioca però su troppi registri per risultare pienamente convincente. La chiusura di "Enter rain", altro episodio di bella atmosfera, con sottili ricami di chitarre e tastiere che si accendono in periodiche fiammate, lascia ancora spazio alla splendida voce solista e conferma le potenzialità non comuni di questa band.
Se "Scarsick", per quanto ricco di grandi momenti, non resterà probabilmente come il disco più riuscito dei Pain Of Salvation, il loro tentativo di evadere dagli stereotipi più triti del genere "metal" in favore di sonorità diverse, e indubbiamente interessanti, merita comunque rispetto. Forse il gruppo è solo all'inizio di un cammino ancora ricco di svolte imprevedibili, che può riservare molte sorprese.
Informazioni e contatti:
www.painofsalvation.com


PFM - "Stati di immaginazione" (Sony/BMG, 2006)

Dopo il disco-evento "Dracula", l'opera rock del 2005, la Premiata Forneria Marconi si è lanciata in un'altra impresa inedita nella sua già lunga storia. Stavolta si trattava di mettere a confronto i suoni rock del gruppo con le immagini di otto film molto diversi tra loro, quasi sempre tratti da collezioni e archivi privati, scelti con l'aiuto della manager Iaia De Capitani.
La trovata è appunto quella di abbinare il CD al DVD che contiene gli otto filmati, ma personalmente ritengo più giusto ascoltare la parte musicale come un prodotto autonomo, e solo in seconda battuta guardare il risultato completo delle immagini sonorizzate. Questo perchè la PFM, nella formazione triangolare Di Cioccio-Mussida-Djivas, affiancati dal tastierista Gianluca Tagliavini che sopperisce all'assenza di Flavio Premoli, sembra liberata da una sorta di impedimento concettuale che imbrigliava le sue ultime prove, e nelle otto tracce strumentali del disco recupera una felicità espressiva di antica memoria, e una freschezza nei suoni perfino paradossale. Quasi che lo spunto offerto dalle immagini non fosse affatto, come a volte succede, un limite ma invece l'alibi perfetto che consente a strumentisti di immenso valore di sfoderare tutto il loro bagaglio espressivo e tecnico.
Fatto sta che il disco scivola via ch'è un piacere, raffinato a tratti, ad esempio in quello splendido arazzo che è "Il sogno di Leonardo", che incorpora accenti barocchi nel suo virtuoso crescendo legato al tema del volo umano, ma anche pronto a riscoprire l'anima rock quando è il caso: succede allora che Mussida prenda in mano le redini del suono, come in "Cyber Alpha", e la sua chitarra immaginifica trascini il gruppo in un crescendo davvero irresistibile dopo un'intro in sordina. Qui affiorano i benevoli fantasmi del periodo americano della Premiata, immortalato dal fantastico live del 1974, e l'affiatamento tra i tre, con l'intesa perfetta tra il basso e la batteria, produce autentiche scintille. Il basso di Patrick Djivas guida da par suo le danze in "La conquista", abbinato alle immagini di pigmei alle prese con la costruzione di un ponte sul fiume, finché il ritmo pulsante si scioglie dentro una nuvola evocativa ancora graffiata dalle corde della chitarra solista e poi dal moog prettamente "seventies" di Tagliavini. Un gioiello. "Agua azul" vive invece all'insegna di una sofisticata fusion, sottolineata dall'apporto decisivo al violino di Lucio Fabbri, ottimo anche in altri episodi, e da una costruzione frastagliata ed elegante. L'altro brano da segnalare, in un album di straordinaria perizia e freschezza, è sicuramente "Visioni di Archimede", che chiude la sequenza: veramente splendido il graduale sviluppo di un tema complicato da periodiche rotture ritmiche, fino all'ingresso sanguigno della chitarra solista. Un sigillo all'insegna del fuoco creativo dello scienziato citato dal film, che bilancia perfettamente l'apertura liquida e imprevedibile di "La terra dell'acqua", legato appunto alle immagini di Venezia.
Non era facile, forse, attenderselo proprio da un progetto del genere, eppure "Stati di immaginazione" ci consegna un piccolo capolavoro di musicalità trasversale, ricco di ascendenze stilistiche e tecnicamente eccelso, nel quale si riconosce tutta l'arte genuina di questo gruppo storico che, a ben trentasei anni dal suo debutto, rimane il vero fiore all'occhiello del rock italiano. Giù il cappello.
Informazioni e contatti:
www.pfmpfm.it


Frost - "Milliontown" (Inside Out, 2006)

Non si sa bene come scrivere una recensione s'un gruppo esordiente che in realtà, a quanto ne so, è di fatto già sciolto. Sta di fatto che "Milliontown" è un disco di tutto rispetto, e reclama comunque la nostra attenzione. A guidare il progetto è (anzi, era) il tastierista e cantante Jem Godfrey, noto fin qui soprattutto come produttore di molto pop inglese di successo, che però, evidentemente, nutriva da tempo obiettivi più ambiziosi: lo testimonia la verve dei sei brani che compongono l'album, un concentrato di moderno prog-rock suonato con grinta e apprezzabile coesione, senza grossi punti deboli. Il quintetto guidato da Godfrey vanta del resto alcuni tra i più noti strumentisti del panorama britannico: John Jowitt (basso) e Andy Edwards (batteria) vengono dagli IQ, mentre il chitarrista John Mitchell ha suonato con Arena e Kino. Il suono dei Frost ricorda perciò le sonorità di altre band inglesi degli ultimi tempi, come gli stessi Porcupine Tree, per la capacità di far convivere atmosfere soft e quasi intimiste, ad esempio in "Snowman", con le architetture più complesse di una musica sempre interessante, mai banale nelle sue diverse tonalità. L'attacco di "Hyperventilate", con il pianoforte classicheggiante di Godfrey al centro d'uno scenario rarefatto e uggioso, fa da apripista per il rock energico che si sviluppa poi sulla bella chitarra solista di Mitchell e la possente sezione ritmica: questa alternanza, con gli inserti di piano a fare da raccordo, cattura la cifra dell'intero disco. "No me no you", che sfodera ancora una chitarra ruggente sincopata insieme al canto, mette anche in luce una discreta vena melodica, ben amalgamata nel flusso elettronico del pezzo. E' forse l'episodio più aggressivo della sequenza, mentre un brano come "The other me", col suo approccio altrettanto metallico, è ancora innervato da inopinate intromissioni vocali che alleggeriscono la torrida atmosfera strumentale. Nella lunga "Black light machine" il gruppo mostra un lato più composito, con synth e chitarra che dettano legge all'interno d'un contesto più arioso, punteggiato dal consueto break ritmico che sposta il pezzo verso sonorità più "heavy". Il meglio del disco sta proprio nella coda della title-track, oltre ventisei minuti di rock e melodia portate a un livello d'integrazione davvero notevole: il pianismo delicato di Godfrey, il grande lavoro di synth e chitarra che si lanciano insieme in lunghe fughe strumentali, ben scandite dall'ottimo duo ritmico, e la vocalità calda e sensuale del leader, chiudono in grande stile un disco ben suonato, ma anche congegnato con intelligenza. Pur senza presentare nessuna novità sconvolgente, insomma, "Milliontown" poteva essere il primo passo per un cammino discografico di sicuro interesse, ma rimarrà solo uno dei tanti "figli unici" nella lunga storia del rock. Sinceramente è un peccato.


The Mars Volta - "Amputechture" (GSL / Universal, 2006)

Ecco qua il nuovo, attesissimo lavoro di questo gruppo americano dalla forte impronta latina (tra Messico e Portorico), come testimoniano i nomi dei due fondatori responsabili della musica e dei testi, Omar Rodriguez-Lopez e Cedric Bixler Zavala. Sulle etichette da affibbiare alla musica dei Mars Volta il dibattito infuria fin dall'esordio di "De-loused in the comatorium" (2003): progressive, post-rock, psichedelia, fusion? Se ne sentono di ogni tipo, ma l'unica cosa certa è che non c'è oggi un'altra band con il potenziale sonoro e la personalità debordante di questi "latinos" trapiantati negli Stati Uniti, capaci di attingere alle più diverse suggestioni, e non solo musicali. Questa molteplicità di influenze non può non avere un impatto devastante sull'ascoltatore, ogni volta irretito e poi sviato continuamente dentro una centrifuga rock che alle volte appare indigeribile, ma richiede solo un ascolto diverso. Rispetto a "Frances the mute", ultimo disco di studio, gli otto episodi che compongono "Amputechture" tengono sicuramente botta, senza arretrare di un centimetro, eppure dopo la sbornia del primo ascolto, sembra di intravedere qua e là una maggiore disponibilità alla melodia, che permette di far emergere meglio l'anima variegata del gruppo. Un'anima viscerale e iperrealista, con liriche imbottite di slang e simbologie di strada, neologismi arditi e tortuose metafore intrise di uno stravolto espressionismo di non facile lettura, eppure affascinante e aperto a ogni interpretazione. Maestri dell'ambiguità, perchè consapevoli che la realtà "è" ambigua, i Mars Volta possono dunque lasciare il segno con la vischiosa psichedelia di "Vicarious atonement", posto in apertura del disco, e poi stordire con il rock abrasivo di "Tetragrammaton" e "Meccamputechture", potenti manifesti di musica inafferrabile, sanguigna e camaleontica, dove la voce esasperata di Bixler Zavala cattura efficacemente il pluralismo emotivo che è la vera cifra della band. Dietro i riff insistiti della chitarra e il timbro caldo dell'organo, spicca il superlavoro di una sezione ritmica instancabile, che sembra ogni volta minare alle fondamenta il disegno melodico per indicare continuamente altre vie di fuga, nuovi percorsi emotivi. Le dissonanze e il furore visionario di questi brani trovano però il loro contraltare in splendidi inserti melodici come "Asilos Magdalena", un atto d'amore postumo cantato in spagnolo, con la chitarra acustica che culla una voce ripiegata su se stessa. "Viscera eyes", esattamente all'opposto, è un hard-rock ben teso sulle chitarre e il basso che pulsa, con l'aggiunta dei fiati di Terrazas-Gonzales in funzione drammatica. Un'altalena frastornante di toni e atmosfere sempre mutevoli, come si vede, che si placa ambiguamente nella conclusione di "El ciervo vulnerado": un dissanguamento lento, senza ritorno, incorniciato dai fiati e da suoni distorti, incluso il sitar, che chiude un altro capolavoro anomalo, più che mai sfuggente a ogni definizione. Certo, se il termine "progressive" ha ancora il senso originario di musica eternamente "in progress", ai Mars Volta si attaglia come un guanto, ma chi odia certe etichette troverà comunque pane per i suoi denti. Le formule critiche passano, ma i grandi dischi restano.
Per informazioni e contatti: themarsvolta.com


Arpia - "Terramare" (Lizard / Andromeda, 2006)

Fino a questo momento il nome degli Arpia, formazione romana che pure è attiva già da molti anni, è stranamente rimasto ai margini della scena rock italiana. In effetti, l'ultima (e prima) uscita discografica ufficiale, "Liberazione", risale al 1995, ma a giudicare da quest'ultimo lavoro il trio capitanato da Leonardo Bonetti non ha speso male il lungo periodo di silenzio. "Terramare" è infatti un disco affascinante e complesso, nelle intenzioni come nei risultati espressivi, che denota soprattutto il meritorio tentativo di superare gli steccati e le formule musicali più risapute, a costo di disorientare il pubblico meno attento. L'intento dichiarato è quello di esplorare il mondo dell'eros come si è venuto affermando nel corso dei secoli, attraverso linguaggi e contesti diversi che vanno dalla poesia medievale ai simboli più mercificati dei nostri giorni: tutto questo è appunto condensato nel titolo, che coniuga due elementi dell'esperienza fisica del mondo, escludendo non a caso quello più spirituale, il cielo, perché considerato qui una sovrapposizione "culturale" estranea alla dialettica erotica più ancestrale. Intorno a questo nucleo fondamentale, gli Arpia sviluppano dodici tracce di sicura presa emotiva, nelle quali l'ossatura strumentale da power-trio classico (come nell'apertura di "Bambina regina") è rinsanguata dall'efficacissimo timbro scuro delle tastiere del cantante e bassista Bonetti. In un continuo gioco di contaminazioni e rimandi si apprezzano riletture di antica poesia amorosa, come quella di Rinaldo D'Acquino (nella title-track di chiusura) o di Cielo D'Alcamo ("Rosa"), dove il tipico contrasto maschile-femminile si esprime nel felice contrappunto delle voci di Bonetti e dell'incisiva Paola Feraiorni, ma anche originali innesti di lirica nel più scabro scenario del quotidiano, come nella splendida "Luminosa", che decontestualizza i versi di Guido Cavalcanti. Una sorta di cortocircuito di tempi e codici espressivi che stona sulla carta, ma conquista invece all'ascolto grazie all'abile miscela delle voci e all'eclettismo vincente delle trame strumentali. Nel mezzo dei due poli si collocano episodi di sofisticato dark-progressive, dove la tensione tra suoni e testo raggiunge vertici di grande suggestione: cito in particolare "Diana", il crescendo emotivo di "Mari" e la bellissima "Umbrìa", con la chitarra di Fabio Brait in evidenza e il canto emozionale di Leonardo Bonetti sempre in grado di esprimere tutta la complessa materia sentimentale che sta alla base dell'album. Il segreto di questa musica sempre inafferrabile è proprio la sua disponibilità a non chiudersi in un cerchio espressivo dove lo stile diventa fatalmente "maniera", lasciando invece ogni volta aperta la porta ad assonanze e influssi che compongono alla fine un mosaico sonoro, screziato e rilucente, che lascia indubbiamente il segno. Non tutto può tornare allo stesso modo, certo, eppure la duttile vena di Bonetti e compagni, che cerca una via impervia ma personale tra le asprezze di "Metrò" e la sensuale tenerezza di "Piccolina", quando potrebbe agilmente collocarsi in un più decifrabile hard-rock di ottimo livello ("Monsieur Verdoux", ad esempio) merita a mio parere la massima attenzione. "Terramare" è senza dubbio un ascolto diverso, imperdibile soprattutto per chi ama farsi sorprendere ancora da quella strana, multiforme cosa chiamata rock.
Per informazioni e contatti:
www.arpia.info


Trespass - "Morning lights" (Musea / 8th Note, 2006)

Sono passati quattro anni dall'esordio discografico di questo trio di Gerusalemme: "In haze of time" era un album sicuramente brillante, sia pure nel solco di certe sonorità prettamente seventies, e ora il gruppo guidato dal tastierista Gil Stein sembra confermare più che mai quella prima impressione positiva. In effetti, con "Morning lights", il nuovo lavoro da poco pubblicato, la band israeliana sembra quasi voler rimarcare come certe influenze classiche e sinfoniche non fossero un passeggero innamoramento, quanto una cifra stilistica basilare per il proprio discorso musicale. Il patrimonio della musica barocca, evidentemente, sta soprattutto nel background del tastierista, e da qui discende come logica conseguenza un disco come questo, che offre cinque episodi improntati tutti a un'unica fonte ispirativa. Splendida l'apertura della breve "Song of winds", con echi di danze rinascimentali e barocche, ottimamente distribuite sulle tastiere di Stein in un impasto accattivante. E' il preludio migliore al vero pezzo forte del disco, la lunga title-track, coi suoi ventuno minuti e passa. Si tratta di un assoluto gioiello, che farà felici in particolare coloro che portano nel cuore i maestri di certo progressive contaminato dei primi anni Settanta, Keith Emerson in testa. Qui però, a costo di inimicarmi qualche ultrà del maestro inglese, siamo perfino oltre: perchè alla vena fluente e immaginifica del tastierista, che si destreggia a meraviglia tra organo e synth, si affianca una formidabile sezione ritmica come quella formata da Gabriel Weissman (batteria) e Roy Bar-tour (basso). Entrambi non meno talentuosi del leader, si mostrano soprattutto capaci di rilanciare i temi tastieristici con slanci e cambi di tempo ficcanti, senza limitarsi a una mera funzione di accompagnamento. Il risultato è una composizione di eccelso livello, a volte perfino ridondante, dove il virtuosismo però non soffoca mai il flusso emotivo garantito dall'incessante tourbillon dei singoli temi proposti, che s'incrociano continuamente per arricchirsi e lievitare in una sequenza avvolgente di suggestioni sparse, unificate dai richiami onnipresenti alla sorgente classicheggiante di cui sopra. Le parti vocali in inglese, evocative e malinconiche, sono ben ricoperte dallo stesso tastierista, come avviene nell'altro brano cantato del disco, "Ripples". Lo stesso dinamismo, un ingrediente che pare iscritto nel DNA dei Trespass, caratterizza questa composizione che vede il consueto tour de force del duo ritmico e qualche parentesi più melodica lasciare poi spazio all'estro del tastierista, in bilico stavolta tra richiami colti e accenti decisamente fusion. Ecco, il vero punto di forza dei Trespass in fondo è questo: riuscire a far convivere con naturalezza squisite sonorità di stampo classicheggiante con la dirompente carica di una jam session prossima al jazz. Non è affatto impresa da poco. "Vivaldish", come dice il titolo, è una libera rilettura di un concerto per mandolino del maestro veneziano, mentre la chiusura di "Forest birds' fantasy" è uno strumentale più arioso, dove il gruppo sembra dialogare con i suoni della natura in una giocosa solarità risonante e finalmente placata. "Morning lights" è un disco coi fiocchi, che aggiorna il progressive d'annata con la verve di un gruppo che mostra di saper rinnovare quella tradizione senza rinnegarla, ma irrorandola con indubbio talento e un'ammirevole coesione di base. Consigliato.
Per informazioni e contatti: www.trespassband.net


Imagin'Aria - "Progetto T.I'.A." (MaRaCash, 2006)

Questo è il quarto album degli Imagin'Aria, formazione italiana che mostra una certa evoluzione nei suoni, pur mantenendo una propria cifra riconoscibile. Come il titolo stesso lascia intuire siamo di fronte a un vero concept, ma di taglio fantascientifico, basato s'un racconto originale di Luca Milan, seconda chitarra del gruppo, che può essere scaricato dal sito ufficiale della band. Per farla breve, il nucleo della storia è il seguente: in un futuro imprecisato, il pianeta rischia di venir distrutto da un imperatore sconfitto ma dotato di risorse pericolose, e di qui nasce il progetto di raccogliere l'immenso patrimonio delle conoscenze umane per trasferirlo s'un altro pianeta abitabile. Racconto indubbiamente suggestivo, certo, ma come funziona tradotto in suoni? "Progetto T.I'.A." è un disco piuttosto sofisticato, ben architettato e prodotto, e con testi di buon livello quasi sempre capaci di aggirare il pericolo costante in certe operazioni: quello di una certa prolissa freddezza, dove si dice troppo e spesso a discapito della musica stessa. Il rock asciutto e dinamico degli Imagin'Aria fuga questo rischio, anche se ha il pregio di avvalersi qui, come nel precedente "Esperia", di consistenti iniezioni di tastiere e synth: il risultato è un progressive ben equilibrato tra i momenti caldi del racconto e quelli più evocativi. Non è un caso forse che i momenti più efficaci, almeno secondo me, siano quelli strumentali: di grande effetto l'apertura di "S. O. Seji", ad esempio, e poi ancora "Il peso della materia", ma soprattutto lo splendido frammento intitolato "Il nostro dolore", davvero intenso pur nella sua brevità, per l'ottima combinazione di basso e pianoforte. Nelle parti cantate la voce di Daniele Perico è abbastanza sensibile da restituire gli stati d'animo mutevoli del protagonista, Ledeo, alla guida della navicella che viaggia nel tempo, anche se non sempre ugualmente efficace in tutti gli episodi. Si tratta di semplici sfumature. Tra gli episodi più riusciti segnalo comunque "Tela bianca", e poi "Il volo di Ledeo", con la scansione rock delle chitarre in primo piano, fino a "Fusione", dove convivono al meglio gli accenti acustici più evocativi con il rock più duro, mentre in un brano come "Nel nero" il quintetto recupera un suono schiettamente metallico di forte impatto, dove si esalta la chitarra solista di Ivan Peasso. In un disco così equilibrato, nel quale si nota l'indubbia maturità di una ricerca musicale piuttosto coerente, lascia interdetti proprio il finale di "Anno zero": un testo fin troppo didascalico e una parte strumentale poco personale chiudono sottotono una sequenza ricca invece di bei momenti. Nonostante questo, "Progetto T.I'.A." è sicuramente una tappa fondamentale per gli Imagin'Aria, giusto punto d'incontro tra una musicalità genuinamente rock e le nuove, legittime ambizioni di una band in costante crescita.
Per informazioni e contatti:
www.imagin-aria.com


La Maschera di Cera - "LuxAde" (Immaginifica, 2006)

Il nuovo capitolo discografico della Maschera di Cera, formazione sempre capitanata da Fabio Zuffanti, si chiama "LuxAde" e pur confermando la ricetta di base ("continuare la gloriosa tradizione del rock progressivo italiano degli anni '70" nelle parole dello stesso bassista) si dimostra ben altro che la semplice ripetizione di una formula. Rispetto all'ultimo disco di studio, cioè "Il grande labirinto" (2003), va sottolineata la presenza del nuovo batterista Maurizio Di Tollo, e poi, cosa più importante, la rinuncia alla chitarra elettrica in organico, col conseguente spostamento degli equilibri musicali. A proposito di formule, comunque, a Zuffanti e compagni non si può certo imputare scarso coraggio, dato che il disco è sicuramente un progetto molto ambizioso, che porta le sue scelte ancora più in profondità. Diviso in due "programmi" distinti, il progetto "LuxAde" riassume già nel titolo la sua doppia valenza: un viaggio dalle tenebre alla luce, o se preferite dalla prigione dell'io alla conquista della libertà, con richiami anche espliciti alla favola di Orfeo ed Euridice, ma sempre lasciando briglia sciolta all'estro allegorico del leader. La prima parte del disco ("Programma I") è destinata forse a rimanere l'apice espressivo del gruppo genovese: la perfetta maturità degli impasti strumentali, che poggia sull'asse vincente costituito dal flauto ispirato di Andrea Monetti e le tastiere di Agostino Macor, si sposa magnificamente al canto solista di Alessandro Corvaglia, interprete sempre adeguato della complessa parte lirica. Siamo di fronte a un rock elegante di matrice sinfonica, ma anche ficcante e incisivo nei suoi cambi di tempo, nei quali si esalta il basso di Zuffanti e le spirali del flauto aprono continuamente scenari evocativi di grande suggestione. Se "Doppia immagine" è già un esempio eloquente delle capacità strumentali del gruppo, con l'efficace inserto a metà brano del sax di Monetti, "Un senso all'impossibile" potrebbe diventare un inno del nuovo progressive italiano: prima splendidamente aperto dal flauto e poi sincopato ad arte, con pause e ripartenze continue sull'organo e il moog di Macor, che rievoca davvero la gloriosa PFM degli inizi, il pezzo esalta finalmente anche il gusto per un rock più genuino e trascinante, potenzialmente devastante nelle esibizioni live. Un vero gioiello. "Orpheus" mostra il versante più acido di questo viaggio strumentale, con il canto inframmezzato dal grande lavoro di basso, flauto e un moog ancora vincente, e "Nuova luce" lo chiude alla grande, s'una nota sospesa cullata dal mellotron. Con la seconda parte del disco, le nove scene di "Enciclica 1168", Zuffanti ha puntato ancora più in alto, anche se in questo caso i testi, particolarmente oscuri, non si legano sempre a dovere al tessuto strumentale, ancora eccellente nel suo incedere drammatico. Resta però l'impressione di un gruppo ormai affiatato e brillante, dove ognuno ricopre con grinta e intelligenza il suo ruolo in vista del risultato complessivo, ed è appunto questo a fare di "LuxAde", prodotto con cura e passione da Franz Di Cioccio, uno dei dischi più belli e convincenti nel panorama rock italiano degli ultimi anni. Consigliato agli scettici come ai nostalgici, ma soprattutto a chi chiede alla musica qualcosa di più.
Per informazioni e contatti: www.mascheradicera.com


October Equus - "October Equus" (MaRaCash, 2006)

Un ascolto stimolante e insieme problematico quello degli October Equus, band spagnola che ha pubblicato questo suo primo disco con l'etichetta italiana MaRaCash. Sia lo stimolo che l'aspetto problematico riguardano proprio la buona riuscita dell'album che abbiamo di fronte: il quartetto iberico è talmente classico negli equilibri strumentali e nel timbro della musica proposta, da far pensare a uno sbaglio. Che sia, in realtà, un disco registrato anni fa che solo ora vede la luce? Sulle prime il dubbio viene, perchè le ascendenze e i richiami sono evidenti e molteplici: scampoli di prog barocco e dark, ben amalgamati e digeriti, certo, che sin dalle note dell'iniziale "Lupus in fabula" riportano alla mente nomi e suggestioni molto seventies. Fugato il sospetto, e appurato che invece di vera novità si tratta, non si può che rallegrarsi di questo incontro discografico: October Equus è una di quelle realtà insospettabili nella musica odierna, una rarità che si fatica a immaginare vincente nel vortice ammiccante e disinvolto del rock di questi anni, dove la tendenza è semmai il compromesso, il pop rilucente di poca sostanza e sola superficie. I quattro componenti, però, hanno evidentemente messo a frutto anni di lavoro e ricerca, nei quali i modelli più amati del prog classico hanno prima indicato la strada e poi, nel tempo, favorito uno stile pienamente maturo e convincente. Il disco si compone di dieci tracce in tutto, ma l'ombelico del disco, che fa a meno della parti vocali, è indubbiamente la lunga "October Equus suite", oltre trenta minuti che catturano il meglio della band attraverso sei momenti di ottima fattura. Il fulcro del suono è probabilmente la chitarra solista di Angel Ontalva, non a caso unico firmatario della composizione, che detta le trame più acuminate lungo le quali il resto del gruppo si muove in maniera estremamente compatta, con rarissimi momenti di virtuosismo. Episodi come "Sacrifice" e la più drammatica "Head of the winner" mostrano infatti la paziente tessitura strumentale che poggia sui colori scuri delle tastiere di Victor Rodriguez e quindi si ramifica per circoli contorti sotto la guida della chitarra, come a spolpare fino all'osso il motivo di base. Come l'argomento preso a pretesto, un oscuro rito pagano che nella Roma classica metteva in gara i due quartieri principali in una cruenta corsa di bighe, con relativo sacrificio finale del cavallo vincitore, la musica si snoda attraverso atmosfere piuttosto cupe, umbratili, con il rischio latente di eccedere nei toni e stancare. Se la trappola è aggirata si deve alla capacità del gruppo spagnolo di lavorare di cesello sulla propria ispirazione: i temi dell'organo e della chitarra solista s'intrecciano e si ripetono, è vero, ma ogni volta mettendo a nudo nuovi dettagli cromatici e piccole variazioni interne, con il basso di Amanda Pazos abile a fungere da creativo punto di raccordo nei diversi snodi strumentali. Nonostante l'assenza delle parti cantate, che in certi casi possono alleggerire musiche di questa complessità, alla fine un ascoltatore paziente saprà apprezzare non solo la grande uniformità stilistica, ma anche le sofisticate variazioni messe in atto dagli October Equus, nella suite come nei brani di contorno: "Reliqua tempora", ad esempio, ancora con la chitarra frippiana di Ontalva in evidenza tra le fitte divagazioni organistiche. Una formazione di valore, che aspettiamo con curiosità alla prossima prova discografica, nella speranza che non si perda per strada dietro più facili miraggi.
Per informazioni e contatti:
www.maracash.com


Flower Kings - "Paradox Hotel" (Inside Out, 2006)

Per il nuovo lavoro della sua band, Roine Stolt ha voluto un doppio CD indubbiamente impegnativo: il titolo e la scaletta svelano l'intento di un concept alla vecchia maniera, nel quale la varia umanità ospite dell'Hotel Paradosso è anche l'occasione ideale per esprimere un'ispirazione musicale molto composita. È pur vero che il chitarrista, già membro dei Kaipa, una delle più gloriose band svedesi nel campo del progressive anni Settanta, mostra di non aver affatto dimenticato le sue radici: ci si muove in linea generale sotto le insegne del rock sinfonico più raffinato, impregnato della giusta dose di melodia e qualche soluzione più atipica, pur senza mai strafare. Tuttavia, all'interno di questi confini, il quintetto svedese riesce ad assemblare una discreta serie di variazioni. Ovviamente non manca la suite di lunga durata, come appunto "Monster & men", classicheggiante e ben orchestrata tra l'organo a canne di Tomas Bodin, la chitarra e le belle voci di Hans Froberg e dello stesso Stolt, ma i due dischi abbondano di episodi acustici di buona fattura, a volte perfino più originali del resto. Basta citare la bella "Jealousy", dove Stolt canta in perfetta solitudine s'un morbido tappeto di tastiere, o ancora l'insolita "Bavarian skies", che fa rivivere con accenti di nostalgia fiabesca, davvero paradossale, l'incubo del nazismo tedesco. Di sicuro effetto l'atmosfera di "Selfconsuming fire", un crescendo intimista che sfocia in lunghi soli di chitarra, mentre sul secondo dischetto il gioiello è "The way the waters are moving", amara dedica ai sopravvissuti dello tsunami asiatico costruita sul pianoforte con toccante semplicità. I riferimenti del quintetto sono evidenti: la preghiera infantile di "Mommy leave the light on" è in puro stile Genesis, come pure la progressione pulsante di "What if God is alone", tra i momenti migliori della raccolta. Chi ha pazienza, noterà inoltre che le liriche sono spesso molto buone, mostrando la giusta sensibilità, romantica ma non stucchevole, per catturare esperienze e motivi molto diversi tra loro. Stolt offre anche più spazio agli altri componenti del gruppo, soprattutto al tastierista Tomas Bodin, che oltre a cofirmare alcuni episodi svolge un prezioso lavoro, passando dal pianismo più classico al mellotron e al synth per creare quel contesto cromatico in grado di esaltare al meglio l'inventiva del leader. Un paio di brani, come la stessa title-track, o meglio ancora "Life will kill you", che strizza l'occhio al migliore flash-rock degli Yes, con la chitarra solista in primo piano e la voce grintosa di Froberg, sfoggiano un piglio rock più aggressivo e ugualmente efficace. L'anima vera dei Flower Kings però abita altrove, e sembra decisamente più incline a un sofisticato pop-rock arrangiato con gusto ("Man of the world" ad esempio), con qualche trovata ad effetto: cito lo strumentale "The unorthodox dancinglesson", che incastona nel suo sviluppo sincopato un riff elettrico che omaggia i Crimson, e soprattutto la traccia in coda al doppio CD, "Blue planet", che vibra d'intenso lirismo sulle note lunghe della chitarra. Anche se in certi frangenti manca forse a Stolt e compagni una qualità spesso negletta nella musica odierna, come la capacità di sintesi, "Paradox Hotel" è comunque un'opera impeccabilmente prodotta dall'inizio alla fine e generosa di spunti: insomma, niente di nuovo sotto il sole (come recitava un vecchio disco dei Kaipa), ma una musica di eccellente qualità che alla fine conquista e non fa rimpiangere i soldi spesi.
Per informazioni e contatti: www.flowerkings.se


Mogwai - "Mr. Beast" (Pias, 2006)

"Mr. Beast" è il nuovo disco di studio dei Mogwai, tre anni dopo "Happy songs for happy people", e presenta alcune novità nei suoni del combo scozzese. Le dieci tracce hanno, in generale, una minore brillantezza sonora, e il ruolo delle chitarre sembra aver soppiantato in larga parte l'uso dell'elettronica che conferiva alla prova precedente un tono psichedelico e quasi estatico. Il risultato è perciò una sequenza di atmosfere più acide, a cominciare dalla durissima "Glasgow mega-snake", che si regge appunto s'un giro ossessivo di chitarre ruggenti, e a seguire anche "Travel is dangerous", dallo sviluppo però più efficace, e la conclusione di "We're no here", con un riff elettrico più incisivo. Come al solito episodiche e molto defilate le parti vocali, quasi sempre affogate nella bolla dei suoni, a parte il curioso esperimento di "I chose horses", dove le liriche sono recitate da Tetsuya Fukagawa in giapponese s'uno sfondo musicale che fa da ovattata cornice. Per il resto, le modalità compositive sono le stesse: atmosfere minimaliste dal passo più involuto che felpato, ad esempio "Team handed" o anche "Acid food", che avvolgono l'ascoltatore in una rete di suoni vischiosa e fin troppo ripiegata su se stessa, senza slanci. Sono quadri d'ambiente che catturano umori sospesi, a struttura circolare, e a tratti francamente uggiosi. Ci sono per fortuna alcune eccezioni, che tengono fede alla buona fama del marchio Mogwai. Su tutte, a mio parere, "Friend of the night", dove le caratteristiche appena illustrate si giovano però d'un pianoforte classicheggiante che incide il suo tema e lo dilata ostinato in una serie di suggestive variazioni, dall'effetto molto evocativo. Qui sono le chitarre a doversi allineare alle tastiere, e la differenza si sente. Il pianoforte sembra in effetti lo strumento che rimarca i momenti migliori, ad esempio nel crescendo dell'iniziale "Auto rock", con il ruvido controcanto delle percussioni, quasi come un argine trasognato al clima pesante e spigoloso sottolineato dalle chitarre, e il disco vive tutto in questa sorta di costante dialettica con esiti alterni. Di buon effetto è comunque un brano come "Folk death 95", dove le chitarre e il basso s'incrociano a lungo sornioni prima di dar fuoco alle polveri. Se non è un brutto disco, "Mr. Beast" resta un gradino sotto il livello eccelso del suo predecessore: emotivamente infatti non tocca quei vertici, e si smarrisce a volte in un esercizio stilistico fin troppo autoindulgente. Se amate il loro post-rock così peculiare, in ogni caso, avrete ancora modo di leccarvi i baffi di fronte a qualche perla tipicamente Mogwai, ma stavolta dovrete cercarla qua e là con un pizzico di pazienza in più.
Per informazioni e contatti: www.mogwai.co.uk


Ubi Maior - "Nostos" (BTF, 2005)

Il sottobosco della musica italiana, quella fuori dai grandi numeri e dalle superclassifiche, continua a produrre artisti e suoni che sanno ancora lasciare il segno, e meriterebbero maggiore attenzione da parte di pubblico e addetti ai lavori. Ubi Maior è una formazione milanese che esordisce con questo "Nostos" (cioè ritorno) e sembra aver assimilato le sonorità più nobili del progressive italiano d'impronta dark (lo dimostra la ripresa di "La tua casa comoda" del Balletto di Bronzo) sia pure opportunamente aggiornate. Sin dall'apertura di "Vendetta", il quintetto offre un saggio convincente delle sue possibilità: il colore drammatico dell'organo è ben sostenuto dalla robusta presenza della chitarra, e soprattutto da una voce solista di buon livello come quella di Mario Moi. È un punto da sottolineare, questo, vista la cronica debolezza delle parti vocali nel panorama dei nostri gruppi rock. Per una volta, dunque, le liriche non sono un corpo estraneo rispetto alla proposta strumentale, ma fanno tutt'uno con la buona vena del gruppo. Gli Ubi Maior sembrano maggiormente a loro agio negli episodi più compatti e vigorosi, dove cioè emerge il discreto affiatamento dei singoli, e magari i toni si fanno volutamente ambigui: qui le articolate tastiere di Gabriele Dario Manzini si destreggiano bene tra umori sospesi e decisamente gotici (lo strumentale "Livia" ad esempio), e il canto partecipe di Moi sa illustrare compiutamente atmosfere dalle tinte fosche, liriche o dichiaratamente epiche, come nella lunga suite che intitola l'album. Sulla scorta dei poemi omerici sapientemente distillati, la lunga "Nostos" alterna infatti luci e ombre all'interno di un viaggio a carattere onirico molto ben congegnato: alcuni segmenti, in particolare "Invocazioni e rivelazioni" e soprattutto una sequenza come "Il sogno incompreso"/"L'Incubo", hanno indubbiamente una marcia in più, specie quando il ritmo si fa incalzante e sprigiona veri lampi di pathos drammatico, ancora con l'organo, la chitarra solista e la voce al loro meglio. Si apprezza l'equilibrio tra le parti, soprattutto, assemblate in un insieme di vibrante suggestione. Trattandosi di un'opera prima, comunque, era forse inevitabile che non tutto girasse a dovere: accanto ai brani citati, con l'aggiunta di "Messia", che si muove parzialmente sugli stessi binari, ci sono infatti momenti meno riusciti, anche se non da buttare. Diciamo però che "Terra madre", più distesa ed elegiaca, non sembra incisiva come il resto, così come "Oltre il vetro", che pure si avvale di un testo interessante, non riesce a mordere a sufficienza dal punto di vista musicale e sembra seguire altri percorsi. Probabilmente, se il CD durasse un quarto d'ora in meno, focalizzando meglio la propria ispirazione, avremmo di fronte un lavoro quasi perfetto. Sono piccole sbavature, va detto, in un contesto di segno ampiamente positivo: in fin dei conti le qualità di "Nostos" permettono di inserire il nome degli Ubi Maior tra i gruppi dell'ultima stagione che fanno ben sperare gli appassionati di certo rock progressivo.
Per informazioni e contatti: www.ubimaiorweb.it


Stefano Panunzi - "Timelines" (Res, 2005)

Questo disco segna un esordio nel panorama della musica italiana, e se il buongiorno si vede dal mattino, allora Stefano Panunzi ha tutte le carte in regola per diventarne uno dei protagonisti. Il tastierista firma infatti una sequenza di undici episodi di alto livello, avvalendosi con intelligenza di molti musicisti della scena internazionale, che contribuiscono a valorizzare al meglio le sue composizioni: citiamo tra gli altri il trombettista Mike Applebaum, vero protagonista del disco, le cantanti Haco e Sandra O'Neill, il bassista Mick Karn, fino al batterista Gavin Harrison. Ospiti di prestigio che s'integrano al nucleo-base degli strumentisti italiani, da Nicola Alesini (sax e clarinetto) a Giampaolo Rao (batteria), fino al chitarrista Nicola Lori e al bassista Fabio Fraschini, più altri ancora. La carta vincente dell'operazione, per un disco registrato tra Italia, Germania, Inghilterra e Giappone, è appunto nella riuscita fusione di tante diverse collaborazioni in un sound alla fine molto compatto e riconoscibile, pur in presenza di momenti musicali che abbracciano una discreta varietà di suggestioni. Panunzi mescola infatti con innegabile bravura echi ambient a sonorità jazz e neo-progressive, allineando sulle sue tastiere atmosfere sempre eleganti (come l'attacco di "Timelines"), a volte rarefatte fino a intercettare suoni sotterranei e voci interiori (la bellissima "Underground") in un viaggio sonoro che sembra circumnavigare, catturandone la varia essenza, il mondo sensibile nel quale oggi ci muoviamo. Le punte espressive dell'album sono molteplici, e diventa difficile spiccarne qualcuna dall'insieme, se non lasciando parlare le proprie reazioni soggettive. A me viene facile citare "No answer from you", seducente prisma di evenescenze che oscillano sul filo di una tromba magica, e la successiva "Masquerade", che, insieme a "Web of memories", regala forse la sequenza più propriamente rock del disco, ingabbiata però da suoni elettronici abilmente congegnati. Molto intrigante è pure il passo felpato di "The moon and the red house", un jazz atmosferico senza tempo, ancora con la tromba di Applebaum ben incorniciata dalle tastiere ad effetto di Panunzi e dalla chitarra. A questo moderno arazzo non sono estranei neppure richiami etnici, sempre incastonati a dovere, senza strappi e dissonanze, nel quadro cosmopolita messo in piedi da Panunzi: è il caso di "Tribal innocence", dove le voci arabe e le percussioni arricchiscono il consueto disegno strumentale dominato dalla tromba. L'epilogo della lunga "I'm looking for", con il suo refrain cantabile che emerge dal sofisticato reticolo dei suoni, incluso anche il violoncello di Laura Pierazzuoli, chiude degnamente un debutto discografico davvero pregevole, che dimostra grande maturità e pone sicure premesse per la musica che verrà. Dalla parte di Stefano Panunzi, ed è giusto ribadirlo, c'è soprattutto la capacità di porsi con umiltà e intelligenza verso tutti i suoi collaboratori, per dare vita insieme a un mosaico sonoro ammaliante, eccellente dal lato tecnico e di respiro veramente internazionale, senza rinunciare a una sua impronta più personale: un disco come "Timelines", insomma, merita di fare molta strada, come il suo autore.
Per informazioni e contatti:
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Premiata Forneria Marconi - "Dracula" (Sony/BMG, 2005)

A quanto pare anche un nome storico del progressive italiano come la PFM ha voluto provare l'ebbrezza della rock opera, mettendosi così sulle tracce degli Who di "Tommy" e compagnia. Il CD attualmente in vendita è in realtà solo l'estratto di un'operazione assai più ambiziosa, cioè la messa in scena teatrale del progetto, che avverrà nel prossimo febbraio e vedrà oltretutto altri interpreti come protagonisti vocali. Venendo al disco in questione, comunque, ecco cosa si nota subito: il più celebre vampiro della storia (leggendaria) è diventato l'occasione per una metafora universale sulla fisiologica coesistenza, in ciascun uomo, di male e bene, specialmente se a possederlo è il demone della passione amorosa. Dracula, insomma, come l'archetipo dell'eros, almeno a giudicare dalle liriche affidate a Vincenzo Incenzo. Ipotesi affascinante, e naturalmente anche discutibile, ma veniamo alla musica. Premoli, Di Cioccio, Mussida e Djivas sono affiancati dalla Bulgarian Symphony Orchestra, diretta da Natale Massara, e questo contribuisce a sottolineare l'impronta più tipica della band: quel misto di classicismo e sottigliezze barocche, che ingloba più o meno naturalmente gli spunti rock dei singoli, con le chitarre di Mussida in primo piano, ma anche, stavolta, una spiccata tendenza al melodismo più arioso e sentimentale. Bella l'"Ouverture", che condensa appunto questo dualismo, e di grande effetto la chiusura di "Un destino di rondine", con la voce ospite di Dolcenera, e un'atmosfera lirico-sinfonica, con tanto di coro, che non si fatica a immaginare ideale nel contesto della rappresentazione teatrale. In mezzo ai due estremi pagine che alternano enfasi davvero operistiche, oppure di pensosa eleganza (la delicata "Non guardarmi"), a brusche impennate rock con la voce istrionica di Franz Di Cioccio al suo meglio, ad esempio "Non è un incubo è realtà" ed anche "Il castello dei perché", che regala una sofisticata coda strumentale, fino a "Ho mangiato gli uccelli", divertita elencazione di pessimo gusto culinario. In altri episodi, da "Il mio nome è Dracula" a "Terra madre", prevale una dimensione quasi elegiaca, con le squisitezze strumentali (la chitarra classica, gli archi, il pianismo delicato) abbinate a una parte testuale che punta a umanizzare il mostro, depurandolo di qualsiasi tratto inquietante. Il carattere centrale dell'opera rock della Premiata sembra proprio questo tentativo di addomesticare, fin troppo, il vampiro a caccia di sangue umano e farcelo apparire in una luce più benigna. Qualche inserto più ispido e minaccioso, come il rock martellante di "La morte non muore", non serve molto a fugare quest'impressione generale, che sembra del resto autorizzata dai versi di Incenzo posti sulla quarta di copertina: "Dentro noi il bene e il male sono indivisibili, due labbra della stessa ferita". Riabilitato dunque il conte transilvano, resta un disco di ottimo livello, e non c'era da dubitarne, suonato con la sperimentata classe di sempre, e il cui unico difetto forse è proprio quello di voler accontentare tutti i palati. Con il rischio, paradossale, di non esaltare nessuno fino in fondo. Probabilmente, però, si tratta di un rischio calcolato per un progetto multimediale di queste dimensioni, che ha indubbiamente tutti i numeri per diventare un evento popolare, come analoghe operazioni realizzate negli ultimi tempi da artisti come Cocciante e Lucio Dalla. Con il suo "Dracula", la PFM s'inserisce in questa tendenza, ma lo fa mettendo in campo la lunga esperienza di un gruppo genuinamente rock che sente oggi il bisogno, evidentemente, di nuovi stimoli per incontrarsi con una platea più vasta e variegata.


Sigur Rós - "Takk..." (Emi, 2005)

Quella dei Sigur Rós è una malia davvero subdola, che ogni nuovo disco non fa che amplificare, avvolgendo l'ascoltatore in un meccanismo di complicità senza rimedio. Anche di fronte al quarto capitolo discografico del quartetto, che segue il più introverso manifesto di "( )" (il disco del 2002), si può far finta di niente, magari rifugiandosi dietro il paravento di un freddo esercizio critico farcito di formule stantie, ma alla fine il risucchio di quest'onda sonora sarà irresistibile. Il cantante Jónsi e i suoi compagni si avvalgono stavolta anche dell'orchestra, col risultato di potenziare ulteriormente il loro stile ormai ben noto in undici nuovi episodi. A forza di ascoltarla, la musica dei ragazzi islandesi, se non si lascia catturare del tutto come ogni creazione non banale, comincia a svelare però alcuni ingredienti alla base del suo fascino: un carillon sinfonico è la definizione paradossale che mi sento di usare per questo "Takk" ("grazie" nella lingua nativa), e più in generale per tutta l'ispirazione della band. Grazie, probabilmente, al fertile pozzo dell'infanzia, alle radici e alle sensazioni di una dimensione perduta che solo l'alchimia delle note può ricreare fuggevolmente. Ogni brano germina da un giro minimale di pianoforte, in elementari crescendo dalla presa emotiva inesorabile, sulle quali il falsetto di Jónsi lascia la sua impronta micidiale, mentre il suono si fa via via più corposo e dilagante. Non ci sono barocchismi, né un particolare dinamismo in queste trame sonore, ma un certosino accanimento a fare di quel flebile balbettio iniziale un altro quadro emotivamente struggente, sublimato qui dal pieno orchestrale. Lo standard esemplare è un pezzo come "Sæglópur", dove il tema centrale è ribadito testardamente dall'inciso vocale, scivolando poi verso sponde di morbido languore. "Takk...", che intitola il disco e lo apre, abbina i singulti di questa dimensione ancora vergine alla progressione ritmica che spalanca il mondo, nella successiva "Glósóli", tra chitarre e percussioni ossessive. Una sequenza splendida, che da sola chiarisce le straordinarie possibilità strumentali della band. Nel disco stavolta non mancano neppure intervalli di colore più sereno, addirittura cantabile, come "Hoppípolla", dove tutto suona più armonioso e gli archi dipingono un solare mezzogiorno, mentre altrove ("Sé Lest") si ascolta perfino una marcetta di sapore bandistico. Questo per dire che, pur nella sostanziale fedeltà al proprio stile, i Sigur Rós sanno speziare a sufficienza la loro cucina, se è il caso. "Gong", dalla superficie più nervosa, o anche "Svo Hljótt", ribadiscono però che a fare la differenza tra il gruppo islandese e gli altri artisti in circolazione è proprio la dialettica emotiva tra una purezza originaria e i suoi fantasmi, magicamente messa in scena dal canto inconfondibile di Jónsi. Lontano dall'essere un disco di compromesso, come qualcuno ha scritto, "Takk..." è un autentico gioiello: di una tale bellezza, a volte, che occorre maneggiarlo con cura, come tutte le esperienze emotivamente forti che sanno incidere in profondità.
Per informazioni e contatti: sigur-ros.co.uk/index.php


Van Der Graaf Generator - "Present" (Virgin Records, 2005)

Fa sempre effetto, per chi è venuto su con la musica dei Settanta, rivedere all'opera un gruppo come i VDGG, guidati dall'immarcescibile Peter Hammill. Soprattutto se i capofila indiscussi del prog gotico si ripresentano nella formazione più classica, che vede capitan Hammill affiancato dal grande Dave Jackson ai fiati, Guy Evans alla batteria, e naturalmente Hugh Banton alle tastiere. Stavolta il progetto sembra più impegnativo del solito: un CD doppio, che include sei pezzi nuovi di zecca e un secondo dischetto di pure improvvisazioni. L'attacco di "Every bloody emperor" è un tuffo al cuore, e apre come meglio non si potrebbe l'album: la voce inconfondibile di Hammill è la stessa di sempre, densa e ispirata, le gelide spirali dell'organo dipingono uno di quei tappeti sonori che hanno fatto la fortuna della band, oltre ai tortuosi interventi fiatistici di Jackson (flauto e sax). Lo stesso Jackson, che pare sempre alla ricerca di un suono impossibile, di volta in volta purissimo o tirato allo spasimo, domina la seconda traccia, "Boleas panic", interamente strumentale, che scorre come un acquarello cartavetrato dalle cadenze sovranamente libere, indolenti e acide. "Nutter alert" è ancora un compendio magnifico del Generatore più classico: voce esasperata che galleggia sulla bolla sonora del sax e delle tastiere, in un ritratto di umanità allarmata e prigioniera delle sue paure. Stavolta i testi di Hammill, spesso intrisi di metafore pessimistiche o vagamente sepolcrali, sterzano visibilmente sull'attualità, con immagini di potente effetto drammatico, in "Abandon ship!" e "In Babelsberg", particolarmente aspre nel cromatismo combinato tra sax, organo e la chitarra solista di Hammill, ma anche piene di sommessa autoironia se guarda negli occhi la propria generazione. E' il caso di "On the beach", ad esempio, curioso jazz dal passo disincantato e accattivante nel gioco delle voci e del sax cullate dalla risacca. I dieci momenti del secondo CD, improvvisati in studio, ci mostrano come la band inglese abbia ritrovato una voglia di suonare che pare genuina e ancora molto fresca. Anche qui umori tesi o rarefatti, magari all'interno dello stesso episodio, comunicano un senso di intimo affiatamento che gli anni e le lunghe pause non sembrano aver intaccato, ma portato semmai a un grado di piena maturità. Basta ascoltare la fascinosa atmosfera di "Slo moves", intessuta di correnti misteriose, o anche "Manuelle" (con la chitarra in evidenza) per apprezzare la lezione d'integrità artistica che la band inglese sa trasmettere ancora oggi, a oltre trentacinque anni dal suo debutto discografico. Un disco, questo "Present", che tiene interamente fede al titolo: regge bene il ritmo coi tempi in atto, e sa anzi interpretarli dall'alto di una classe superiore che trascende le mode effimere d'un giorno. Talento più stile, insomma, ecco i VDGG del 2005: la nostalgia non c'entra.


The Mars Volta - "Frances the mute" (Universal, 2005)

Infiniti sono i modi per coniugare il verbo progressive nel terzo millennio, e i Mars Volta, band texana al suo secondo disco, mostrano di saperlo come pochi altri. "Frances the mute" è un concept, basato a quanto è dato sapere sul diario anonimo trovato un giorno da Jeremy Ward, ex membro del gruppo scomparso poco dopo. Antefatto curioso e stimolante, indubbiamente, che nelle mani di Omar A Rodriguez-Lopez (chitarre) e Cedric Bixler Zavala (voce), le due menti dei Mars Volta, diventa una sorta di avventuroso tributo, insieme, all'amico stesso e alla fantasia più estrema. Il disco ha una struttura apparentemente caotica, tale è la sua ricchezza stilistico-espressiva, ma in realtà un ascolto attento lascia emergere nomi e temi ricorrenti dal principio alla fine dei circa settantasette minuti che lo compongono. "Sarcophagi", ad esempio, è il primo titolo e anche l'ultimo, e anche "Con Safo" ricorre due volte nella scaletta. Detto questo, non è certo una musica per tutti: l'impatto dei cinque episodi, quattro minisuites e una parentesi più breve, ha qualcosa di devastante e incutente che può anche risultare indigesto come un piatto eccessivamente speziato. Molteplici i richiami e le influenze, dal pop latino di Santana ai Crimson più apocalittici, passando per tutte le derive psichedeliche, metal e acide che potete immaginare, assemblate in un disegno sonoro stratificato e oltretutto valorizzato da una carica interpretativa sempre vibrante, nelle voci spasmodiche, nei ritmi imprevedibili e tirati fino al limite, con soluzioni a tratti vertiginose di tastiere trattate e rumoristica assortita. Difficile fare graduatorie tra i brani, se non tratteggiandone i caratteri più esteriori: il più breve, "The widow", sembra un intervallo piazzato strategicamente nel cuore di un viaggio senza pause, con la sua melodia carica d'echi e presagi, dopo l'attacco convulso e visionario di "Cygnus...Vismund Cygnus", intitolato al protagonista del concept. "L' Via L' Viaquez" è un inno composito e spasmodico, cantato in spagnolo e inglese, con inopinate irruzioni di stranianti atmosfere salsa nel flusso più teso del racconto. Violenza, nostalgia e oscurità ipnotiche si avvicendano in una trama sonora che disorienta e stordisce. La tromba di Flea (Red Hot Chili Peppers) e gli archi arricchiscono l'atmosfera di "Miranda that ghost just isn't holy anymore", conferendo al tema portante una nota di solennità ammaliante, come la stessa voce solista, protagonista indiscussa di tutto il disco. L'intera cavalcata del diario di Cygnus ha quindi l'aria di sfogarsi nell'atto conclusivo della sterminata "Cassandra Geminni", oltre mezz'ora che compendia pregi e difetti di quest'avventura in musica da collocarsi senza dubbio sotto il segno dell'estremismo, nel bene e nel male. Nella suite finale spicca il grande lavoro del sax, lanciato in assoli lancinanti insieme alle chitarre in un impasto debordante, tra fosche progressioni e ritmi indiavolati, sfrangiato in tanti rivoli ogni volta ricompattati dietro il timbro esasperato della voce. "Frances the mute" è davvero un disco eccessivo, ma questo è probabilmente il suo vero fascino, perché sprigiona quell'alone di mistero, vagamente inquietante e sulfureo, che accompagna sempre le creazioni più radicali. Un album che ogni successivo ascolto vi porterà più vicino, lasciandovi tuttavia, forse, più stupiti che convinti: a conti fatti, un'opera maledetta, nella migliore tradizione del vecchio progressive di una volta, molto prima che diventasse una formula di comodo per musicisti dal fiato corto.


Finisterre - "La meccanica naturale" (Immaginifica, 2004)

Anche i Finisterre, nome di punta del progressive italiano degli anni Novanta, sono passati alla battagliera etichetta capitanata da Franz Di Cioccio per questo nuovo disco di studio. L'ultimo, prima di un temporaneo scioglimento, fu l'ottimo "In ogni luogo", targato 1998. La formazione genovese è oggi un quintetto che ruota intorno al nucleo storico del bassista Fabio Zuffanti, più il tastierista Boris Valle e Stefano Marelli alle chitarre, oltre al batterista Marco Cavani (che suonava nel disco d'esordio della band) e a un secondo tastierista come Agostino Macor. Che disco è "La meccanica naturale"? Sicuramente molto buono, ma con un punto interrogativo in fondo. Siamo di fronte a una sequenza di dieci brani, ed a un primo ascolto si nota subito che Zuffanti e soci hanno accantonato le ambizioni sinfoniche, le suites più complesse, e certe sonorità sperimentali che facevano tanto vintage prog per intenderci. Sarà l'effetto di avere alle spalle il navigato Di Cioccio (che nelle note interne parla non a caso di una musicalità senza confini) o forse l'ambizione, più che legittima, di catturare finalmente una audience più vasta, fuori dal circuito di nicchia, ma si respira un'aria diversa, un rock più conciso e tagliente che strizza l'occhio a soluzioni musicali più accattivanti. Alcune proposte in questo senso possono risultare spiazzanti: ad esempio "La maleducazione", firmato e cantato da Marelli secondo un'ottica che ricalca, curiosamente, i vecchi CCCP di Giovanni Lindo Ferretti. Gli ascolti successivi, comunque, portano in luce altri elementi: anzitutto che il peso dello stesso Marelli negli equilibri del gruppo è molto cresciuto, e poi, soprattutto, la sua bella prova come voce solista. Le incertezze dei primi Finisterre, in questo senso, paiono finalmente risolte, e basta a dimostrarlo l'ottima apertura del disco, "La perfezione", un concentrato riuscito di rock asciutto e insieme evocativo, con un testo intrigante e un suggestivo tappeto di mellotron e pianoforte sotto la voce. I suoni sono limpidi e calibrati, senza sbavature, anche in episodi come "La mia identità", segnata da mordenti spezzature di chitarra e synth nel giro armonico, o ancora ne "Il volo", che parte in sordina e cresce alla distanza. Altre volte, la ricetta sortisce effetti diversi, in una lingua rock più agile, a tratti trascinante ("La ricostruzione del futuro") o comunque ingegnosa nella sua leggerezza ("Lo specchio"), ma chi ha amato le raffinate proposte di "In limine", ad esempio, o le contaminazioni ardite dello stesso "In ogni luogo", potrà sentirsi spaesato. Sensazione confermata, per contrasto, dalla presenza nel disco di almeno tre perle assolute, che sembrano nate in un altro contesto. La prima è "Ode al mare", forse il vertice della raccolta: nella sua semplicità, con un testo che sa di preghiera, sprigiona un pathos lirico rispecchiato dal canto delicato di Marelli e da una coda strumentale davvero immaginifica, che si avvita sulle note lunghe della chitarra elettrica. L'altra è "Rifrazioni", firmata da Boris Valle, che cattura suoni, voci e interferenze impalpabili nell'incedere di un pianoforte squisito, minimalista, con la tromba ospite di Luca Guercio. Infine la chiusura splendida di "Incipit", un crescendo avvolgente ancora modulato sul piano fino a un vibrante tutti finale. Stiamo comunque parlando, è bene ribadirlo a scanso di equivoci, di un disco di gran classe: la produzione è impeccabile, la qualità tecnica sempre elevata e a tratti abbagliante. Eppure certe discrepanze stilistiche fanno pensare che i Finisterre siano davvero giunti a un bivio, e solo il prossimo passo chiarirà le intenzioni della formazione ligure. Inutile dire che lo aspettiamo con molta curiosità.
Informazioni e contatti:
www.zuffantiprojects.com/finisterre/index.htm


Marillion - "Marbles" (Intact, 2004)

La storia dei Marillion è gia sufficientemente lunga per considerarli dei classici del rock inglese, sin da quando esordirono nel segno dei Genesis all'alba degli anni Ottanta, quasi a raccogliere il testimone e portare avanti quella pesante eredità. Il seguito di carriera, con i cambi di organico, e soprattutto quello del cantante Fish con l'attuale frontman Steve Hogarth, ha conosciuto anche zone d'ombra, ma l'amore dei fans sembra immutato. Lo dimostra il fatto che il gruppo ha chiesto e ottenuto da loro di prenotare il disco per sostenere l'operazione, ricevendone pronta e compatta adesione. "Marbles", il disco in questione, è uscito così in due versioni: sottoforma di doppio Cd per i fans, e come dischetto singolo per il mercato. Premetto che io ho ascoltato proprio quest'ultimo, composto di undici tracce oltre alla versione single di "You're gone". Il titolo ("biglie") la dice lunga sul senso del progetto e la musica, pur senza essere un vero concept, conferma l'impressione di un viaggio sospeso tra ieri e oggi, l'adulto consapevole e il suo doppio infantile, il sogno e la realtà. I quattro momenti che intitolano il disco sembrano appunto quattro finestre nostalgiche aperte sull'infanzia e le sue attese, contrapposte a visioni e problematiche diverse. Si tratta, diciamolo subito, di un bellissimo disco. Il suono odierno dei Marillion, se rinuncia agli standard del progressive classico, sa in compenso muoversi in una zona franca di atmosfere raffinate, in un gioco collettivo che si anima sulle tastiere di Mark Kelley e la chitarra di Steve Rothery, ma trova il suo focus ancora una volta nella voce solista di Hogarth, primattore assoluto dell'intera sequenza. Lo testimoniano soprattutto i due brani più lunghi, collocati non casualmente in testa e in coda: nell'apertura di "The invisible man" il canto lievita di pari passo con il ricco tessuto strumentale, sulle tastiere e il synth avvolgenti, il bel gioco percussivo, e sinuose linee di basso, in un crescendo ramificato dal pathos davvero notevole. Non da meno è l'atto finale di "Neverland": l'attacco al pianoforte e alcuni effetti speciali, come l'eco che raddoppia il canto nell'ultima parte, richiamano la nobile lezione dei Pink Floyd di "Dark side of the moon", ma la cifra stilistica della band rimane comunque personale e suggestiva. Sta in un passo medio, sempre elegante, che non ama le forzature ma sceglie la gradualità e la cura degli arrangiamenti, perché ogni frammento suoni limpido e intenso. Risultato pienamente raggiunto in episodi come "Angelina", di struggente intimismo, e nel più corposo rock barocco di "Drilling Holes", mentre "Fantastic place" esalta ancora la chitarra solista e la bella voce del cantante in un contesto sonoro e lirico schiettamente romantico. Il momento più melodico, e ugualmente riuscito, è invece "You're gone", che prende corpo s'un vivace tappeto ritmico e ariose spirali di synth. I Marillion firmano a conti fatti un album di valore, dove si sentono messi a frutto anni di esperienza e affinamento progressivo di una musicalità ricca, elaborata, e oggi pienamente godibile anche fuori delle consuete gabbie stilistiche.


Paatos - "Kallocain" (Inside Out, 2004)

Ormai dalla Svezia le novità discografiche si sprecano, e vanno al di là dei soliti steccati: dal pop più smaliziato all'elettronica, passando per le più varie formule di progressive, è tutto un fiorire di gruppi e artisti. I Paatos confermano il buon momento della scena scandinava, e arrivano al secondo appuntamento discografico dopo l'esordio ben accolto di "Timeloss". Il sestetto svedese mantiene ora quelle promesse e sin dall'attacco di "Gasoline", aperta e innervata dal violino di Anders Bergman, "Kallocain" svela le sue potenzialità espressive: è una musica dal passo felpato, talvolta rarefatta e sempre evocativa, con rare ma incisive sterzate ritmiche intorno al canto solista di Petronella Nettermalm. La cantante è in effetti protagonista decisiva di tutto l'album, con la sua bella voce dai toni introspettivi davvero ideale per certe atmosfere sospese che più nordiche di così non potrebbero essere: è soprattutto il caso di "Reality", la finale e ovattata "In time", o anche "Absinth minded", dove la voce si fa strada tra effetti elettronici e sfocature sonore che solo l'irruzione suggestiva del mellotron mette in fuga per dare corpo e sangue al brano. In "Holding on" il suono malinconico del violoncello (della stessa cantante) fotografa perfettamente, assieme alla voce, un coinvolgente momento di crisi esistenziale reso dalla poesia laconica del testo. Questo stato perennemente sospeso tra un letargo trasognato dell'anima e le remote promesse di un sentimento ancora incerto, cattura davvero il nucleo ispirativo dei Paatos. A tratti la loro musica lascia però balenare frammenti di un'epica perduta, un miraggio di grandezza che ha ancora i colori del mellotron, e del pianoforte, e le cadenze estenuate di un camerismo d'altri tempi: accade nell'ipnotica "Stream", uno dei pezzi forti del disco, con la chitarra di Peter Nylander che brilla nel finale. Molto bella l'atmosfera jazzata di "Won't be coming back", ancora punteggiata da una chitarra eccellente e un sofisticato lavoro del batterista Huxflux Nettermalm, e splendida anche la coda strumentale di "Look at us", con la chitarra, il pianoforte e la batteria in magnifica simbiosi. La formazione svedese ha il pregio del lavoro corale, e senza indulgere in virtuosismi fuori luogo sa sprigionare il senso di una musica fortemente connotata, che si esalta proprio nelle sfumature e nella cura meticolosa degli arrangiamenti: è qui che si avverte la mano felice di Steve Wilson (anima dei Porcupine Tree), che per l'appunto ha diretto il missaggio. Al disco non mancano neppure aperture più francamente melodiche, come "Happiness", ma a fare la differenza è sempre la cornice di un arazzo strumentale mai convenzionale. I Paatos sembrano insomma aver imboccato la via d'uno stile estremamente personale, probabilmente ancora in crescita, eppure già peculiare e riconoscibile, in grado di soddisfare un pubblico trasversale ma comunque di palato fine.


Kenso - "Fabulis mirabilibus de bombycosi scriptis" (BTF, 2004)

Decisamente il Giappone è uno strano paese: visto dall'Europa rimane un luogo di contraddizioni circondato da un'aura vagamente misteriosa, anche nelle sue manifestazioni artistiche. Prendete i Kenso. Questo gruppo, che ha esordito nel lontano 1980 con un disco autoprodotto, ha realizzato l'album in questione due anni fa, ma solo ora la benemerita BTF nostrana ne pubblica la versione europea. Perchè benemerita? Perché è uno di quei dischi che vorremmo incontrare più spesso, e che invece sembrano scomparsi con i nostri anni migliori, l'ideale dell'amor platonico e la gazzosa in bottiglia di una volta. A partire dal titolo, che chiama in causa un oscurissimo disturbo psichico legato alle arti, il quintetto nipponico con ben due tastieristi in organico sembra voler ribadire che non di soli cloni vive il progressive di quelle lande, come molti credono. Nossignori: in queste quindici tracce avrete modo di titillarvi oltremodo con un portentoso frullato di ritmi dispari, sgroppate hard-rock d'annata, preziosismi sinfonici, effetti speciali e anche discreti richiami al folclore del Sol Levante, in una chiave che suona a suo modo originale. Sembra impossibile, ma il disco dei Kenso riesce nell'impresa di imporre tutto questo popò di suggestioni sparse senza mai annoiare, anzi, di più: è perfino divertente, per quanto è imprevedibile nella sua lucida follia. Non è mica facile tirar fuori dal cilindro un canto flamenco che, del tutto inatteso in un album interamente strumentale, fa capolino all'interno d'un bel tessuto jazzato (succede in "In-utsu na nikki"), oppure partire in tromba con riff tiratissimi alla Led Zeppelin per poi rincorrere il flash-rock dei migliori Yes, tutto Hammond e avventurosi cambi di tempo (l'attacco di "Seibumon"), e senza che tutto questo suoni ridicolo, badate bene. Occorre una caratura tecnica notevole e soprattutto aver sviluppato automatismi di gruppo quasi perfetti, ed è quello che i Kenso hanno fatto, a giudicare dallo scintillante lavoro che abbiamo davanti. Il leader Yoshihisa Shimizu (chitarre e sintetizzatori) ha composto l'intero materiale, oltre a suonare tutto solo tre pezzi, ma intorno ha un band in stato di grazia, che trasmette davvero energia e quelle che i Beach Boys chiamerebbero buone vibrazioni : si ascoltino alcuni episodi deliziosamente schizofrenici (sarà l'effetto della bombycosi del titolo?) come "Tokai jokyoku", saltellante successione di fratture, e poi "Tjandi bentar", che abbina esotismi tipicamente orientali a fughe ritmiche improntate a una fusion modernissima, dove si apprezza sia il virtuosismo dei singoli (chitarre e batteria soprattutto) che la tenuta godibilissima dell'insieme. Per non parlare del delirante collage di atmosfere offerto da "Echi dal foro romano", tra indolenze felliniane, marcette popolari e ficcanti spezzature free-jazz. Grande. L'uso di svariati effetti elettronici, nastri manipolati, campionamenti e interferenze ambientali, non solo non mortifica affatto l'effetto generale, ma lo arricchisce di un suo fascino arcano, una sorta di pluralismo sonoro che avvince fino all'ultimo brano della sequenza. Se il progressive, oggi più che mai, è soprattutto contaminazione, allora i Kenso ne rappresentano una delle punte espressive più geniali e consapevoli. Un disco davvero sorprendente.
Informazioni e contatti:
www1.u-netsurf.ne.jp/~kenso/


Moongarden - "Round Midnight" (Galileo Records, 2004)

Quella capitanata da Cristiano Roversi è già da qualche anno (il disco d'esordio è datato 1994) una delle migliori realtà della musica italiana alternativa: e con questo termine voglio indicare tutto quel folto sottobosco di gruppi e artisti che battono percorsi non sempre popolari, di rado premiati da vendite cospicue, ma sempre interessanti da seguire nella loro evoluzione. "Round midnight" è un disco maturo ed elegante, che abbina una scrittura sofisticata a un'ammirevole compattezza tra i cinque componenti della band. Sullo sfondo, come antichi numi tutelari, possiamo ancora intuire il debito verso indiscusse icone del progressive classico (i Genesis, per fare un nome esemplare), ma è innegabile che siamo di fronte a una musica moderna e decisamente adulta, priva di nostalgie fuori luogo, più che mai sintonizzata sul tempo in atto, nei suoni, e anche nei testi in lingua inglese. Uno dei punti forti del disco è proprio la voce solista di Luca Palleschi, dal timbro intenso e malinconico, sempre convincente nelle atmosfere proposte dai nove episodi dell'album. Già la traccia iniziale che intitola il disco suggerisce un clima tendenzialmente crepuscolare, notturno, e un mondo catturato nella sua essenza dispersiva e spesso alienante, diviso tra miraggi mediatici e abissali solitudini. In questo scenario si muove l'ispirazione di Roversi e compagni, intessendo ritratti di spigolose intese sentimentali (l'avvolgente "Wounded", ma anche "Lucifero") e manifesti di solitaria rivolta ("Killing the angel", tra i pezzi più incisivi), fino alla disperante umanità rassegnata di "Learning to live under the ground", con le dure scansioni della chitarra di David Cremoni per una volta in cattedra. In linea di massima, i fans del progressive più canonico potranno restare anche interdetti di fronte a un disco che privilegia la ricerca di un suono tanto rifinito e puntiglioso, lasciando così da parte gli spunti dei solisti e le formule più ovvie: tutti gli altri apprezzeranno invece, come merita, il finissimo lavoro di cesello che caratterizza la sequenza, con le tastiere di Roversi quasi sempre decisive (piano elettrico, effetti sintetici, ma anche mellotron) nel creare l'ideale cuscinetto sonoro per le dense liriche di Palleschi. Un disco di questo spessore ha bisogno di orecchie bene aperte e ascolti ripetuti prima di farsi amare in tutte le sue molteplici sfumature. E' un esercizio di pazienza, comunque, che i Moongarden meritano senz'altro, proprio in quanto interpreti di una proposta musicale che giustamente guarda avanti, senza vendersi l'anima, ma soprattutto senza chiudersi nel recinto sterile della memoria.
Informazioni e contatti:
www.moongarden.it


Le Orme - "L'infinito" (Crisler, 2004)

Uno legge il titolo di questo nuovo capitolo discografico delle Orme, e subito capisce che ci risiamo: prosegue il cammino di Aldo Tagliapietra nel cuore della cultura indiana e del suo mondo spirituale. Il primo ascolto conferma l'intuizione, e viene legittimo chiedersi se tutto questo, in prospettiva, faccia bene o male alla musica del gruppo. Perfino i testi sembrano ribadire una tendenza all'immobilismo e alla ripetizione, quando si ascoltano questi versi: "Non ci sarà nessuna mutazione/perché il tempo è un'illusione". Appunto, si pensa. Eppure, accantonata un attimo questa prima impressione, lasciamo girare il dischetto e poco a poco succede qualcosa. La voce del cantante, quella voce così anomala e così inconfondibile, c'incanta ancora sulle note di un organo assorto ("La voce del silenzio") e quando invoca solennemente l'anima ("Shanti") siamo dentro la sua malìa una volta per tutte. Non importa qui condividere alla lettera i dettami del mondo evocato dalle liriche: a contare davvero, sempre, è l'emozione della musica che ne scaturisce, e se ancora sa prenderci per mano come una volta. Come ai tempi del celeberrimo concept "Felona e Sorona", per intenderci, o dei colorato impressionismo dell'"Uomo di pezza". Acqua passata. Tagliapietra guida oggi un quartetto diverso, col fedele Michi Dei Rossi in testa, e due eccellenti e giovani tastieristi che sembrano crescere disco dopo disco: Michele Bon (organo soprattutto) e Andrea Bassato (pianoforte e violino). "L'infinito" non ha forse l'appeal brillante de "Il fiume" (il disco della rinascita, 1996), perchè a quel primo sgorgare di rinnovato entusiasmo si è aggiunta la consapevolezza che nasce dall'esperienza, depositata nel precedente "Elementi". E' un viaggio circolare, appunto, e ogni giro scava il solco più profondo, mostrando luci e ombre come parti del medesimo disegno. Suggestioni che non restano mute, ma privilegiano toni più raccolti e pensosi, componendo una nuova suite delicata, quasi trepidante, che alterna momenti di rapita sospensione ("Si può immaginare") ad altri di abbandono rasserenato al gioco del destino: fratture e chiaroscuri che hanno il timbro di un violino e di un organo che si rincorrono in cerca di una risposta definitiva (in "Shanti"), fino alla rivelazione de "L'infinito", scandito dalla progressione marziale della batteria. E' una soglia attraversata nell'altalena di presagi e stupori, e il pianoforte elegante di Andrea Bassato asseconda un canto davvero simile a una preghiera ("Canto"), fino all'incontro tra due anime diverse ma complementari: "La ruota del cielo" è infatti un nuovo, prezioso sigillo sulla possibile convivenza di culture solo apparentemente distanti, esplicata con ispirati accenti nel corteggiamento gioioso e cantabile di violino e sitar. Le Orme di oggi sono questo impervio, affascinante equilibrio di opposti che si cercano e s'incontrano in una sorta di zona franca, senza tempo eppure così dentro questo tempo di conflitti, dove conta esclusivamente la risposta più vera, quella emotiva e interiore, alle tensioni di sempre. Dove questo riesce, la loro musica colpisce al cuore come raramente accade nel panorama musicale odierno. Ecco allora dove nasceva quel sospetto iniziale: da questa cronica incapacità di uscire dagli schemi, da questa sordità a un disegno diverso e più libero. Perché "L'infinito" è un disco che richiede un ascolto sgombro da pregiudizi: solo allora vi conquisterà con la sua grazia che arriva da lontano, nutrita con l'appassionata dedizione riservata alle cose che contano, e che è propria degli artisti ancora degni di questo nome.
Informazioni e contatti:
www.leorme-officialfanclub.com/


Stereokimono - "Prismosfera" (Immaginifica/BTF, 2003)

Franz Di Cioccio, celeberrimo batterista della PFM, ha deciso di darsi alla produzione di nuovi artisti, e tra loro appunto gli Stereokimono. Si tratta di un trio che arriva da Bologna e non fa niente per nascondere le proprie simpatie musicali in questo "Prismosfera", secondo titolo della loro carriera: tracce di cosmici tedeschi e space-prog targato anni Settanta, ma anche altro, che potrete divertirvi a scoprire da soli nella traccia-fantasma in coda. Detto questo, comunque, siamo davanti a un disco di buon livello, suonato con lodevole freschezza e un piglio sempre agile, dinamico, lontano per fortuna da ogni intento passatista e nostalgico. Il merito è di un approccio ritmico garantito dalla batteria di Cristina Atzori e dal basso di Alessandro Vittorio, che si divertono a variare continuamente i loro temi strumentali (mancano quasi del tutto le parti vocali), fino a ridare vigore e un certo potere incantatorio a un immaginario che evidentemente trova ancora seguaci. Lo stesso Vittorio suona le tastiere insieme ad Antonio Severi, impegnato anche alle chitarre: è dai suoi riff acidi e jazzati che viene il meglio, come nell'iniziale "Onda beta", che fa temere il peggio tra effetti speciali e sbronze spaziali, prima di invertire felicemente la rotta e far decollare il disco. Tra i momenti migliori c'è "Rosso di luna", con la sua dimensione aperta e circolare, costellata di belle combinazioni basso-chitarra e piccole fratture interne. Musica gradevole, suonata con sperimentato amalgama e senza forzose oscurità. Efficace anche l'andamento più tirato di "Xetrov 5", mentre "L'uomo nuvola" si segnala per la sua cesura a metà pezzo, che prelude a sonorità più meditative. L'anima rock più genuina del trio affiora in "Salamandra", con la chitarra protagonista con riff acidi e continue ripartenze. Forse il brano più intrigante di tutti è però "Bahnhofstrasse", col suo andamento sornione ma percorso da fremiti e umori misteriosi. La chiusa è affidata a "La soffitta volante", bella metafora di un mondo abitato da suoni e fantasie che hanno nutrito fecondamente gli stessi Stereokimono negli anni del loro apprendistato. Non a caso è un episodio che mescola introspezione e galoppate spaziali, ritmo e colore, in una riuscita alternanza. Un gruppo da seguire con interesse.
Informazioni e contatti:
www.immaginifica.it


Mogwai - "Happy songs for happy people" (Pias, 2003)

Confesso: di questa band scozzese non sapevo niente fino ad ora. Dopo l'ascolto di questo disco posso anche aggiungere che me ne pento, e cercherò quanto prima di recuperare...la musica perduta. Forse il problema sono le etichette, che a volte sembrano fatte più per confondere e sviare che per guidare il povero musicofilo tra tutti i CD che escono continuamente, le ristampe, i remix, i rigurgiti, e via dicendo. Il problema si pone più che mai davanti ai suoni dei Mogwai, perchè riesce difficile liquidarli con un aggettivo, una definizione capace di catturare davvero la magia delle loro composizioni. Sui cataloghi li si potrà vedere appellati come noise, o post-rock, ad esempio, eppure chi può negare quell'impronta fondamentalmente psichedelica che ci accalappia a un tratto e non ci molla più? Il gruppo del chitarrista Stuart Braithwaite, messo insieme a Glasgow nel 1996, realizza alla sua quarta prova ufficiale nove tracce che lasciano il segno nel modo sornione di chi non ha nessuna fretta e richiede un ascolto meno distratto del solito. Il sortilegio comincia subito, dall'attacco di "Hunted by a freak", e di colpo siamo dentro una nuvola densa che sembra cullare la più nera malinconia, esasperandola fino allo zenith emotivo: ciò che nel linguaggio colto si chiama sublimazione passa attraverso una voce filtrata elettronicamente su note indolenti di chitarra, finchè la dilatazione delle tastiere sprigiona un vero incantamento estatico di almeno tre minuti. E' un pezzo meraviglioso, commovente, di rara suggestione. Lo stesso copione si ripete ancora, ad esempio in "Kids will be skeletons", e la formula dell'attacco in sordina (chitarra o pianoforte) che si sviluppa poi per aggregazione cellulare non manca mai di colpire al cuore. Si tratta, per così dire, di suggestioni psichedeliche rilette con tocchi di elettronica in nessun modo freddi o impersonali, ma al contrario, interiori e toccanti. Stupenda è anche "Killing all the flies", molto affine al brano iniziale, con un bel contributo degli archi, mentre negli otto minuti di "Ratts of the capital" si svela un'anima più potente e radicale, visionaria nel senso più estremo del termine. Il resto sono originali appunti interiori, a volte sviluppati in maniera quasi cameristica ("I know you are but what am I?", con un pianoforte dal tocco minimalista) o tessiture inquietanti attraversate dal violino e da intriganti suoni percussivi, come nella finale "Stop coming my house", degno epilogo di una sequenza di note evocativa e assolutamente indefinibile. In fondo è una fortuna che sia così: forse solo incontri tanto emozionanti, che non tollerano confronti, ci fanno riscoprire l'ineffabile potere della musica, quando è fatta con questa appassionata dedizione. Consigliatissimo.


Robert Wyatt - "Cuckooland" (Hannibal/Rykodisc, 2003)

Ogni nuova incisione di Robert Wyatt è fatalmente un evento, poiché il riconosciuto alfiere della musica alternativa inglese (Canterbury School e zone limitrofe), a partire dalla sua prima volta da solista ("The end of an ear", 1970) non ha pubblicato fino ad oggi che pochi titoli, quasi tutti memorabili. Più che mai a suo agio nel suo angolo di mondo, circondato dalla stima generale di amici, colleghi e fans, Wyatt si presenta finalmente con questo nuovo disco. Prevedibili, e già verificati, i commenti acidi degli oltranzisti del nuovo a prescindere: musica vecchia, suoni che si ripetono, atmosfere datate. Forse è vero: ma non potrebbe star qui il vero motivo che rende "Cuckooland" un piccolo gioiello, nonostante tutto? Il musicista è come sempre in buona compagnia: oltre ad Alfreda Benge, compagna inseparabile nella vita e nel lavoro, troviamo nel disco personaggi come Brian Eno, David Gilmour e Phil Manzanera, nel cui studio è appunto registrato l'album. Volendo essere pignoli, "Cuckooland" non è un capolavoro: forse è troppo lungo, ad esempio, cosa che incrina la tenuta complessiva della raccolta. Eppure anche questo sembra un dettaglio, perché il disco alla fine, e come sempre, conquista col suo timbro strumentale trasognato, ipnotico, spruzzato di jazz crepuscolare e malinconia ammaliante. E' il caso di "Beware", composto dalla brava Karen Mantler, con la tromba e la voce di Wyatt protagoniste con la loro classica gentilezza di tocco. Nella dimensione un poco uggiosa e molto britannica del disco si aprono in realtà parentesi che spaziano dall'omaggio al Brasile di Jobim e DeMoraes ("Insensatez") al quadro nostalgico di "Old Europe", affogato in un morbido jazz evocativo di cantine fumose e giovanili ricordi del periodo parigino dei primi Soft Machine, con il sax e il clarinetto di Gilad Atzmon in bella evidenza. Il Wyatt di oggi conserva il sorriso e l'umiltà dei tempi migliori, temperati da un cauto scetticismo di fondo, che deposita un velo disincantato sui brani e sulla società odierna frastornata ("Tom Hay's fox") che finisce spesso per accodarsi passivamente ("Life is sheep", ancora scritto dalla Mantler). Eppure, a ben guardare, non c'è rinuncia né astioso cinismo nel disco, quanto la volontà ostinata del ricordo e della testimonianza: "Lullaby for Hamza" saluta il bambino iracheno venuto al mondo mentre iniziava il bombardamento americano nella prima Guerra del Golfo, così come "Forest" è dedicato al popolo zingaro perseguitato da sempre, spesso nel silenzio, ed è una melodia dolente e orgogliosa insieme. Ho lasciato in fondo due gemme, forse le più rappresentative dello stile inconfondibile di Wyatt. "Cuckoo Madame" è un episodio struggente, fuori dal tempo, un incantesimo di voci commosse e tastiere colanti che sembrano sgorgare dalla stessa fonte miracolosa di "Rock Bottom", capolavoro assoluto di Wyatt. La delicata "Foreign accents", invece, è ancora un omaggio alla memoria: il cantante ricorda la scelta coraggiosa di due persone, lo scienziato israeliano Mordechai Vanunu, che denunciò la preparazione di armi atomiche nel suo paese, e Mohammad Mossadegh, primo ministro iraniano deposto con la forza da inglesi e americani solo perché voleva nazionalizzare il petrolio. Senza retorica, con la sua voce quasi sussurrata, Wyatt intona una cantilena minimalista dove i nomi dei due uomini si alternano a quelli delle due città martiri del Giappone, Hiroshima e Nagasaki. A volte il genio è semplicità che si fa poesia: "arigato" (grazie in giapponese) canta Wyatt, e non c'è altro da dire. Il disco vale l'acquisto, oltre al resto, anche per due piccole-grandi invenzioni come queste. Arigato, mister Wyatt.


Muse - "Absolution" (East West/Taste, 2003)

Il brit-pop di questi tempi si fa ambizioso, e tende alla contaminazione di lusso in cerca di consacrazione. Il trio Muse, al terzo album ufficiale, ammanta così la propria ispirazione di arrangiamenti sontuosi che rivestono le linee melodiche di questo "Absolution" di un fascino ambiguo, che cattura comunque l'attenzione in un mix di potenza sonora, virtuosismi vocali e malinconiche introspezioni dal refrain quasi sempre vincente. Quattordici le tracce del disco, e praticamente nessun punto debole: il piano a martello di "Apocalypse please", tra i momenti più alti, apre la strada alla vibrante voce solista di Matthew Bellamy, che scrive tutte le liriche, e le interpreta con l'enfasi giusta. Sulla stessa falsariga sono pezzi di uguale impatto melodico, come "Time is running out" e anche "Stockholm syndrome", che testimoniano di una potenza sonora notevole per un semplice trio: ottima la dinamica batteria di Dominic Howard, in particolare, essenziale in questo suono estremamente compatto e fluente. Rispetto ai compatrioti Radiohead, ad esempio, i Muse mostrano un'anima meno sperimentale, con tutti gli spigoli riassorbiti nel flusso di un pop sovrarrangiato, che punta sempre a stordire con le sue armonie strutturalmente lineari ma confezionate a puntino, che fanno breccia fin dal primo ascolto. Quando si fa luce una vena diversa è l'effetto sapiente degli archi (la delicata preghiera di "Blackout"), o l'atto di contrizione di "Sing for absolution", malinconia senza tempo, ma gli umori dominanti sono la scorribanda elettrica di "Hysteria" o l'energico rock di "The small print", episodi dove l'incisiva presenza della voce multiforme di Bellamy bilancia le sfuriate della chitarra in un impasto indubbiamente efficace. Il piccolo capolavoro è in coda: si chiama "Ruled by secrecy" e si sviluppa s'un pianismo romantico e prezioso che viene da lontano, sul quale il cantante trova accenti particolarmente ispirati. I Muse fanno canzoni, in fondo, ma sanno rivestirle come pochi e qualunque sia il registro che scelgono, in ogni caso, lo valorizzano sempre al meglio. "Absolution" è perciò un disco di buon livello e non deluderà chi cerca vibrazioni di qualità anche nel contesto del pop più smaliziato di oggi.


Groovector - "Enigmatic elements" (Mellow Records, 2003)

Ascoltando questa seconda prova dei finlandesi Groovector viene da pensare che tanti esperimenti cervellotici o forzature di vario genere, non sono affatto indispensabili, né sufficienti, per suonare della buona musica. Questo solo per dire che, ad un primo ascolto, "Enigmatic elements" non sembra neppure un disco così straordinario: gli elementi, per restare al titolo, non sono poi così enigmatici e complessi, e tutto fila via piuttosto liscio. E invece no: poco a poco il paesaggio sonoro creato dal quartetto (tastiere, chitarra, basso, batteria) si svela in tutta la sua ricchezza di sfumature, e ci si accorge che la linearità apparente di certi passaggi strumentali è piuttosto il frutto di una coesione invidiabile tra i musicisti, che permette loro di assemblare questo mosaico riuscito di tessere acustiche e melodiche con sterzate elettriche e jazzate, a volte rarefatte, a volte più corpose. Il tessuto strumentale si concentra sul piano elettrico e l'organo di Mikko Heininen , che oltre a cantare firma gran parte del materiale col bassista Teemu Niemelä, e sulle calibrate impennate della chitarra solista (Rauli Viitala): un buon esempio è proprio l'attacco di "Remember", mentre "Never growing old" abbina una melodia malinconica, e un'efficace gioco di voci, a una parte strumentale di squisita fattura per organo e pianoforte. Il meglio però sta forse nei brani dove risulta decisiva l'aggiunta del sax ospite di Risto Salmi: "First flakes" è ancora sospesa come un vero acquerello nordico di luci e spazi rarefatti, ma "Your light", in particolare, è uno dei piccoli gioielli di tutta la raccolta, con il tema lirico al centro di eleganti ricami di sax, e un finale da brivido grazie allo splendido ingresso del basso sul tema dominante. Sembra proprio un perfetto riassunto delle migliori qualità dei Groovector, la cifra esatta del loro succoso minimalismo dalle mille risorse. E' una musica che affonda i suoi artigli quando sembra già avvitarsi indolente nelle sue pacate atmosfere, come succede prima in "Nordic night", con la chitarra heavy di Seppo Tyni (altro ospite del disco) che irrompe corposa nella delicata trama distillata dal pianoforte per condurla altrove, e poi nella stessa title-track, dove è l'organo a dirottare energicamente il pezzo, lasciandolo poi vibrare sulle corde della chitarra solista. Il vero colpo di coda dell'album sta proprio in fondo, in "Rain on", prima avviato su scorrevoli vie di marca lounge, addirittura, e poi travolto dall'incascendente dialogo ravvicinato di sax e chitarra, in un numero di alta scuola. Insomma, "Enigmatic elements" offre un piatto estremamente saporito, da parte di un gruppo che mostra di saperci fare davvero, e senza clamori ed effetti speciali realizza a suo modo un piccolo-grande manifesto di moderna prog-music che non deluderà le vostre attese.
Informazioni e contatti:
www.groovector.com


Indaco - "Terra Maris" (Helikonia, 2002)

E' sempre un piacere imbattersi in dischi come questo: le proposte a nome Indaco hanno come filo conduttore un senso molto aperto e collettivo del fare musica che traspare anche dall'organico mutevole e ovviamente dalle scelte sonore. Intorno al nucleo storico dell'ensemble romano, costituito nel lontano 1992 da Mario Pio Mancini (bouzuki e violino) con Rodolfo Maltese e Pierluigi Calderoni (entrambi ex- Banco), insieme a Luca Barberini (basso), Carlo Mezzanotte (tastiere) e il percussionista Arnaldo Vacca, troviamo stavolta uno stuolo di nuovi compagni di strada. Tra questi si segnala soprattutto la cantante Gabriella Aiello, molto efficace, ma qua e là si apprezza il contributo di vecchie volpi e talenti affermati come Mauro Pagani, Eugenio Bennato e Andrea Parodi (inconfondibile voce dei Tazenda). "Terra Maris", bellissimo titolo per una sequenza di suoni altrettanto evocativa, allinea undici tracce che ancora una volta lasciano emergere echi multietnici, voci e ritmi di pregevole qualità, che spaziano dal mediterraneo profondo e dolente di "Amargura", firmata e interpretata da Parodi nella sua lingua sarda, ai chiaroscuri spagnoleggianti di "Umbras" (firmata ancora da Parodi con Francesco Sotgiu), per la voce della Aiello, fino al manifesto più sociale e polemico di Eugenio Bennato, coautore e interprete di "Terza qualità", ben calato nel paesaggio contraddittorio ma fecondo dell'Italia di oggi. Armonie vocali senza tempo e nuovi orizzonti s'incrociano in una trama musicale sempre fresca, pulsante, godibile eppure mai banalmente prona alla babele ammiccante di tante proposte in chiave world: perché qui, accanto alle voci e alle parole, sentiamo anche la vitalità e lo slancio di musicisti di razza, che arrivano spesso da percorsi diversi, ma sanno poi fare lega nel nome della musica. Rodolfo Maltese, alla chitarra e ai fiati, si fa apprezzare soprattutto nella finale "Puja", con il suo flicorno che suggella il disco in una dimensione ariosa, insieme al violino di Mancini e al pianoforte elegante di Carlo Mezzanotte. Ma sono da segnalare anche "D'oriente", l'apertura nel segno vocale di Gabriella Aiello, e un altro strumentale molto efficace, "Concentrico": un tema che insiste a spirale, davvero accattivante nella sua tensione ritmica. Più composito l'episodio di "Aran", bell'incontro di jazz e folk, con gli strumenti a corda dialoganti con il sax. La curiosità è invece offerta da una versione tutta speciale della classica "Norwegian wood" dei Beatles, riletta in una inedita veste etnica. In conclusione, questa bella realtà che gli Indaco rappresentano da qualche anno nella scena italiana, colpisce ancora nel segno restando ancorata all'idea di partenza: "Terra Maris" è infatti un esempio di musica senza frontiere, antica e moderna insieme, praticamente un mobile mosaico di suggestioni che somiglia al tempo in cui nasce.


La Maschera di Cera - "Il grande labirinto" (Mellow Records, 2003)

Riassunto delle puntate precedenti, a beneficio dei più distratti: prima vengono i Finisterre, quindi l'ensemble Hostsonaten, i Finisterre si sciolgono, e nascono altri progetti dalle sigle intriganti, poi rinascono i Finisterre, ma intanto ha preso corpo anche la qui presente Maschera di Cera...Dietro questo florilegio di band più o meno estemporanee c'è sempre Fabio Zuffanti, autentico re Mida del progressive italiano di questi anni: ogni sua idea vede la luce, intanto, e di questi tempi non è poco. Segno che ormai si è guadagnato un suo credito presso la discografia di nicchia, e sa giocarselo sempre al meglio. "Il grande labirinto" è il secondo titolo pubblicato con la sigla della Maschera di Cera, una formazione che nasce allo scopo dichiarato di tenere vivo il retroterra di certo prog classico datato anni Settanta. L'intelligenza dell'operazione, comunque, sta nel portare il gioco sempre un poco oltre il déja vu, per evitare il rischio di fare archeologia musicale, e cadere nel puro Regressive. E' quello che riesce in questo album a Zuffanti e soci, nonostante le premesse tutte rétro: un concept-album, par di capire, che cattura un viaggio interiore sull'orlo (e oltre) dell'abisso esistenziale. Il tutto condito, va da sé, da quel margine di ambiguità e non detto che costituisce il sale di certi progetti, oltre all'oscurità programmatica delle scelte musicali. Se "Il grande labirinto" è un disco riuscito è anche merito di Alessandro Corvaglia, una voce solista finalmente all'altezza del tessuto musicale, anche se forse alcuni capitoli del racconto peccano di qualche lungaggine lirica. L'appunto, del tutto trascurabile, riguarda soprattutto la seconda parte di "Viaggio nell'oceano capovolto", che pure ha dei momenti grandiosi, all'altezza di "L'ultimo giro" in particolare: il gioco ritmico si avvita davvero a spirale, con l'ottima performance del batterista Marco Cavani, assieme all'organo Hammond di Agostino Macor e al basso dello stesso Zuffanti, in un impasto mozzafiato. Tutto il disco è strutturato come un efficace contrappunto di tonalità scure, introspettive, e toccanti aperture, in un crescendo dove la stessa qualità tecnica della band, sebbene altissima, è surclassata dal fattore emozionale: nella title-track, ad esempio, il cantato è spezzato da ficcanti inserti di flauto (il bravo e decisivo Andrea Monetti) e acide sonorità, mentre il mellotron e il pianoforte volano altissimi secondo un disegno drammatico che aggiorna brillantemente la lezione di capiscuola come il Balletto di Bronzo. Lo stesso avviene in "Ai confini del mondo", una sorta di testamento estremo: difficile resistere al pathos di questo canto limpido e vibrante, che alla fine sembra svincolarsi dalla morsa spigolosa di flauto e chitarra, e innalzarsi sulle ali del mellotron. Sarebbe già molto, ma bisogna spendere una parola per un pezzo tutt'altro che facile, eppure squisito, come "Il canto dell'inverno", magistrale paesaggio interiore per il pianoforte inquietante di Macor e l'oboe di Antonella Trovato. Lo stesso tema ritorna, amplificato, anche nello splendido finale ("Viaggio nell'oceano capovolto parte 2"), in una progressione veramente intensa. Alla fine, "Il grande labirinto" è un disco prossimo al capolavoro, ben concepito e suonato anche meglio, dunque da non lasciarsi sfuggire. E Fabio Zuffanti, forse, dovrebbe insistere e puntare tutto su questo gruppo di validi musicisti, a cominciare dalla bella voce solista, a costo magari di accantonare (momentaneamente!) qualche altro progetto. Perchè, con queste premesse, ha molte possibilità di lasciare un segno ancora più forte nel panorama musicale italiano: è un augurio.


Sigur Rós - "( )" (Fatcat records, 2002)

E' un'impresa valutare un disco come l'ultimo realizzato dalla band dei quattro giovani islandesi: enigmatico sin dal titolo che non c'è, perchè le due parentesi non contengono parole, questo è un album tutto da ascoltare lasciandosi invadere da ogni singola nota, e sgombrando il campo da qualsiasi parametro. E' una sequenza di otto tracce, naturalmente senza titolo anch'esse, che a sentire il gruppo sarebbe poi divisa in due parti ben distinte (più leggera nelle prime quattro tracce, più melanconica nelle restanti), e che il cantante e chitarrista Jón Þor Birgisson (Jónsi) canta oltretutto in una lingua tutta sua, soprannominata hopelandic, uno strumento in più, e suggestivo quanto mai, nel cuore di questa miscela al tempo stesso elementare e ardita. Elementare perché indubbiamente le atmosfere sono molto minimaliste, basate s'un lento crescendo d'intensità strumentale e vocale, senza grossi strappi ritmici; ma anche ardita, proprio per il rigore assoluto, tetragono a ogni scorciatoia, che caratterizza l'operazione per oltre settanta minuti. Se le prime tracce hanno un tratto più impressionista e raccolto, le altre si caricano via via d'una impronta più incombente, come un paesaggio sinistro che si svela lentamente. Elettronica a volontà, per le tastiere di Kjartan Sveinsson, ma anche il sofisticato apporto di un quartetto d'archi, che immerge il tono generale dentro una dimensione singolare, in bilico tra un sinfonismo intimista e una ricerca di purezza che non sopporta etichette. Liquida, fluida, a volte rarefatta fino al silenzio (come quello prolungato tra i brani 4 e 5 che separano appunto le due anime del progetto), la musica degli ultimi Sigur Rós non ama le trame troppo dinamiche, così che la batteria di Orri Páll Dýrason si sceglie spesso un ruolo di soffice accompagnamento jazz, per non scalfire la soffusa e dominante vena crepuscolare, o scandisce enfaticamente il pathos drammatico. Non è un ascolto facile, ma certo un disco come questo non lascia indifferenti: la voce solista ammalia, come un richiamo lanciato nel cosmo per essere raccolto, e forse condiviso, insieme alle lunghe e circolari note di pianoforte organo o chitarra che si avvitano a spirale in cerca di una liberazione che forse non esiste. Quando quest'appello ricade, il suono si ammanta di un colore più scuro, venato di una tristezza a volte insostenibile, eppure anche tremendamente affascinante, commovente. Il momento più potente, con un ruolo più decisivo delle percussioni nella progressione, è forse la traccia Sette (con il corollario dell'ottava e ultima) ma mai come in questo caso si deve parlare di un disco fortemente unitario e compatto. Un ascolto è sicuramente consigliato, perchè i Sigur Rós possono piacere o meno, ma più ancora dei cugini Radiohead (col quale hanno effettivamente dei punti di contatto), perseguono il loro stile, la loro poetica di base, con una coerenza intatta e perfino ostinata, che appartiene agli artisti di razza fedeli soltanto al proprio mondo interiore. Quello che hanno messo tra parentesi, perché ogni ascoltatore scenda a cercarlo, forse a riconoscerlo, con loro.


Porcupine Tree - "In absentia" (Lava Records, 2003)

Il nome dei Porcupine Tree si è imposto nel corso degli anni Novanta come una delle più autorevoli bandiere del rock alternativo inglese, sia pure attraverso fasi disuguali, per la brillante capacità di spaziare dalla psichedelia degli esordi alle sonorità progressive in perenne evoluzione. A conferma di quanto appena detto, questo nuovo album ripropone un quartetto che, sotto la guida di Steven Wilson, dimostra la grande maturità di un progetto perfettamente dentro il proprio tempo, nei suoni come nei testi, in una riuscita mescolanza di utopia e consapevolezza. Le dodici tracks del disco (ma l'edizione europea qui in esame si avvale di un secondo CD con tre pezzi alternativi) riesce nell'impresa di conciliare gli umori più acidi con la poesia malinconica di chi vive ai margini, o, semplicemente, non sa sintonizzarsi sulla realtà in atto. Così accanto alle punte strumentali più abrasive, come "Wedding nails" o l'iniziale "Blackest eyes", fino all'inquietante manifesto di "Strip the soul" (incubo urbano senza risveglio), dominati dalle sonorità più dure e spigolose, vanno pure sottolineati gli episodi più evocativi: su tutti "Heartattack in a layby", di visionaria malinconia, e la toccante "Gravity eyelids", accorata invocazione d'una tregua con un grande lavoro atmosferico di Barbieri, fino alla cantabile e nostalgica "Trains", dominata da immagini e sapori perduti. L'incalzante "The sound of muzak" è invece una denuncia esplicita del potere mistificatorio dell'industria rock, ben scandita dalla ritmica secca e circolare della batteria di Gavin Harrison (ultimo arrivato che ha sostituito Chris Maitland) e con un lungo solo di Wilson nel mezzo del tema dominante. Un paesaggio musicale sempre avvolgente, che cattura però dopo ripetuti ascolti e non subito, proprio in ragione dell'estrema accuratezza del lavoro, un vero puzzle di tessere variegate: il colore dominante è piuttosto cupo, ma la band si mostra capace di aprire la propria musica a scenari suggestivi che vanno verso la speranza, la malinconia (nel convincente ritratto di "Prodigal") o più spesso indagano l'ambiguità dei sogni, come avviene in "The creator has a mastertape", costruito sul basso di Colin Edwin e dilaniato da pesanti scariche elettriche. Le tastiere di Richard Barbieri trovano apparentemente meno spazio, ma con una serie di efficaci accorgimenti elettronici che punteggiano tutto il disco il musicista svolge comunque un prezioso lavoro di rifinitura. C'è da sottolineare anche l'apporto degli archi in "3" e nell'atto conclusivo di "Collapse the light into hearth", con il pianoforte in primo piano sullo sfondo orchestrale. Una chiusura molto poetica per un album di forte e spesso urticante impatto. Difficile davvero citare i brani migliori, ma nella scaletta spiccano forse "Gravity eyelids" e "Heartattack in a layby", eloquenti manifesti della potenza espressiva raggiunta dai Porcupine Tree attuali. "In absentia" è un gran bel disco, sostanzioso e ricco di sfumature, e vi conquisterà se avrete la pazienza di un ascolto non superficiale.


Trespass - "In Haze of Time" (Musea, 2002)

Quasi a ennesima conferma che ormai, in pieno terzo millennio, il progressive è davvero (e ancora) una musica globale, ecco arrivare questa briosa formazione israeliana, di Gerusalemme, con un album d'esordio davvero incisivo. Si tratta di un trio, sul classico modello di nomi quali E.L.P. e simili, e in effetti se si deve chiamare in ballo qualche nome celebre, quello di Emerson e soci può sembrare il più ovvio. Eppure, attenzione, questi tre ragazzi sono perfettamente in grado di sviluppare un discorso discretamente personale, che nasce da influenze diverse ben digerite, e soprattutto suonano con contagioso entusiasmo dalla prima all'ultima nota delle sette tracce che compongono il disco. Se a dettare i temi dominanti sono le brillanti tastiere di Gil Stein, che viene da studi classici e vanta una precoce esperienza in ambito folk, è anche vero che alla riuscita del disco concorrono in maniera decisiva gli altri due complici: il batterista Gabriel Weissman e il bassista Roy Bar-tour, a loro volta cresciuti tra molteplici esperienze, dal jazz al rock e al blues. In sostanza, a colpire l'ascoltatore è appunto la grande compattezza sprigionata dalla musica dei Trespass: è un suono sempre dinamico e particolarmente generoso di spunti, imprevedibile, che lascia intravedere un perfetto affiatamento e una eccellente preparazione tecnica. Tutti i brani sono di ottimo livello, ciascuno a suo modo: il più ritmico, con una bella performance di basso e batteria, è forse lo strumentale "Gate 15", incalzante manifesto di jazz-rock moderno, mentre episodi come "Orpheus suite" mostrano un passo più classicheggiante e barocco, corroborato però da ficcanti cambi di tempo che esaltano il peculiare dinamismo del gruppo. Le tastiere elettroniche di Gil Stein sono pure l'anima di "Troya", ancora irrorato dallo splendido lavoro della sezione ritmica. Tra i brani cantati in inglese dallo stesso tastierista, si segnalano l'iniziale "Creatures of the night", e la movimentata "City lights", con organo e piano a guidare le danze. Forse però il pezzo forte dell'album è proprio la title-track, "In haze of time": il fraseggio all'organo e la dimensione sospesa delle liriche si sommano qui a un tema di particolare efficacia, che scandisce splendidamente il brano, con il canto solista di Stein e gli impasti vocali sempre efficaci. Non c'è che dire: i Trespass si presentano sulla scena del progressive odierno con un biglietto da visita di tutto rispetto, e promettono di restarci a lungo. E' l'augurio che facciamo loro, come a chiunque dimostri certe qualità. Il disco è vivamente consigliato a chi crede che il termine progressive abbia davvero un senso.


Eclat - "Le cri de la terre" (Musea, 2002)

Questo quartetto francese esce con un album dal titolo suggestivo che solo in parte, però, mantiene le sue promesse. Le nove tracce in scaletta sono ben suonate, intendiamoci, e mostrano una discreta coesione interna, del resto abbastanza normale per una band attiva ormai dai primi anni Novanta, eppure la musica proposta lascia alla fine una strana impressione, non del tutto soddisfacente. Forse bisognerebbe interrogarsi su cosa sia e debba essere, oggi, il progressive: ripetere formule già affermate, se non abusate, o ricercare, a costo di fallire, una nuova strada. Perché gli Eclat sanno sicuramente come imbastire un gradevole frullato a base di belle tastiere dal timbro romantico e classicheggiante (Thierry Massé), incisivi break di chitarra (Alain Chiarazzo, che compone e canta) e una sezione ritmica dinamica che fa il suo dovere, ma tutto quello che sentiamo non ci esalta, non riesce mai a sorprendere davvero. Forse l'idea di un disco prevalentemente strumentale non è stata felice: l'unico titolo cantato, infatti, "La vie du Sonora", risulta tra gli episodi più gradevoli. In "Mr Z" l'atmosfera è ariosa e solare, con la chitarra che però allunga fin troppo il brodo, mentre il sintetizzatore colora lo sfondo senza troppa fantasia. Insomma, riposante, ma alla fine manca sempre l'affondo vincente capace di rendere un disco in qualche modo memorabile. In questo senso, "Horizon pourpre" è almeno più esotica e potente, nel suo incedere spezzato e orientale, con l'apporto di un bel violino e basso e batteria che si divertono a improvvisare in uno stile etno-fusion. Meno convincenti gli altri brani, dove le discrete qualità tecniche non si accompagnano quasi mai a invenzioni veramente originali, anche se "Eternité" è un dinamico rock per organo e chitarra di buon effetto. Un disco che in fondo si ascolta anche con piacere, ma non lascia tracce profonde.


Hostsonaten - "Springsong" (Sublime, 2002)

Ecco uno di quei dischi che non troverete mai in cima alle classifiche, che pochi si prenderanno la briga di recensire o solo segnalare sui media dei grandi numeri: forse, viene da pensare, proprio in ragione del valore della musica in questione? Già: perchè "Springsong", il nuovo, splendido album firmato dall'ensemble Hostsonaten (vale a dire una delle molte incarnazioni del prolifico Fabio Zuffanti), è una vera meraviglia sonora, che sembra sgorgare da un altro tempo, un'altra concezione della musica. Niente effetti speciali, nessuna forzatura, nè, tantomeno, la ricerca esasperata del brano giusto per radio e tivù: macché, qui impera ancora il gusto dell'arazzo musicale da coltivare in pace, fuori dalle ossessioni del mercato e dei suoi compromessi. Eppure fa quasi rabbia che un disco del genere debba restare patrimonio di pochi eletti, all'interno di un circuito chiuso (quello del progressive per capirci) che proprio non si riesce ad allargare a un pubblico distratto, confuso e sviato da altri miraggi a buon mercato. Il bassista e compositore Zuffanti, già anima dei validi Finisterre, ha concepito davvero un progetto seducente, ispirato come da titolo alle suggestioni della stagione primaverile: esclusivamente strumentale, l'album si compone di nove episodi trasognati, tutti suonati con ammirevole perfezionismo eppure sempre in grado di colpire al cuore. Nel complesso e articolato affresco spiccano soprattutto le delicate armonie del flauto di Francesca Biagini, l'eclettico violino di Sergio Caputo e le chitarre, acustiche ed elettriche di Stefano Marelli, anche lui compagno di strada con i Finisterre. Il basso del leader dal suo canto non si limita al mero supporto ritmico, e svolge una funzione discreta ma essenziale in un sound sempre rotondo e corposo, arricchito spesso dal mellotron di Agostino Macor. Ma i singoli musicisti, ecco quel che conta, riescono a suonare davvero insieme con una scioltezza esemplare, lontani da tentazioni virtuosistiche e del numero ad effetto: dalla morbida apertura di "In the open fields" alla bella minisuite di "Toward the sea", divisa in tre tempi, che amalgama i diversi temi portanti del disco, "Springsong" fluisce come una vera sorgente di armoniosa e cristallina bellezza, privilegiando spesso la dimensione acustica, a tratti rarefatta, salvo aprirsi poi a passaggi più mossi e increspati ("The underwater" ad esempio), con il sax di Edmondo Romano e il pianoforte di Boris Valle eccellenti nel fraseggio jazzato, o alla ritmica danza campestre di "Evocation of Spring", mentre il leiv-motiv più insistente è il richiamo alla tradizione celtica. La produzione, per finire, è impeccabile: i suoni e gli arrangiamenti sono eccellenti, così come la preziosa confezione cartonata, finemente illustrata. Insomma, un disco del genere è da non perdere, anche se il progressive vi lascia indifferenti: questa è grande musica, e basta.


Pat Metheny Group - "Speaking of now" (Warner Bros, 2002)

Nell'ambito della moderna fusion il nome di Pat Metheny ha da anni un suo posto ben preciso. Il chitarrista ha ormai uno stile riconoscibile, sia nelle prove firmate da solo sia con il suo gruppo di sempre (messo insieme nel 1977) come in quest'ultimo lavoro, che ripropone il fido tastierista Lyle Mays, accanto al bassista Steve Rodby, Antonio Sanchez alla batteria, e ancora Cuong Vu alla tromba e il camerunense Richard Bona, impiegato alla voce e alle percussioni. La presenza di quest'ultimo musicista offre indubbiamente alcune suggestioni inedite alla musica più tipica del gruppo: le trame sonore, jazzate e malinconiche, centellinate dalla chitarra di Metheny, si aprono così a momenti più evocativi e solari, ad esempio in "You", splendida ascensione di note rarefatte che sale in ariose spirali intorno al canto, o anche in "Another life". Sono brani sorretti per altro dal consumato amalgama tra Metheny e gli altri compagni di viaggio, a cominciare da Mays, che si adopera soprattutto al pianoforte con grande sapienza e versatilità, ad esempio in "A place in the world", lussureggiante composizione che sa riunire sapori diversi in una miscela sempre accattivante. Spicca qui l'altro elemento portante di questo sound, la tromba di Cuong Vu, che sa ritagliarsi un suo spazio discreto ma elegante tra la chitarra del leader e le tastiere. In "On her way" Metheny scherza su brillanti atmosfere vagamente sudamericane, mentre la prova d'insieme più intensa dell'album è sicuramente la lunga "Proof", oltre dieci minuti di seducente jazz multicolore, più volte scomposto e ricomposto da una band veramente affiatata attorno al suo leader. Più atmosferico che veramente sperimentale, sinuoso e sempre legato ai colori di un pomeriggio che scorre sornione e indolente, come nel breve episodio di "Afternoon", "Speaking of now" non deluderà sicuramente i fans di Metheny e magari gliene porterà di nuovi, catturati nell'ariosa rete di suoni che ancora una volta il talentuoso chitarrista ha saputo tessere.


Le Orme - "Elementi" (Crisler, 2001)

A cinque anni da "Il fiume", il gruppo guidato da Aldo Tagliapietra e Michi Dei Rossi, torna con un disco dedicato ai quattro elementi naturali, che si avvale tra l'altro di una copertina firmata da Paul Whitehead (autore delle più note cover dei Genesis). Diciamo subito che rispetto a quell'album non si registrano novità significative: e questa è già una bella notizia, se consideriamo alcune deludenti performances di altri nomi storici del panorama italiano. Le Orme invece, ancora attive dopo tanti anni di luci e ombre (vedi la scheda qui), ci regalano un'altra intrigante sequenza di 14 tracce legate, anche qui, da un unico filo concettuale. Tagliapietra è sempre vicino alle suggestioni della cultura indiana, e il senso delle sue liriche, delicate e assorte come al solito, secondo un marchio di fabbrica ormai sperimentato, testimonia questa tendenza a ricercare (e ricreare) nella musica lo specchio di una profonda serenità interiore. Tradotto in parole più semplici, questo nuovo album è ancora ricco di passaggi strumentali suggestivi e di raffinato lirismo: composizioni che sanno amalgamare con efficacia spunti elettrici e dal ritmo sostenuto con atmosfere più acustiche, sempre animate da un gusto musicale che privilegia la misura tra le parti, e anche la limpida melodia, rispetto a certe forzature. Ma chi pensa che questo voglia dire noia e soluzioni scontate è in errore: ascoltate "Danza della terra", con un organo in stile 'sixties' (l'ottimo Michele Bon) a scandire un tempo arcano insieme al synth e alla batteria di Dei Rossi; o le tre parti davvero contagiose di "Danza del vento" alternate a belle parentesi meditative come "Canto di preghiera", come pure la poesia disarmante di "Risveglio". E quindi godetevi quello che è il vero gioiello del disco, "Dove tutto è!", che recupera nel canto certi accenti naive di "Florian"(1979), e nella coda strumentale si concede il lusso di un delizioso dialogo tra il sitar sempre più sciolto di Tagliapietra e il violino di Andrea Bassato (ultimo arrivato in organico) con una riuscita miscela di esotismo e tradizione popolare davvero eccellente. Il disco ha in generale una freschezza e una capacità comunicativa piuttosto rara, che colpisce senza mai cadere nell'ovvio, e di questi tempi non è davvero poco. Consigliato a tutti, al di là di steccati e categorie di genere.