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Akt - "Blemmebeya" (Autoproduzione, 2011) La migliore notizia dal pianeta Akt è proprio l'uscita di un nuovo lavoro: questo trio bolognese aveva fatto il suo esordio nel 2007 con un disco già notevole come "Dentrokirtos", ma non stava scritto da nessuna parte, considerati i tempi, che ci sarebbe stato un seguito. Invece ecco arrivare "Blemmebeya", che non solo conferma lo spessore del gruppo, ma ci rassicura anche sulla buona salute del nostro underground. Nonostante tutto esiste, anzi resiste, elabora con i suoi tempi, e solo quand'è il momento dà alla luce i frutti del suo impegno. Di prim'ordine, a volte, ed è questo il caso. ![]() ![]() Magic Pie - "The Suffering Joy" (Progress Records, 2011) I Magic Pie sono norvegesi, e giungono con "The Suffering Joy" al terzo appuntamento discografico. Ancora una volta schierato a sestetto, il gruppo annovera però, accanto ad Eirik Hanssen, il nuovo cantante Eriikur Hauksson al posto di Allan Olsen, voce solista nelle prime due incisioni. Per il resto, la musica ruota ancora intorno alle tastiere di Gilbert Marshall e soprattutto alla chitarra solista di Kim Stenberg, e rimane fermamente all'interno della tradizione sinfonica dei dischi precedenti, denotando però una bella personalità che prende corpo.
Hostsonaten - "Summereve" (AMS, 2011) Si chiude con questo album la tetralogia della "Seasonscycle suite" firmata dagli Hostsonaten di Fabio Zuffanti: un percorso iniziato nel 2002 con l'uscita di "Springsong", e sigillato oggi dalla pubblicazione di "Summereve", che conferma le migliori caratteristiche di un ensemble dall'organico piuttosto elastico, ma ogni volta in grado di esprimere compiutamente il disegno musicale concepito dal bassista genovese. ![]() Syndone - "Melapesante" (Electromantic, 2010)
Va salutato con piacere il ritorno di una band come i Syndone, che nei primi anni Novanta contribuì al rilancio del progressive italiano con due dischi come "Spleen" e "Inca", e si ripresenta oggi con il solo Nik Comoglio della vecchia formazione ed un album che ripropone finalmente il gruppo di Torino all'attenzione degli appassionati. Glass Hammer - "If" (Sound Resources, 2010) Il nuovo disco della band di Chattanooga era molto atteso dai fans, soprattutto dopo la strana parentesi del precedente "Three Cheers For The Broken-Hearted", nel quale la ricetta a base di vintage prog che li aveva guidati fin lì veniva improvvisamente messa da parte. Riuscirà "If" a recuperare al gruppo di Babb e Schendel l'affetto dei suoi seguaci? Big Big Train - "Far Skies Deep Time" (English Electric Recordings, 2010) Non perdono davvero tempo i Big Big Train: sull'onda dell'ottima accoglienza tributata al precedente "The Underfall Yard" (2009), la band inglese si ripresenta ora con "Far Skies Deep Time", composto da cinque tracce inedite. Tecnicamente, il disco viene definito un EP: onestamente però, considerando la durata complessiva di oltre quaranta minuti, stiamo parlando di quello che una volta era un album completo a tutti gli effetti. La brevità della sequenza, inoltre, dà modo di apprezzare ancora meglio, in un solo ascolto filato, la personalità di quello che ormai è il nome di maggiore spicco della scena prog britannica.Nel nuovo lavoro, si possono cogliere piccole differenze di base nell'impostazione sonora del quintetto: la più sostanziosa è probabilmente la rinuncia alla sezione fiati che garantiva all'ultimo disco una risonanza sinfonica molto suggestiva. Ora la scrittura del gruppo è più raccolta e compatta, anche più dinamica forse, ma chi pensa per questo a una resa inferiore nei risultati si sbaglia, e di grosso. Lo stile è sempre quello, un progressive rock dalle tinte molto romantiche e a suo modo molto classico, anche nelle liriche, che privilegia delicate armonie vocali accanto a sfumature strumentali morbide e complesse, impastate a dovere grazie ad arrangiamenti curatissimi, perfino puntigliosi. Entrando nel merito dei singoli episodi, ad esempio, la splendida "British Racing Time" è immersa in un'atmosfera assolutamente struggente: le voci vellutate, anche corali, sono cullate da un tessuto strumentale elegante e avvolgente, nel quale svettano il vibrafono e note cristalline di chitarra, insiema al flauto dolcissimo di David Longdon e al pianoforte dell'ospite Toni Muller. Un vero gioiellino, che nell'impasto vocale può ricordare vagamente certe cose dei 10cc. L'altro momento di rilievo è l'apertura di "Master of Time": qui la voce solista di Longdon recupera il suo timbro più tipico in un testo accorato venato di rimpianto e nostalgia, mentre la scrittura musicale, più variegata, è bilanciata tra rallentamenti e riprese, con la batteria di Nick D'Virgilio e la chitarra solista protagoniste di un arazzo corposo dove trovano posto ancora il flauto e il mellotron in un bellissimo crescendo d'intensità. "Fat Billy Shouts Mine" è invece tra i pezzi più dinamici, dalla ritmica mordente, pur aprendosi con delicati arpeggi acustici s'una scena evocativa di mare e sole per raccontare la morte di un celebre portiere di calcio inglese del primo novecento: il canto e la concatenazione vivace tra ritmo e pause ad effetto ricorda da vicino i maestri Genesis, ma il suono caratteristico garantito dall'accordion e poi uno smagliante assolo tastieristico di Martin Orford sono i tratti veramente distintivi del brano. Da notare che la traccia doveva far parte dell'album precedente, ma per mancanza di tempo ne restò esclusa: in effetti riecheggia da vicino l'atmosfera di "The Underfall Yard", rispettando in pieno le migliori qualità del gruppo di Bournemouth. Vibrafono, flauto e una chitarra carica di effetti aprono le danze in "Brambling", frantumata ancora da un sostenuto gioco ritmico, mentre la voce si esprime in ariose armonie: la chitarra solista ha qui un ruolo più incisivo e alcune coloriture jazz a tratti, con lo sfondo sontuoso del mellotron a incorniciare l'evoluzione del pezzo. E' un altro episodio corposo, timbricamente ricco e generoso secondo lo stile della band. Dove i Big Big Train confermano comunque tutto il loro potenziale sonoro, per scrittura e abilità tecnica, è nella conclusiva suite intitolata "The Wide Open Sea", che scorre fluida e intensa per tutti i suoi 18 minuti scarsi, senza alcun punto debole. Probabilmente, anzi, si tratta di una composizione destinata a rimanere tra i vertici raggiunti da Greg Spawton e compagni. Se il testo è ispirato all'ultimo viaggio del famoso chansonnier Jacques Brel, la costruzione musicale è magnifica, per come sa tenere insieme arie retrò, passaggi romantici e spunti rock di grande impatto. Persuasiva e seducente la voce di Longdon, complessa ma fascinosa la resa strumentale, con un flauto che incanta, il sinfonismo struggente del mellotron, la chitarra pirotecnica di Dave Gregory che sale in cattedra e un finale potente che trascina con la sua rapinosa forza espressiva. Un suggello di classe superiore per un altro capitolo eccellente firmato Big Big Train: "Far Skies Deep Time", infatti, è davvero un disco imperdibile, non solo per chi già li ama, ma soprattutto per quanti ancora non li conoscono. Perché insomma, al di là dei generi e dei gusti personali, una musica così bella non può e non deve restare un ristretto privilegio di pochi appassionati, come accade troppo spesso: sarebbe un vero peccato. ![]() Nichelodeon - "Il gioco del silenzio" (Lizard, 2010) Ci sono esperienze artistiche che è difficile o meglio ancora inutile classificare, talmente lasciano spiazzati per una ricchezza espressiva che appare inafferrabile. Una volta superata questa iniziale difficoltà, è possibile però aprirsi ad orizzonti nuovi e insospettabili: è appunto quello che ho pensato al primo approccio con il progetto Nichelodeon, gruppo milanese che da anni porta avanti un originale percorso multimediale a cavallo tra musica, arti visive e teatro, ma che approda solo ora al suo primo disco di studio, dopo un album dal vivo come "Cinemanemico", realizzato nel 2008. ![]() Psicotropia - "Psicotropia 3" (Luna Negra, 2010) Questo trio spagnolo, messo insieme nel 1999 a Madrid, prosegue la sua parabola artistica a tre anni dal secondo album "Grog", offrendo un saggio della sua ambiziosa ricerca sonora che fin dall'inizio, per citare quanto scritto nella pagina ufficiale del gruppo, si propone di lavorare s'un progetto "sperimentale e d'avanguardia, in alternativa all'attuale stagnazione di idee e valori nel mondo del rock." Un programma decisamente impegnativo. Areknamés - "In Case of Loss..." (Black Widow, 2010) Gli Areknamés, impersonati dal tastierista, cantante e compositore Michele Epifani, arrivano al terzo appuntamento discografico di studio (a parte si colloca "Live at Burg Herzberg Festival 2007") che rappresenta forse il loro vertice, dopo i pur buoni responsi delle prove precedenti. The Dreaming Tree - "Progress Has No Patience" (Autoproduzione, 2010) Questa band inglese di Wolverhampton arriva al secondo disco, dopo "Grafting Lines and Spreading Rumours", pubblicato nel 2007. Si tratta di un quintetto organizzato secondo una formula piuttosto classica: quattro strumentisti (chitarra, basso, tastiere, batteria) e un cantante solista come Chris Buckler, davvero bravo a valorizzare il lavoro dei compagni con la sua versatile performance. Argos - "Circles" (Musea, 2010) Lo spirito della vecchia Canterbury, e del più raffinato progressive britannico col suo nobile retaggio musicale, rivive ancora in qualche giovane formazione devota alle sonorità d'annata: è appunto il caso degli Argos, una band tedesca che arriva da Mainz, e che pubblica ora un album come "Circles", seconda uscita dopo l'esordio dello scorso anno. Conqueror - "Madame Zelle" (Ma.Ra.Cash Records, 2010) Questa formazione messinese, che ha fatto il suo esordio discografico nel 2003, arriva oggi al quarto album di studio a tre anni dal precedente "74 giorni", confermando di essere ormai una solida realtà della scena prog italiana. Vanno anzitutto sottolineate un paio di novità nell'organico del quintetto, vale a dire l'ingresso di Gianluca Villa al basso e del nuovo chitarrista Mario Pollino, che non modificano però gli equilibri di base del gruppo.
La Maschera Di Cera - "Petali di fuoco" (Aereostella/Edel, 2010) A quattro anni da "Luxade", la Maschera di Cera, uno dei molti progetti capitanati da Fabio Zuffanti, ritorna con questo quarto album di studio che, fin dal primo ascolto, appare come una summa semplificata dei lavori precedenti. C'è anche da sottolineare l'ingresso in formazione di un chitarrista di ruolo come Matteo Nahum, che contribuisce a disegnare un sound forse più aderente al concetto di rock-band propriamente detta. PBII - "Plastic Soup" (Autoproduzione, 2010) Dietro la sigla apparentemente inedita per la scena progressive, si cela in realtà un gruppo olandese degli anni Settanta-Ottanta, la Plackband, nel quale suonavano tre degli attuali membri dei PBII: nel 2008, data della rifondazione, il quartetto è stato poi completato con l'arrivo del nuovo bassista Harry den Hartog. Il primo risultato discografico della formazione di Den Haag è appunto questo nuovo album dal curioso titolo "Plastic Soup", che merita subito una spiegazione. From.uz - "Seventh Story" (10t Records, 2010) Giunti al terzo album della loro carriera, cominciata nel 2004, gli uzbeki Fromuz hanno voluto sottolineare la loro origine modificando graficamente il nome in From.uz: e a ragione, direi, visto che molto spesso anche nel circuito del prog è difficile uscire dagli stereotipi. Sapere che anche nella remota Tashkent, insomma, si può suonare così bene è un altro punto a favore della cosiddetta globalizzazione che investe ogni espressione culturale, rock incluso. |
Big Big Train - "The Underfall Yard" (English Electric Recordings, 2009) Il seme del prog classico seguita a dare frutti che sembrano ancora robusti e attaversano indenni anche climi avversi alla musica più raffinata, come quello che stiamo vivendo. Ed ecco che può capitare d'imbattersi in dischi come l'ultimo dei Big Big Train, un band inglese indipendente, che dunque si produce da sola, ormai giunta alla sua sesta prova discografica. In effetti, al trio di base bisogna aggiungere un vasto stuolo di strumentisti ospiti che contribuiscono quasi in ogni brano ad arricchire di sfumature le musiche firmate da Spawton (chitarre, tastiere, basso), e arrangiate con Andy Poole (basso e tastiere) e David Longdon (voce e flauto). In particolare, è negli episodi più estesi del disco che la struttura aperta del gruppo inglese si rivela vincente. Il suono finisce per dare l'idea di un rock sinfonico quasi orchestrale, che rimpolpa i temi portanti attraverso elaborati passaggi successivi: ad esempio "Victorian Brickwork", una dinamica escursione rock solida e cangiante insieme, con morbidi impasti vocali e intervalli di synth e chitarra elettrica, che sfocia in un maestoso finale dominato dai fiati, con la cornetta di Rich Evans in testa. Da brividi. Anche la lunghissima title track, di oltre venti minuti, esalta la struttura sinfonica del gruppo: è veramente notevole la disinvoltura con la quale l'incalzante scansione ritmica garantita dalla batteria di Nick D'Virgilio si accompagna al lavoro complesso e rifinito delle tastiere (mellotron e synth soprattutto), della chitarra e quindi della corposa sezione fiati, in una successione di tonalità epiche e drammatiche, senza peraltro che venga mai meno l'unità profonda del pezzo. Una prova magistrale, che certifica il valore della band, con una menzione speciale per la voce eclettica di David Longdon, interprete di prim'ordine e sicuramente decisivo nell'economia dell'intero album. Oltre al succitato Rich Evans, altri ospiti degni di menzione che affiancano il nucleo dei Big Big Train sono senz'altro il chitarrista Dave Gregory, eccellente solista soprattutto in "Master James of St. George" e "Last Train", e poi il violoncellista Jon Foyle, che col suono lamentoso del suo strumento conferisce alla musica quel tratto malinconico e uggioso davvero molto "british" che fa un po' da filo rosso di tutta la sequenza: cito per tutti "Winchester Diver", episodio che viaggia davvero in una dimensione sospesa, grazie anche all'ottimo flauto di Longdon. Evocativo e romantico, nostalgico a tratti, ma anche capace di mescolare le carte con sapienti incursioni nei territori post-rock e fusion, "The Underfall Yard" non presenta praticamente punti deboli. Il particolare fascino sprigionato dalla musica è probabilmente anche un riflesso delle belle liriche scritte da Spawton, che sembra aver attinto in pari misura a vecchie cronache di età vittoriana e alle proprie vicende biografiche, in riferimento soprattutto al legame con un fratello scomparso. Di qui, forse, l'impronta vagamente decadente di questo disco davvero bello e prezioso: un vero gioiello che il progressive britannico di oggi, per fortuna, è ancora capace di regalare a chi ha orecchie, e cuore, per intendere. Probabilmente una delle migliori realizzazioni prog del 2009. ![]() Gan Eden-Il Giardino delle Delizie - "Ritratto di ballerina" (AMS/BTF, 2009) Unico titolare del marchio Gan Eden-Il Giardino delle Delizie è Angelo Santo Lombardi: non una band dunque, ma un progetto solista nel senso più pieno del termine, dato che il musicista scrive tutte le parti strumentali, suonando in prima persona le tastiere, e affidando al solo Gabriele Paganoni chitarra, batteria e basso . ![]() ![]() Raven Sad - "We Are Not Alone" (Lizard Records, 2009) Dietro la sigla Raven Sad c'è un solo musicista, ovvero il pratese Samuele Santanna, che con "We Are Not Alone" arriva al suo secondo disco dopo l'esordio di "Quoth". I suoi riferimenti dichiarati sono le sonorità space-rock dei Settanta, inclusi i corrieri cosmici, e un prog atmosferico, liquido e vagamente "ambient", nel quale elettronica, suoni campionati e strumentazione analogica cercano una personale convivenza. Riuscita? ![]() Astra - "The Weirding" (Rise Above, 2009) In tema di novità discografiche, in ambito prog, ci si può imbattere in almeno tre categorie di proposte: la prima, e più diffusa, è quella che potremmo definire una sorta di "clonazione" delle sonorità classiche del genere; all'opposto, in minoranza, stanno le proposte che si sforzano di rinnovare la formula vintage più nota e guardare avanti; da ultimo stanno invece soluzioni a metà tra le une e le altre, che cioè pur facendosi ancora interpreti di certi stilemi d'annata, denotano al tempo stesso una loro personalità. ![]() Viima - "Kahden Kuun Sirpit" (Viima Records, 2009) I finlandesi Viima, che giungono alla seconda prova discografica dopo l'esordio di "Ajatuksia maailman laidalta" (2006), sono a mio avviso l'esempio migliore di quello che sostengo da tempo parlando delle nuove band che fanno progressive. Perché qui c'è un dischetto di poco superiore ai 40 minuti, ma in questa breve sequenza musicale non troverete mai una nota fuori posto e, soprattutto, non avrete l'impressione di una musica che gira a vuoto: i cinque componenti del gruppo di Turku hanno realizzato un album davvero bello, dove si apprezza la compiutezza di uno stile mai ridondante, che matura assecondando le proprie inclinazioni stilistiche invece che inseguire suggestioni sparse o facili formule di dubbio gusto. Beardfish - "Destined Solitaire" (Inside Out, 2009) Questo è il quinto album pubblicato dagli svedesi Beardfish, e pone alcuni interrogativi sull'identità musicale di una band che pure possiede indubbie qualità. Ubi Maior - "Senza Tempo" (AMS-BTF, 2009) Sono trascorsi quattro anni dal disco d'esordio degli Ubi Maior: "Nostos", pubblicato appunto nel 2005, rivelava una band molto interessante, alle prese con un rock progressivo che s'innestava abilmente, con piglio decisamente dark, sul ceppo della migliore tradizione italiana dei Settanta. Il risultato era notevole, ma disuguale, con qualche episodio slegato dal resto. Kotebel - "Ouroboros"(Musea Records, 2009) Questa band, fondata a Madrid dal tastierista venezuelano Carlos Plaza sul finire degli anni Novanta, giunge con "Ouroboros" al suo quinto album ufficiale. Rispetto al precedente "Omphalos" (2006) l'organico si è stabilizzato in un quintetto dove spicca la doppia tastiera, con Adriana Plaza accanto a Carlos, e mancano invece i fiati, come pure le parti vocali.
Arpia - "Racconto d'inverno" (Musea Records, 2009) Ci sono artisti che sfuggono alle definizioni, e sembrano concepire la loro creatività come un perenne divenire nutrito di suggestioni così variegate da spiazzare continuamente le attese. Credo proprio che Leonardo Bonetti, con i suoi Arpia, appartenga a questa meritoria schiera di musicisti. Wobbler - "Afterglow" (Termo Records, 2009) Questo secondo disco dei Wobbler, band norvegese formata nel 1999, si pone senza mezzi termini nel solco del prog sinfonico-barocco dei Settanta: è una di quelle operazioni che presentano sempre una certa ambiguità, e fanno anche parlare di formule stantie che andrebbero rinnovate, per non scadere nella pura archeologia musicale. Delirium - "Il nome del vento" (Black Widow, 2009) Due anni fa, quando uscì un disco come "Live-Vibrazioni notturne" degli storici Delirium, avevo scritto che certi ritorni sono da ponderare con calma, prima di entusiasmarsi sull'onda della nostalgia. L'album era fresco e molto piacevole, ma la riprova, come sempre, poteva venire solo da un disco con nuovo materiale. "Il nome del vento" è appunto l'attesa prova del nove sul senso di questa reunion del gruppo genovese: ed è davvero una bella conferma, devo dire. Pure Reason Revolution - "Amor Vincit Omnia" (Superball Music, 2009) Non si può mai stare tranquilli, maledizione: nell'ambito della musica che ci ostiniamo a chiamare "progressive" avvengono improvisi cataclismi e ce ne accorgiamo solo a cose fatte. Ti aspetti da un certo gruppo un determinato disco ed eccoti spiazzato da qualcosa di completamente diverso. Non è affatto un male, in linea di massima, ma il dubbio che si affaccia è il seguente: sei tu che sei rimbambito, perso dietro le tue annose formule musicali, o qui c'è qualcuno che se ne frega di ogni etichetta, legittimamente, per suonare solo la sua musica? Ovviamente, delle due ipotesi, l'una non esclude l'altra. Nemo - "Barbares" (Quadrifonic, 2009) I francesi Nemo non sono certo dei novellini, ma personalmente non li conoscevo prima d'imbattermi in questo loro ultimo disco. Si tratta di un quartetto attivo già dal 2000 e che in patria vanta ormai una certa notorietà: "Barbares" potrebbe riuscire a consolidare la loro reputazione anche negli ambienti del prog internazionale, ma entriamo nel merito. Umphrey's McGee - "Mantis" (Sci Fidelity Records, 2009) Sul fenomeno delle "jam bands" in Italia non si sa molto, ma negli Stati Uniti esiste un mercato molto prospero per questo genere. Si tratta essenzialmente di gruppi che nei loro concerti preferiscono improvvisare a partire da pochi schemi standard, sviluppando quindi uno stile molto flessibile e ricco di sapori diversi. Nato nell'ambito del jazz classico, il fenomeno riguarda oggi anche il rock: Umphrey's McGee è appunto una band originaria di Notre Dame, nell'Indiana, che s'inserisce nel filone in un modo tutto suo. Matthew Parmenter - "Horror Express" (Strong Out Records, 2008) Matthew Parmenter è noto soprattutto come voce solista dei Discipline, band americana spesso classificata come "retroprog" per i suoi riferimenti agli anni Settanta. La stessa etichetta potrebbe attaccarsi al cantante in questa sua seconda prova da solista, dopo "Astray", pubblicato nel 2004. Dirò di più: a tratti sembra davvero di ascoltare Peter Hammill coi suoi Van Der Graaf Generator, e questo può essere irritante per chi pretende da un artista una sorta di immacolata unicità creativa. Ammesso e non concesso che una tale unicità esista davvero, ovviamente. Universal Totem Orchestra - "The Magus" (Black Widow, 2008) Il progetto Universal Totem Orchestra arriva al suo secondo capitolo discografico, ben nove anni dopo l'esordio di "Rituale alieno" (1999). Di quella prima esperienza non sopravvivono nel gruppo attuale che due soli musicisti su sei: il batterista Uto G. Golin e la cantante Ana Torres Fraile. Pandora - "Dramma di un poeta ubriaco" (AMS/BTF, 2008) Un altro gruppo italiano che cerca fortuna nel solco del progressive anni Settanta: i Pandora sono piemontesi e si formano nel 2005, arrivando solo ora alla prima realizzazione discografica. Mogwai - "The Hawk Is Howling" (Pias, 2008) Il nuovo disco dei Mogwai arriva dopo una serie di prove anomale, come il progetto "Zidane: A 21st Century Portrait", che a sua volta faceva seguito ad un album a mio avviso interlocutorio come "Mr Beast" (2005): era dunque lecito attendere con grande curiosità la mossa successiva del gruppo. Le Orme - "Live in Pennsylvania" (Sonny Boy/Self, 2008) L'unico album dal vivo a nome delle Orme, fino ad oggi, era il famoso "In concerto", registrato in maniera quasi amatoriale nel 1974. Era ora di dare a quel documento tutt'altro che impeccabile un seguito più degno, e il gruppo veneto ha pensato allo scopo di utilizzare lo show che ebbe per teatro il NearFest edizione 2005, uno degli appuntamenti più noti al mondo per chi segue il progressive. Sigur Rós - "Með suð í eyrum við spilum endalaust" (Emi, 2008) I Sigur Rós non tradiscono mai le attese, e tre anni dopo "Takk" si ripresentano con un nuovo lavoro che pur confermandone l'indiscutibile magia sonora, offre qualche spunto nuovo. Hostsonaten - "Winterthrough" (AMS/VM2000, 2008) Il prolifico genio di Fabio Zuffanti prosegue la sua opera a largo raggio nel campo della scena prog contemporanea, e con gli Hostsonaten, una delle sue molteplici incarnazioni, giunge al secondo appuntamento del "ciclo delle stagioni", dopo il bellissimo "Springsong" (2002). Sensitive To Light - "From the Ancient World" (Cyclops, 2008) Nel panorama del prog attuale convivono ormai tradizione e sperimentazione, spesso fuse in una varietà di stili e riferimenti che da sola racconta molto bene il lungo percorso di questa musica dal suo primo apparire ad oggi. Akt - "Déntrokirtòs" (Autoproduzione, 2007) Questo disco è stato concepito e realizzato già da qualche tempo, ma poco importa, poiché si tratta di uno dei progetti musicali più personali che ho avuto modo di ascoltare ultimamente. Ed è ancora una volta singolare che si tratti di un'autoproduzione, non inserita cioè nel circuito ufficiale della distribuzione discografica: ma forse, viene da pensare, era l'unico modo per questo trio bolognese di esprimersi compiutamente, senza piegarsi a certe logiche di mercato. The Mars Volta - "The Bedlam in Goliath" (Universal, 2007) Rieccoci davanti ai Mars Volta, che sfornano un nuovo capitolo della loro giovane ma già impressionante discografia: ogni nuova uscita della band di ispano-americani ha finora lasciato il segno in pubblico e critica, sia pure con effetti diversi, e lo stesso sta avvenendo con quest'ultimo prodotto. Radiohead - "In rainbows" (Autoproduzione, 2007) Dell'ultimo parto di Yorke e compagni si è parlato soprattutto per l'azzardo produttivo della band inglese: il cd, prodotto in proprio, è stato infatti messo direttamente online sul sito ufficiale ed era possibile a tutti scaricarlo, anche gratuitamente. Un vero salto nel buio per tagliar fuori la discografia ufficiale, puntando solo sul rapporto diretto con la sterminata platea dei fans. Com'è andata la scommessa, cifre alla mano, lo sapremo tra poco, ma qui vorrei limitarmi invece a parlare dell'aspetto creativo della faccenda. Nema Niko - "Meccaniche di pensiero" (Lizard, 2007) Sotto la sigla Nema Niko opera da una decina d'anni una formazione veneziana già titolare di due dischi apprezzati dalla critica e dalla platea più attenta alle novità. Robert Wyatt - "Comicopera" (Domino, 2007) Di Robert Wyatt è quasi inutile ripercorrere la lunga storia musicale che conduce fino a quest'ultimo atto discografico: è, semplicemente, uno dei padri riconosciuti della musica inglese più alternativa, sin dai tardi anni Sessanta. Specie da solista, ogni sua realizzazione ne ha confermato il genio peculiare, distillato con la sobrietà di chi si esprime solo quando ha qualcosa di nuovo da dire. Solar Project - "Chromagnitude" (Musea, 2007) Nati alla fine degli anni Ottanta dalle ceneri di una formazione precedente chiamata Solar System, oggi i cinque Solar Project sono una band tedesca piuttosto conosciuta che arriva al settimo appuntamento discografico. Il loro è un sound che si richiama esplicitamente a certo space-rock d'annata, contaminato com'è giusto da sonorità elettroniche moderne e una certa influenza del post-rock più raffinato. New Trolls - "Concerto Grosso- The seven seasons" (Aereostella/Edel, 2007) Forse era inevitabile che l'ennesimo ritorno discografico degli storici New Trolls dovesse riallacciarsi ai loro dischi più noti, e soprattutto al primo "Concerto grosso", registrato nel lontano 1971 e diventato nel tempo un vero classico del progressive italiano, in particolare di tutto quel filone di ricerca nato sotto il segno della contaminazione. Bisogna comunque puntualizzare alcuni dettagli di non poco conto per rimarcare che si tratta pur sempre di due operazioni molto diverse. Marillion - "Somewhere else" (Intact Records, 2007) A tre anni di distanza dalla bella prova di "Marbles", probabilmente uno dei momenti più alti della loro recente discografia, i Marillion si ripresentano con un disco piuttosto controverso: le dieci tracce che lo compongono, infatti, sono chiaramente orientate a un progressive più lineare nelle soluzioni strumentali, spesso caratterizzato da un nucleo melodico di sicura presa, ma anche da qualche momento meno riuscito. I Conqueror, gruppo di Messina, giungono al secondo appuntamento discografico dopo "Storie fuori dal tempo" (2005): rispetto a quella uscita, l'organico è rimasto identico, eccezion fatta per il nuovo bassista Daniele Bambino che ha rilevato Fabio Ucchino. Siamo dunque di fronte a un quintetto ormai discretamente affiatato, che dimostra di aver raggiunto in quest'album una certa maturità e una convincente identità sonora. La Torre dell'Alchimista - "Neo" (Ma.Ra.Cash Records, 2007) Questo gruppo di origini bergamasche arriva al suo terzo album dopo l'esordio del 2001 e il live "USA...You know?", registrato al prestigioso NearFest del 2002, ma pubblicato solo nel 2005. Rush - "Snakes & Arrows" (Atlantic, 2007) Ci sono formazioni che non sembrano patire il tempo che passa, e anche se i fans si aspettano sempre l'ennesimo capolavoro, non lasciano mai davvero delusi nelle loro nuove uscite. I Rush, un trio canadese che ha cominciato la sua avventura musicale negli anni Settanta sotto il segno del rock più duro per evolversi rapidamente in maniera più originale, sono appunto tra queste realtà. Alex Carpani - "Waterline" (Cypher Arts, 2007) Il caso di Alex Carpani, tastierista e compositore in buona parte autodidatta, con interessi che spaziano tra l'elettronica, il jazz e il progressive, fa pensare che in Italia continui a proliferare un gran numero di personaggi di grande talento che aspettano ancora il giusto riconoscimento. Delirium - "Live / Vibrazioni notturne" (Black Widow, 2007) Davanti a certi ritorni di fiamma, ammettiamolo, c'è sempre il sospetto dell'operazione biecamente commerciale, e molte volte è stato proprio così, con prodotti decisamente scadenti che hanno finito per sporcare l'immagine di questo o quell'artista. Per i Delirium sospendiamo per ora il giudizio, soffermandoci su questo disco dal vivo, registrato la scorsa estate, che segna il loro ritorno discografico, e in attesa magari di un seguito a base di nuovo materiale. Knight Area - "Under a new sign" (Laser's Edge, 2007) A tre anni di distanza dall'esordio di "The sun also rises", questa formazione olandese si ripresenta con un album nuovo di zecca che ribadisce i suoi punti fermi. Fedele più che mai a certo prog romantico e favolistico, aggiornato secondo i dettami del cosiddetto neo-prog anni Ottanta, il gruppo guidato dal tastierista Gerben Klazinga mette insieme sette tracce che non si sforzano affatto di mutare pelle, e anche se qua e là la ritmica e gli arrangiamenti si fanno più serrati e incisivi, non c'è dubbio che il disco sia destinato soprattutto a quanti hanno nel cuore la lezione di Genesis o Marillion. Xang - "The last of the lasts" (Galileo Records, 2007) Questo quartetto francese di Cambray torna alla ribalta dopo circa otto anni dal disco d'esordio ("Destiny of a dream", 1999) con un ambizioso progetto musicale dedicato alla prima guerra mondiale. Già la foto di copertina, una lunga distesa di croci presa in un cimitero di caduti nel conflitto, ci porta nello spirito dell'album, come pure le cifre, i dati e le altre immagini contenute nel corposo booklet. Ghost - "In stormy nights" (Drag City, 2007) Evidentemente la musa psichedelica non è mai morta e ha fatto proseliti anche in Giappone, come dimostra l'ultimo disco di questa band nipponica giunta ormai all'ottavo appuntamento discografico. Pain Of Salvation - "Scarsick" (Inside Out, 2007) La Svezia è da qualche anno uno dei paesi leader della produzione discografica, vista la quantità e la qualità delle sue proposte. Nell'ambito del prog-metal, non c'è dubbio che una delle band di punta siano proprio i Pain Of Salvation, che giungono al loro sesto album con questo "Scarsick", un lavoro ambizioso e per niente semplice da inquadrare. PFM - "Stati di immaginazione" (Sony/BMG, 2006) Dopo il disco-evento "Dracula", l'opera rock del 2005, la Premiata Forneria Marconi si è lanciata in un'altra impresa inedita nella sua già lunga storia. Stavolta si trattava di mettere a confronto i suoni rock del gruppo con le immagini di otto film molto diversi tra loro, quasi sempre tratti da collezioni e archivi privati, scelti con l'aiuto della manager Iaia De Capitani. Frost - "Milliontown" (Inside Out, 2006) Non si sa bene come scrivere una recensione s'un gruppo esordiente che in realtà, a quanto ne so, è di fatto già sciolto. Sta di fatto che "Milliontown" è un disco di tutto rispetto, e reclama comunque la nostra attenzione. A guidare il progetto è (anzi, era) il tastierista e cantante Jem Godfrey, noto fin qui soprattutto come produttore di molto pop inglese di successo, che però, evidentemente, nutriva da tempo obiettivi più ambiziosi: lo testimonia la verve dei sei brani che compongono l'album, un concentrato di moderno prog-rock suonato con grinta e apprezzabile coesione, senza grossi punti deboli. Il quintetto guidato da Godfrey vanta del resto alcuni tra i più noti strumentisti del panorama britannico: John Jowitt (basso) e Andy Edwards (batteria) vengono dagli IQ, mentre il chitarrista John Mitchell ha suonato con Arena e Kino. Il suono dei Frost ricorda perciò le sonorità di altre band inglesi degli ultimi tempi, come gli stessi Porcupine Tree, per la capacità di far convivere atmosfere soft e quasi intimiste, ad esempio in "Snowman", con le architetture più complesse di una musica sempre interessante, mai banale nelle sue diverse tonalità. L'attacco di "Hyperventilate", con il pianoforte classicheggiante di Godfrey al centro d'uno scenario rarefatto e uggioso, fa da apripista per il rock energico che si sviluppa poi sulla bella chitarra solista di Mitchell e la possente sezione ritmica: questa alternanza, con gli inserti di piano a fare da raccordo, cattura la cifra dell'intero disco. "No me no you", che sfodera ancora una chitarra ruggente sincopata insieme al canto, mette anche in luce una discreta vena melodica, ben amalgamata nel flusso elettronico del pezzo. E' forse l'episodio più aggressivo della sequenza, mentre un brano come "The other me", col suo approccio altrettanto metallico, è ancora innervato da inopinate intromissioni vocali che alleggeriscono la torrida atmosfera strumentale. Nella lunga "Black light machine" il gruppo mostra un lato più composito, con synth e chitarra che dettano legge all'interno d'un contesto più arioso, punteggiato dal consueto break ritmico che sposta il pezzo verso sonorità più "heavy". Il meglio del disco sta proprio nella coda della title-track, oltre ventisei minuti di rock e melodia portate a un livello d'integrazione davvero notevole: il pianismo delicato di Godfrey, il grande lavoro di synth e chitarra che si lanciano insieme in lunghe fughe strumentali, ben scandite dall'ottimo duo ritmico, e la vocalità calda e sensuale del leader, chiudono in grande stile un disco ben suonato, ma anche congegnato con intelligenza. Pur senza presentare nessuna novità sconvolgente, insomma, "Milliontown" poteva essere il primo passo per un cammino discografico di sicuro interesse, ma rimarrà solo uno dei tanti "figli unici" nella lunga storia del rock. Sinceramente è un peccato. The Mars Volta - "Amputechture" (GSL / Universal, 2006) Ecco qua il nuovo, attesissimo lavoro di questo gruppo americano dalla forte impronta latina (tra Messico e Portorico), come testimoniano i nomi dei due fondatori responsabili della musica e dei testi, Omar Rodriguez-Lopez e Cedric Bixler Zavala. Sulle etichette da affibbiare alla musica dei Mars Volta il dibattito infuria fin dall'esordio di "De-loused in the comatorium" (2003): progressive, post-rock, psichedelia, fusion? Se ne sentono di ogni tipo, ma l'unica cosa certa è che non c'è oggi un'altra band con il potenziale sonoro e la personalità debordante di questi "latinos" trapiantati negli Stati Uniti, capaci di attingere alle più diverse suggestioni, e non solo musicali. Questa molteplicità di influenze non può non avere un impatto devastante sull'ascoltatore, ogni volta irretito e poi sviato continuamente dentro una centrifuga rock che alle volte appare indigeribile, ma richiede solo un ascolto diverso. Rispetto a "Frances the mute", ultimo disco di studio, gli otto episodi che compongono "Amputechture" tengono sicuramente botta, senza arretrare di un centimetro, eppure dopo la sbornia del primo ascolto, sembra di intravedere qua e là una maggiore disponibilità alla melodia, che permette di far emergere meglio l'anima variegata del gruppo. Un'anima viscerale e iperrealista, con liriche imbottite di slang e simbologie di strada, neologismi arditi e tortuose metafore intrise di uno stravolto espressionismo di non facile lettura, eppure affascinante e aperto a ogni interpretazione. Maestri dell'ambiguità, perchè consapevoli che la realtà "è" ambigua, i Mars Volta possono dunque lasciare il segno con la vischiosa psichedelia di "Vicarious atonement", posto in apertura del disco, e poi stordire con il rock abrasivo di "Tetragrammaton" e "Meccamputechture", potenti manifesti di musica inafferrabile, sanguigna e camaleontica, dove la voce esasperata di Bixler Zavala cattura efficacemente il pluralismo emotivo che è la vera cifra della band. Dietro i riff insistiti della chitarra e il timbro caldo dell'organo, spicca il superlavoro di una sezione ritmica instancabile, che sembra ogni volta minare alle fondamenta il disegno melodico per indicare continuamente altre vie di fuga, nuovi percorsi emotivi. Le dissonanze e il furore visionario di questi brani trovano però il loro contraltare in splendidi inserti melodici come "Asilos Magdalena", un atto d'amore postumo cantato in spagnolo, con la chitarra acustica che culla una voce ripiegata su se stessa. "Viscera eyes", esattamente all'opposto, è un hard-rock ben teso sulle chitarre e il basso che pulsa, con l'aggiunta dei fiati di Terrazas-Gonzales in funzione drammatica. Un'altalena frastornante di toni e atmosfere sempre mutevoli, come si vede, che si placa ambiguamente nella conclusione di "El ciervo vulnerado": un dissanguamento lento, senza ritorno, incorniciato dai fiati e da suoni distorti, incluso il sitar, che chiude un altro capolavoro anomalo, più che mai sfuggente a ogni definizione. Certo, se il termine "progressive" ha ancora il senso originario di musica eternamente "in progress", ai Mars Volta si attaglia come un guanto, ma chi odia certe etichette troverà comunque pane per i suoi denti. Le formule critiche passano, ma i grandi dischi restano. Arpia - "Terramare" (Lizard / Andromeda, 2006) Fino a questo momento il nome degli Arpia, formazione romana che pure è attiva già da molti anni, è stranamente rimasto ai margini della scena rock italiana. In effetti, l'ultima (e prima) uscita discografica ufficiale, "Liberazione", risale al 1995, ma a giudicare da quest'ultimo lavoro il trio capitanato da Leonardo Bonetti non ha speso male il lungo periodo di silenzio. "Terramare" è infatti un disco affascinante e complesso, nelle intenzioni come nei risultati espressivi, che denota soprattutto il meritorio tentativo di superare gli steccati e le formule musicali più risapute, a costo di disorientare il pubblico meno attento. L'intento dichiarato è quello di esplorare il mondo dell'eros come si è venuto affermando nel corso dei secoli, attraverso linguaggi e contesti diversi che vanno dalla poesia medievale ai simboli più mercificati dei nostri giorni: tutto questo è appunto condensato nel titolo, che coniuga due elementi dell'esperienza fisica del mondo, escludendo non a caso quello più spirituale, il cielo, perché considerato qui una sovrapposizione "culturale" estranea alla dialettica erotica più ancestrale. Intorno a questo nucleo fondamentale, gli Arpia sviluppano dodici tracce di sicura presa emotiva, nelle quali l'ossatura strumentale da power-trio classico (come nell'apertura di "Bambina regina") è rinsanguata dall'efficacissimo timbro scuro delle tastiere del cantante e bassista Bonetti. In un continuo gioco di contaminazioni e rimandi si apprezzano riletture di antica poesia amorosa, come quella di Rinaldo D'Acquino (nella title-track di chiusura) o di Cielo D'Alcamo ("Rosa"), dove il tipico contrasto maschile-femminile si esprime nel felice contrappunto delle voci di Bonetti e dell'incisiva Paola Feraiorni, ma anche originali innesti di lirica nel più scabro scenario del quotidiano, come nella splendida "Luminosa", che decontestualizza i versi di Guido Cavalcanti. Una sorta di cortocircuito di tempi e codici espressivi che stona sulla carta, ma conquista invece all'ascolto grazie all'abile miscela delle voci e all'eclettismo vincente delle trame strumentali. Nel mezzo dei due poli si collocano episodi di sofisticato dark-progressive, dove la tensione tra suoni e testo raggiunge vertici di grande suggestione: cito in particolare "Diana", il crescendo emotivo di "Mari" e la bellissima "Umbrìa", con la chitarra di Fabio Brait in evidenza e il canto emozionale di Leonardo Bonetti sempre in grado di esprimere tutta la complessa materia sentimentale che sta alla base dell'album. Il segreto di questa musica sempre inafferrabile è proprio la sua disponibilità a non chiudersi in un cerchio espressivo dove lo stile diventa fatalmente "maniera", lasciando invece ogni volta aperta la porta ad assonanze e influssi che compongono alla fine un mosaico sonoro, screziato e rilucente, che lascia indubbiamente il segno. Non tutto può tornare allo stesso modo, certo, eppure la duttile vena di Bonetti e compagni, che cerca una via impervia ma personale tra le asprezze di "Metrò" e la sensuale tenerezza di "Piccolina", quando potrebbe agilmente collocarsi in un più decifrabile hard-rock di ottimo livello ("Monsieur Verdoux", ad esempio) merita a mio parere la massima attenzione. "Terramare" è senza dubbio un ascolto diverso, imperdibile soprattutto per chi ama farsi sorprendere ancora da quella strana, multiforme cosa chiamata rock. Trespass - "Morning lights" (Musea / 8th Note, 2006) Sono passati quattro anni dall'esordio discografico di questo trio di Gerusalemme: "In haze of time" era un album sicuramente brillante, sia pure nel solco di certe sonorità prettamente seventies, e ora il gruppo guidato dal tastierista Gil Stein sembra confermare più che mai quella prima impressione positiva. In effetti, con "Morning lights", il nuovo lavoro da poco pubblicato, la band israeliana sembra quasi voler rimarcare come certe influenze classiche e sinfoniche non fossero un passeggero innamoramento, quanto una cifra stilistica basilare per il proprio discorso musicale. Il patrimonio della musica barocca, evidentemente, sta soprattutto nel background del tastierista, e da qui discende come logica conseguenza un disco come questo, che offre cinque episodi improntati tutti a un'unica fonte ispirativa. Splendida l'apertura della breve "Song of winds", con echi di danze rinascimentali e barocche, ottimamente distribuite sulle tastiere di Stein in un impasto accattivante. E' il preludio migliore al vero pezzo forte del disco, la lunga title-track, coi suoi ventuno minuti e passa. Si tratta di un assoluto gioiello, che farà felici in particolare coloro che portano nel cuore i maestri di certo progressive contaminato dei primi anni Settanta, Keith Emerson in testa. Qui però, a costo di inimicarmi qualche ultrà del maestro inglese, siamo perfino oltre: perchè alla vena fluente e immaginifica del tastierista, che si destreggia a meraviglia tra organo e synth, si affianca una formidabile sezione ritmica come quella formata da Gabriel Weissman (batteria) e Roy Bar-tour (basso). Entrambi non meno talentuosi del leader, si mostrano soprattutto capaci di rilanciare i temi tastieristici con slanci e cambi di tempo ficcanti, senza limitarsi a una mera funzione di accompagnamento. Il risultato è una composizione di eccelso livello, a volte perfino ridondante, dove il virtuosismo però non soffoca mai il flusso emotivo garantito dall'incessante tourbillon dei singoli temi proposti, che s'incrociano continuamente per arricchirsi e lievitare in una sequenza avvolgente di suggestioni sparse, unificate dai richiami onnipresenti alla sorgente classicheggiante di cui sopra. Le parti vocali in inglese, evocative e malinconiche, sono ben ricoperte dallo stesso tastierista, come avviene nell'altro brano cantato del disco, "Ripples". Lo stesso dinamismo, un ingrediente che pare iscritto nel DNA dei Trespass, caratterizza questa composizione che vede il consueto tour de force del duo ritmico e qualche parentesi più melodica lasciare poi spazio all'estro del tastierista, in bilico stavolta tra richiami colti e accenti decisamente fusion. Ecco, il vero punto di forza dei Trespass in fondo è questo: riuscire a far convivere con naturalezza squisite sonorità di stampo classicheggiante con la dirompente carica di una jam session prossima al jazz. Non è affatto impresa da poco. "Vivaldish", come dice il titolo, è una libera rilettura di un concerto per mandolino del maestro veneziano, mentre la chiusura di "Forest birds' fantasy" è uno strumentale più arioso, dove il gruppo sembra dialogare con i suoni della natura in una giocosa solarità risonante e finalmente placata. "Morning lights" è un disco coi fiocchi, che aggiorna il progressive d'annata con la verve di un gruppo che mostra di saper rinnovare quella tradizione senza rinnegarla, ma irrorandola con indubbio talento e un'ammirevole coesione di base. Consigliato.
Imagin'Aria - "Progetto T.I'.A." (MaRaCash, 2006) Questo è il quarto album degli Imagin'Aria, formazione italiana che mostra una certa evoluzione nei suoni, pur mantenendo una propria cifra riconoscibile. Come il titolo stesso lascia intuire siamo di fronte a un vero concept, ma di taglio fantascientifico, basato s'un racconto originale di Luca Milan, seconda chitarra del gruppo, che può essere scaricato dal sito ufficiale della band. Per farla breve, il nucleo della storia è il seguente: in un futuro imprecisato, il pianeta rischia di venir distrutto da un imperatore sconfitto ma dotato di risorse pericolose, e di qui nasce il progetto di raccogliere l'immenso patrimonio delle conoscenze umane per trasferirlo s'un altro pianeta abitabile. Racconto indubbiamente suggestivo, certo, ma come funziona tradotto in suoni? "Progetto T.I'.A." è un disco piuttosto sofisticato, ben architettato e prodotto, e con testi di buon livello quasi sempre capaci di aggirare il pericolo costante in certe operazioni: quello di una certa prolissa freddezza, dove si dice troppo e spesso a discapito della musica stessa. Il rock asciutto e dinamico degli Imagin'Aria fuga questo rischio, anche se ha il pregio di avvalersi qui, come nel precedente "Esperia", di consistenti iniezioni di tastiere e synth: il risultato è un progressive ben equilibrato tra i momenti caldi del racconto e quelli più evocativi. Non è un caso forse che i momenti più efficaci, almeno secondo me, siano quelli strumentali: di grande effetto l'apertura di "S. O. Seji", ad esempio, e poi ancora "Il peso della materia", ma soprattutto lo splendido frammento intitolato "Il nostro dolore", davvero intenso pur nella sua brevità, per l'ottima combinazione di basso e pianoforte. Nelle parti cantate la voce di Daniele Perico è abbastanza sensibile da restituire gli stati d'animo mutevoli del protagonista, Ledeo, alla guida della navicella che viaggia nel tempo, anche se non sempre ugualmente efficace in tutti gli episodi. Si tratta di semplici sfumature. Tra gli episodi più riusciti segnalo comunque "Tela bianca", e poi "Il volo di Ledeo", con la scansione rock delle chitarre in primo piano, fino a "Fusione", dove convivono al meglio gli accenti acustici più evocativi con il rock più duro, mentre in un brano come "Nel nero" il quintetto recupera un suono schiettamente metallico di forte impatto, dove si esalta la chitarra solista di Ivan Peasso. In un disco così equilibrato, nel quale si nota l'indubbia maturità di una ricerca musicale piuttosto coerente, lascia interdetti proprio il finale di "Anno zero": un testo fin troppo didascalico e una parte strumentale poco personale chiudono sottotono una sequenza ricca invece di bei momenti. Nonostante questo, "Progetto T.I'.A." è sicuramente una tappa fondamentale per gli Imagin'Aria, giusto punto d'incontro tra una musicalità genuinamente rock e le nuove, legittime ambizioni di una band in costante crescita.
La Maschera di Cera - "LuxAde" (Immaginifica, 2006) Il nuovo capitolo discografico della Maschera di Cera, formazione sempre capitanata da Fabio Zuffanti, si chiama "LuxAde" e pur confermando la ricetta di base ("continuare la gloriosa tradizione del rock progressivo italiano degli anni '70" nelle parole dello stesso bassista) si dimostra ben altro che la semplice ripetizione di una formula. Rispetto all'ultimo disco di studio, cioè "Il grande labirinto" (2003), va sottolineata la presenza del nuovo batterista Maurizio Di Tollo, e poi, cosa più importante, la rinuncia alla chitarra elettrica in organico, col conseguente spostamento degli equilibri musicali. A proposito di formule, comunque, a Zuffanti e compagni non si può certo imputare scarso coraggio, dato che il disco è sicuramente un progetto molto ambizioso, che porta le sue scelte ancora più in profondità. Diviso in due "programmi" distinti, il progetto "LuxAde" riassume già nel titolo la sua doppia valenza: un viaggio dalle tenebre alla luce, o se preferite dalla prigione dell'io alla conquista della libertà, con richiami anche espliciti alla favola di Orfeo ed Euridice, ma sempre lasciando briglia sciolta all'estro allegorico del leader. La prima parte del disco ("Programma I") è destinata forse a rimanere l'apice espressivo del gruppo genovese: la perfetta maturità degli impasti strumentali, che poggia sull'asse vincente costituito dal flauto ispirato di Andrea Monetti e le tastiere di Agostino Macor, si sposa magnificamente al canto solista di Alessandro Corvaglia, interprete sempre adeguato della complessa parte lirica. Siamo di fronte a un rock elegante di matrice sinfonica, ma anche ficcante e incisivo nei suoi cambi di tempo, nei quali si esalta il basso di Zuffanti e le spirali del flauto aprono continuamente scenari evocativi di grande suggestione. Se "Doppia immagine" è già un esempio eloquente delle capacità strumentali del gruppo, con l'efficace inserto a metà brano del sax di Monetti, "Un senso all'impossibile" potrebbe diventare un inno del nuovo progressive italiano: prima splendidamente aperto dal flauto e poi sincopato ad arte, con pause e ripartenze continue sull'organo e il moog di Macor, che rievoca davvero la gloriosa PFM degli inizi, il pezzo esalta finalmente anche il gusto per un rock più genuino e trascinante, potenzialmente devastante nelle esibizioni live. Un vero gioiello. "Orpheus" mostra il versante più acido di questo viaggio strumentale, con il canto inframmezzato dal grande lavoro di basso, flauto e un moog ancora vincente, e "Nuova luce" lo chiude alla grande, s'una nota sospesa cullata dal mellotron. Con la seconda parte del disco, le nove scene di "Enciclica 1168", Zuffanti ha puntato ancora più in alto, anche se in questo caso i testi, particolarmente oscuri, non si legano sempre a dovere al tessuto strumentale, ancora eccellente nel suo incedere drammatico. Resta però l'impressione di un gruppo ormai affiatato e brillante, dove ognuno ricopre con grinta e intelligenza il suo ruolo in vista del risultato complessivo, ed è appunto questo a fare di "LuxAde", prodotto con cura e passione da Franz Di Cioccio, uno dei dischi più belli e convincenti nel panorama rock italiano degli ultimi anni. Consigliato agli scettici come ai nostalgici, ma soprattutto a chi chiede alla musica qualcosa di più. October Equus - "October Equus" (MaRaCash, 2006) Un ascolto stimolante e insieme problematico quello degli October Equus, band spagnola che ha pubblicato questo suo primo disco con l'etichetta italiana MaRaCash. Sia lo stimolo che l'aspetto problematico riguardano proprio la buona riuscita dell'album che abbiamo di fronte: il quartetto iberico è talmente classico negli equilibri strumentali e nel timbro della musica proposta, da far pensare a uno sbaglio. Che sia, in realtà, un disco registrato anni fa che solo ora vede la luce? Sulle prime il dubbio viene, perchè le ascendenze e i richiami sono evidenti e molteplici: scampoli di prog barocco e dark, ben amalgamati e digeriti, certo, che sin dalle note dell'iniziale "Lupus in fabula" riportano alla mente nomi e suggestioni molto seventies. Fugato il sospetto, e appurato che invece di vera novità si tratta, non si può che rallegrarsi di questo incontro discografico: October Equus è una di quelle realtà insospettabili nella musica odierna, una rarità che si fatica a immaginare vincente nel vortice ammiccante e disinvolto del rock di questi anni, dove la tendenza è semmai il compromesso, il pop rilucente di poca sostanza e sola superficie. I quattro componenti, però, hanno evidentemente messo a frutto anni di lavoro e ricerca, nei quali i modelli più amati del prog classico hanno prima indicato la strada e poi, nel tempo, favorito uno stile pienamente maturo e convincente. Il disco si compone di dieci tracce in tutto, ma l'ombelico del disco, che fa a meno della parti vocali, è indubbiamente la lunga "October Equus suite", oltre trenta minuti che catturano il meglio della band attraverso sei momenti di ottima fattura. Il fulcro del suono è probabilmente la chitarra solista di Angel Ontalva, non a caso unico firmatario della composizione, che detta le trame più acuminate lungo le quali il resto del gruppo si muove in maniera estremamente compatta, con rarissimi momenti di virtuosismo. Episodi come "Sacrifice" e la più drammatica "Head of the winner" mostrano infatti la paziente tessitura strumentale che poggia sui colori scuri delle tastiere di Victor Rodriguez e quindi si ramifica per circoli contorti sotto la guida della chitarra, come a spolpare fino all'osso il motivo di base. Come l'argomento preso a pretesto, un oscuro rito pagano che nella Roma classica metteva in gara i due quartieri principali in una cruenta corsa di bighe, con relativo sacrificio finale del cavallo vincitore, la musica si snoda attraverso atmosfere piuttosto cupe, umbratili, con il rischio latente di eccedere nei toni e stancare. Se la trappola è aggirata si deve alla capacità del gruppo spagnolo di lavorare di cesello sulla propria ispirazione: i temi dell'organo e della chitarra solista s'intrecciano e si ripetono, è vero, ma ogni volta mettendo a nudo nuovi dettagli cromatici e piccole variazioni interne, con il basso di Amanda Pazos abile a fungere da creativo punto di raccordo nei diversi snodi strumentali. Nonostante l'assenza delle parti cantate, che in certi casi possono alleggerire musiche di questa complessità, alla fine un ascoltatore paziente saprà apprezzare non solo la grande uniformità stilistica, ma anche le sofisticate variazioni messe in atto dagli October Equus, nella suite come nei brani di contorno: "Reliqua tempora", ad esempio, ancora con la chitarra frippiana di Ontalva in evidenza tra le fitte divagazioni organistiche. Una formazione di valore, che aspettiamo con curiosità alla prossima prova discografica, nella speranza che non si perda per strada dietro più facili miraggi. Flower Kings - "Paradox Hotel" (Inside Out, 2006) Per il nuovo lavoro della sua band, Roine Stolt ha voluto un doppio CD indubbiamente impegnativo: il titolo e la scaletta svelano l'intento di un concept alla vecchia maniera, nel quale la varia umanità ospite dell'Hotel Paradosso è anche l'occasione ideale per esprimere un'ispirazione musicale molto composita. È pur vero che il chitarrista, già membro dei Kaipa, una delle più gloriose band svedesi nel campo del progressive anni Settanta, mostra di non aver affatto dimenticato le sue radici: ci si muove in linea generale sotto le insegne del rock sinfonico più raffinato, impregnato della giusta dose di melodia e qualche soluzione più atipica, pur senza mai strafare. Tuttavia, all'interno di questi confini, il quintetto svedese riesce ad assemblare una discreta serie di variazioni. Ovviamente non manca la suite di lunga durata, come appunto "Monster & men", classicheggiante e ben orchestrata tra l'organo a canne di Tomas Bodin, la chitarra e le belle voci di Hans Froberg e dello stesso Stolt, ma i due dischi abbondano di episodi acustici di buona fattura, a volte perfino più originali del resto. Basta citare la bella "Jealousy", dove Stolt canta in perfetta solitudine s'un morbido tappeto di tastiere, o ancora l'insolita "Bavarian skies", che fa rivivere con accenti di nostalgia fiabesca, davvero paradossale, l'incubo del nazismo tedesco. Di sicuro effetto l'atmosfera di "Selfconsuming fire", un crescendo intimista che sfocia in lunghi soli di chitarra, mentre sul secondo dischetto il gioiello è "The way the waters are moving", amara dedica ai sopravvissuti dello tsunami asiatico costruita sul pianoforte con toccante semplicità. I riferimenti del quintetto sono evidenti: la preghiera infantile di "Mommy leave the light on" è in puro stile Genesis, come pure la progressione pulsante di "What if God is alone", tra i momenti migliori della raccolta. Chi ha pazienza, noterà inoltre che le liriche sono spesso molto buone, mostrando la giusta sensibilità, romantica ma non stucchevole, per catturare esperienze e motivi molto diversi tra loro. Stolt offre anche più spazio agli altri componenti del gruppo, soprattutto al tastierista Tomas Bodin, che oltre a cofirmare alcuni episodi svolge un prezioso lavoro, passando dal pianismo più classico al mellotron e al synth per creare quel contesto cromatico in grado di esaltare al meglio l'inventiva del leader. Un paio di brani, come la stessa title-track, o meglio ancora "Life will kill you", che strizza l'occhio al migliore flash-rock degli Yes, con la chitarra solista in primo piano e la voce grintosa di Froberg, sfoggiano un piglio rock più aggressivo e ugualmente efficace. L'anima vera dei Flower Kings però abita altrove, e sembra decisamente più incline a un sofisticato pop-rock arrangiato con gusto ("Man of the world" ad esempio), con qualche trovata ad effetto: cito lo strumentale "The unorthodox dancinglesson", che incastona nel suo sviluppo sincopato un riff elettrico che omaggia i Crimson, e soprattutto la traccia in coda al doppio CD, "Blue planet", che vibra d'intenso lirismo sulle note lunghe della chitarra. Anche se in certi frangenti manca forse a Stolt e compagni una qualità spesso negletta nella musica odierna, come la capacità di sintesi, "Paradox Hotel" è comunque un'opera impeccabilmente prodotta dall'inizio alla fine e generosa di spunti: insomma, niente di nuovo sotto il sole (come recitava un vecchio disco dei Kaipa), ma una musica di eccellente qualità che alla fine conquista e non fa rimpiangere i soldi spesi. Mogwai - "Mr. Beast" (Pias, 2006) "Mr. Beast" è il nuovo disco di studio dei Mogwai, tre anni dopo "Happy songs for happy people", e presenta alcune novità nei suoni del combo scozzese. Le dieci tracce hanno, in generale, una minore brillantezza sonora, e il ruolo delle chitarre sembra aver soppiantato in larga parte l'uso dell'elettronica che conferiva alla prova precedente un tono psichedelico e quasi estatico. Il risultato è perciò una sequenza di atmosfere più acide, a cominciare dalla durissima "Glasgow mega-snake", che si regge appunto s'un giro ossessivo di chitarre ruggenti, e a seguire anche "Travel is dangerous", dallo sviluppo però più efficace, e la conclusione di "We're no here", con un riff elettrico più incisivo. Come al solito episodiche e molto defilate le parti vocali, quasi sempre affogate nella bolla dei suoni, a parte il curioso esperimento di "I chose horses", dove le liriche sono recitate da Tetsuya Fukagawa in giapponese s'uno sfondo musicale che fa da ovattata cornice. Per il resto, le modalità compositive sono le stesse: atmosfere minimaliste dal passo più involuto che felpato, ad esempio "Team handed" o anche "Acid food", che avvolgono l'ascoltatore in una rete di suoni vischiosa e fin troppo ripiegata su se stessa, senza slanci. Sono quadri d'ambiente che catturano umori sospesi, a struttura circolare, e a tratti francamente uggiosi. Ci sono per fortuna alcune eccezioni, che tengono fede alla buona fama del marchio Mogwai. Su tutte, a mio parere, "Friend of the night", dove le caratteristiche appena illustrate si giovano però d'un pianoforte classicheggiante che incide il suo tema e lo dilata ostinato in una serie di suggestive variazioni, dall'effetto molto evocativo. Qui sono le chitarre a doversi allineare alle tastiere, e la differenza si sente. Il pianoforte sembra in effetti lo strumento che rimarca i momenti migliori, ad esempio nel crescendo dell'iniziale "Auto rock", con il ruvido controcanto delle percussioni, quasi come un argine trasognato al clima pesante e spigoloso sottolineato dalle chitarre, e il disco vive tutto in questa sorta di costante dialettica con esiti alterni. Di buon effetto è comunque un brano come "Folk death 95", dove le chitarre e il basso s'incrociano a lungo sornioni prima di dar fuoco alle polveri. Se non è un brutto disco, "Mr. Beast" resta un gradino sotto il livello eccelso del suo predecessore: emotivamente infatti non tocca quei vertici, e si smarrisce a volte in un esercizio stilistico fin troppo autoindulgente. Se amate il loro post-rock così peculiare, in ogni caso, avrete ancora modo di leccarvi i baffi di fronte a qualche perla tipicamente Mogwai, ma stavolta dovrete cercarla qua e là con un pizzico di pazienza in più. Ubi Maior - "Nostos" (BTF, 2005) Il sottobosco della musica italiana, quella fuori dai grandi numeri e dalle superclassifiche, continua a produrre artisti e suoni che sanno ancora lasciare il segno, e meriterebbero maggiore attenzione da parte di pubblico e addetti ai lavori. Ubi Maior è una formazione milanese che esordisce con questo "Nostos" (cioè ritorno) e sembra aver assimilato le sonorità più nobili del progressive italiano d'impronta dark (lo dimostra la ripresa di "La tua casa comoda" del Balletto di Bronzo) sia pure opportunamente aggiornate. Sin dall'apertura di "Vendetta", il quintetto offre un saggio convincente delle sue possibilità: il colore drammatico dell'organo è ben sostenuto dalla robusta presenza della chitarra, e soprattutto da una voce solista di buon livello come quella di Mario Moi. È un punto da sottolineare, questo, vista la cronica debolezza delle parti vocali nel panorama dei nostri gruppi rock. Per una volta, dunque, le liriche non sono un corpo estraneo rispetto alla proposta strumentale, ma fanno tutt'uno con la buona vena del gruppo. Gli Ubi Maior sembrano maggiormente a loro agio negli episodi più compatti e vigorosi, dove cioè emerge il discreto affiatamento dei singoli, e magari i toni si fanno volutamente ambigui: qui le articolate tastiere di Gabriele Dario Manzini si destreggiano bene tra umori sospesi e decisamente gotici (lo strumentale "Livia" ad esempio), e il canto partecipe di Moi sa illustrare compiutamente atmosfere dalle tinte fosche, liriche o dichiaratamente epiche, come nella lunga suite che intitola l'album. Sulla scorta dei poemi omerici sapientemente distillati, la lunga "Nostos" alterna infatti luci e ombre all'interno di un viaggio a carattere onirico molto ben congegnato: alcuni segmenti, in particolare "Invocazioni e rivelazioni" e soprattutto una sequenza come "Il sogno incompreso"/"L'Incubo", hanno indubbiamente una marcia in più, specie quando il ritmo si fa incalzante e sprigiona veri lampi di pathos drammatico, ancora con l'organo, la chitarra solista e la voce al loro meglio. Si apprezza l'equilibrio tra le parti, soprattutto, assemblate in un insieme di vibrante suggestione. Trattandosi di un'opera prima, comunque, era forse inevitabile che non tutto girasse a dovere: accanto ai brani citati, con l'aggiunta di "Messia", che si muove parzialmente sugli stessi binari, ci sono infatti momenti meno riusciti, anche se non da buttare. Diciamo però che "Terra madre", più distesa ed elegiaca, non sembra incisiva come il resto, così come "Oltre il vetro", che pure si avvale di un testo interessante, non riesce a mordere a sufficienza dal punto di vista musicale e sembra seguire altri percorsi. Probabilmente, se il CD durasse un quarto d'ora in meno, focalizzando meglio la propria ispirazione, avremmo di fronte un lavoro quasi perfetto. Sono piccole sbavature, va detto, in un contesto di segno ampiamente positivo: in fin dei conti le qualità di "Nostos" permettono di inserire il nome degli Ubi Maior tra i gruppi dell'ultima stagione che fanno ben sperare gli appassionati di certo rock progressivo. Stefano Panunzi - "Timelines" (Res, 2005) Questo disco segna un esordio nel panorama della musica italiana, e se il buongiorno si vede dal mattino, allora Stefano Panunzi ha tutte le carte in regola per diventarne uno dei protagonisti. Il tastierista firma infatti una sequenza di undici episodi di alto livello, avvalendosi con intelligenza di molti musicisti della scena internazionale, che contribuiscono a valorizzare al meglio le sue composizioni: citiamo tra gli altri il trombettista Mike Applebaum, vero protagonista del disco, le cantanti Haco e Sandra O'Neill, il bassista Mick Karn, fino al batterista Gavin Harrison. Ospiti di prestigio che s'integrano al nucleo-base degli strumentisti italiani, da Nicola Alesini (sax e clarinetto) a Giampaolo Rao (batteria), fino al chitarrista Nicola Lori e al bassista Fabio Fraschini, più altri ancora. La carta vincente dell'operazione, per un disco registrato tra Italia, Germania, Inghilterra e Giappone, è appunto nella riuscita fusione di tante diverse collaborazioni in un sound alla fine molto compatto e riconoscibile, pur in presenza di momenti musicali che abbracciano una discreta varietà di suggestioni. Panunzi mescola infatti con innegabile bravura echi ambient a sonorità jazz e neo-progressive, allineando sulle sue tastiere atmosfere sempre eleganti (come l'attacco di "Timelines"), a volte rarefatte fino a intercettare suoni sotterranei e voci interiori (la bellissima "Underground") in un viaggio sonoro che sembra circumnavigare, catturandone la varia essenza, il mondo sensibile nel quale oggi ci muoviamo. Le punte espressive dell'album sono molteplici, e diventa difficile spiccarne qualcuna dall'insieme, se non lasciando parlare le proprie reazioni soggettive. A me viene facile citare "No answer from you", seducente prisma di evenescenze che oscillano sul filo di una tromba magica, e la successiva "Masquerade", che, insieme a "Web of memories", regala forse la sequenza più propriamente rock del disco, ingabbiata però da suoni elettronici abilmente congegnati. Molto intrigante è pure il passo felpato di "The moon and the red house", un jazz atmosferico senza tempo, ancora con la tromba di Applebaum ben incorniciata dalle tastiere ad effetto di Panunzi e dalla chitarra. A questo moderno arazzo non sono estranei neppure richiami etnici, sempre incastonati a dovere, senza strappi e dissonanze, nel quadro cosmopolita messo in piedi da Panunzi: è il caso di "Tribal innocence", dove le voci arabe e le percussioni arricchiscono il consueto disegno strumentale dominato dalla tromba. L'epilogo della lunga "I'm looking for", con il suo refrain cantabile che emerge dal sofisticato reticolo dei suoni, incluso anche il violoncello di Laura Pierazzuoli, chiude degnamente un debutto discografico davvero pregevole, che dimostra grande maturità e pone sicure premesse per la musica che verrà. Dalla parte di Stefano Panunzi, ed è giusto ribadirlo, c'è soprattutto la capacità di porsi con umiltà e intelligenza verso tutti i suoi collaboratori, per dare vita insieme a un mosaico sonoro ammaliante, eccellente dal lato tecnico e di respiro veramente internazionale, senza rinunciare a una sua impronta più personale: un disco come "Timelines", insomma, merita di fare molta strada, come il suo autore. Premiata Forneria Marconi - "Dracula" (Sony/BMG, 2005) A quanto pare anche un nome storico del progressive italiano come la PFM ha voluto provare l'ebbrezza della rock opera, mettendosi così sulle tracce degli Who di "Tommy" e compagnia. Il CD attualmente in vendita è in realtà solo l'estratto di un'operazione assai più ambiziosa, cioè la messa in scena teatrale del progetto, che avverrà nel prossimo febbraio e vedrà oltretutto altri interpreti come protagonisti vocali. Venendo al disco in questione, comunque, ecco cosa si nota subito: il più celebre vampiro della storia (leggendaria) è diventato l'occasione per una metafora universale sulla fisiologica coesistenza, in ciascun uomo, di male e bene, specialmente se a possederlo è il demone della passione amorosa. Dracula, insomma, come l'archetipo dell'eros, almeno a giudicare dalle liriche affidate a Vincenzo Incenzo. Ipotesi affascinante, e naturalmente anche discutibile, ma veniamo alla musica. Premoli, Di Cioccio, Mussida e Djivas sono affiancati dalla Bulgarian Symphony Orchestra, diretta da Natale Massara, e questo contribuisce a sottolineare l'impronta più tipica della band: quel misto di classicismo e sottigliezze barocche, che ingloba più o meno naturalmente gli spunti rock dei singoli, con le chitarre di Mussida in primo piano, ma anche, stavolta, una spiccata tendenza al melodismo più arioso e sentimentale. Bella l'"Ouverture", che condensa appunto questo dualismo, e di grande effetto la chiusura di "Un destino di rondine", con la voce ospite di Dolcenera, e un'atmosfera lirico-sinfonica, con tanto di coro, che non si fatica a immaginare ideale nel contesto della rappresentazione teatrale. In mezzo ai due estremi pagine che alternano enfasi davvero operistiche, oppure di pensosa eleganza (la delicata "Non guardarmi"), a brusche impennate rock con la voce istrionica di Franz Di Cioccio al suo meglio, ad esempio "Non è un incubo è realtà" ed anche "Il castello dei perché", che regala una sofisticata coda strumentale, fino a "Ho mangiato gli uccelli", divertita elencazione di pessimo gusto culinario. In altri episodi, da "Il mio nome è Dracula" a "Terra madre", prevale una dimensione quasi elegiaca, con le squisitezze strumentali (la chitarra classica, gli archi, il pianismo delicato) abbinate a una parte testuale che punta a umanizzare il mostro, depurandolo di qualsiasi tratto inquietante. Il carattere centrale dell'opera rock della Premiata sembra proprio questo tentativo di addomesticare, fin troppo, il vampiro a caccia di sangue umano e farcelo apparire in una luce più benigna. Qualche inserto più ispido e minaccioso, come il rock martellante di "La morte non muore", non serve molto a fugare quest'impressione generale, che sembra del resto autorizzata dai versi di Incenzo posti sulla quarta di copertina: "Dentro noi il bene e il male sono indivisibili, due labbra della stessa ferita". Riabilitato dunque il conte transilvano, resta un disco di ottimo livello, e non c'era da dubitarne, suonato con la sperimentata classe di sempre, e il cui unico difetto forse è proprio quello di voler accontentare tutti i palati. Con il rischio, paradossale, di non esaltare nessuno fino in fondo. Probabilmente, però, si tratta di un rischio calcolato per un progetto multimediale di queste dimensioni, che ha indubbiamente tutti i numeri per diventare un evento popolare, come analoghe operazioni realizzate negli ultimi tempi da artisti come Cocciante e Lucio Dalla. Con il suo "Dracula", la PFM s'inserisce in questa tendenza, ma lo fa mettendo in campo la lunga esperienza di un gruppo genuinamente rock che sente oggi il bisogno, evidentemente, di nuovi stimoli per incontrarsi con una platea più vasta e variegata. Sigur Rós - "Takk..." (Emi, 2005) Quella dei Sigur Rós è una malia davvero subdola, che ogni nuovo disco non fa che amplificare, avvolgendo l'ascoltatore in un meccanismo di complicità senza rimedio. Anche di fronte al quarto capitolo discografico del quartetto, che segue il più introverso manifesto di "( )" (il disco del 2002), si può far finta di niente, magari rifugiandosi dietro il paravento di un freddo esercizio critico farcito di formule stantie, ma alla fine il risucchio di quest'onda sonora sarà irresistibile. Il cantante Jónsi e i suoi compagni si avvalgono stavolta anche dell'orchestra, col risultato di potenziare ulteriormente il loro stile ormai ben noto in undici nuovi episodi. A forza di ascoltarla, la musica dei ragazzi islandesi, se non si lascia catturare del tutto come ogni creazione non banale, comincia a svelare però alcuni ingredienti alla base del suo fascino: un carillon sinfonico è la definizione paradossale che mi sento di usare per questo "Takk" ("grazie" nella lingua nativa), e più in generale per tutta l'ispirazione della band. Grazie, probabilmente, al fertile pozzo dell'infanzia, alle radici e alle sensazioni di una dimensione perduta che solo l'alchimia delle note può ricreare fuggevolmente. Ogni brano germina da un giro minimale di pianoforte, in elementari crescendo dalla presa emotiva inesorabile, sulle quali il falsetto di Jónsi lascia la sua impronta micidiale, mentre il suono si fa via via più corposo e dilagante. Non ci sono barocchismi, né un particolare dinamismo in queste trame sonore, ma un certosino accanimento a fare di quel flebile balbettio iniziale un altro quadro emotivamente struggente, sublimato qui dal pieno orchestrale. Lo standard esemplare è un pezzo come "Sæglópur", dove il tema centrale è ribadito testardamente dall'inciso vocale, scivolando poi verso sponde di morbido languore. "Takk...", che intitola il disco e lo apre, abbina i singulti di questa dimensione ancora vergine alla progressione ritmica che spalanca il mondo, nella successiva "Glósóli", tra chitarre e percussioni ossessive. Una sequenza splendida, che da sola chiarisce le straordinarie possibilità strumentali della band. Nel disco stavolta non mancano neppure intervalli di colore più sereno, addirittura cantabile, come "Hoppípolla", dove tutto suona più armonioso e gli archi dipingono un solare mezzogiorno, mentre altrove ("Sé Lest") si ascolta perfino una marcetta di sapore bandistico. Questo per dire che, pur nella sostanziale fedeltà al proprio stile, i Sigur Rós sanno speziare a sufficienza la loro cucina, se è il caso. "Gong", dalla superficie più nervosa, o anche "Svo Hljótt", ribadiscono però che a fare la differenza tra il gruppo islandese e gli altri artisti in circolazione è proprio la dialettica emotiva tra una purezza originaria e i suoi fantasmi, magicamente messa in scena dal canto inconfondibile di Jónsi. Lontano dall'essere un disco di compromesso, come qualcuno ha scritto, "Takk..." è un autentico gioiello: di una tale bellezza, a volte, che occorre maneggiarlo con cura, come tutte le esperienze emotivamente forti che sanno incidere in profondità. Van Der Graaf Generator - "Present" (Virgin Records, 2005) Fa sempre effetto, per chi è venuto su con la musica dei Settanta, rivedere all'opera un gruppo come i VDGG, guidati dall'immarcescibile Peter Hammill. Soprattutto se i capofila indiscussi del prog gotico si ripresentano nella formazione più classica, che vede capitan Hammill affiancato dal grande Dave Jackson ai fiati, Guy Evans alla batteria, e naturalmente Hugh Banton alle tastiere. Stavolta il progetto sembra più impegnativo del solito: un CD doppio, che include sei pezzi nuovi di zecca e un secondo dischetto di pure improvvisazioni. L'attacco di "Every bloody emperor" è un tuffo al cuore, e apre come meglio non si potrebbe l'album: la voce inconfondibile di Hammill è la stessa di sempre, densa e ispirata, le gelide spirali dell'organo dipingono uno di quei tappeti sonori che hanno fatto la fortuna della band, oltre ai tortuosi interventi fiatistici di Jackson (flauto e sax). Lo stesso Jackson, che pare sempre alla ricerca di un suono impossibile, di volta in volta purissimo o tirato allo spasimo, domina la seconda traccia, "Boleas panic", interamente strumentale, che scorre come un acquarello cartavetrato dalle cadenze sovranamente libere, indolenti e acide. "Nutter alert" è ancora un compendio magnifico del Generatore più classico: voce esasperata che galleggia sulla bolla sonora del sax e delle tastiere, in un ritratto di umanità allarmata e prigioniera delle sue paure. Stavolta i testi di Hammill, spesso intrisi di metafore pessimistiche o vagamente sepolcrali, sterzano visibilmente sull'attualità, con immagini di potente effetto drammatico, in "Abandon ship!" e "In Babelsberg", particolarmente aspre nel cromatismo combinato tra sax, organo e la chitarra solista di Hammill, ma anche piene di sommessa autoironia se guarda negli occhi la propria generazione. E' il caso di "On the beach", ad esempio, curioso jazz dal passo disincantato e accattivante nel gioco delle voci e del sax cullate dalla risacca. I dieci momenti del secondo CD, improvvisati in studio, ci mostrano come la band inglese abbia ritrovato una voglia di suonare che pare genuina e ancora molto fresca. Anche qui umori tesi o rarefatti, magari all'interno dello stesso episodio, comunicano un senso di intimo affiatamento che gli anni e le lunghe pause non sembrano aver intaccato, ma portato semmai a un grado di piena maturità. Basta ascoltare la fascinosa atmosfera di "Slo moves", intessuta di correnti misteriose, o anche "Manuelle" (con la chitarra in evidenza) per apprezzare la lezione d'integrità artistica che la band inglese sa trasmettere ancora oggi, a oltre trentacinque anni dal suo debutto discografico. Un disco, questo "Present", che tiene interamente fede al titolo: regge bene il ritmo coi tempi in atto, e sa anzi interpretarli dall'alto di una classe superiore che trascende le mode effimere d'un giorno. Talento più stile, insomma, ecco i VDGG del 2005: la nostalgia non c'entra. Infiniti sono i modi per coniugare il verbo progressive nel terzo millennio, e i Mars Volta, band texana al suo secondo disco, mostrano di saperlo come pochi altri. "Frances the mute" è un concept, basato a quanto è dato sapere sul diario anonimo trovato un giorno da Jeremy Ward, ex membro del gruppo scomparso poco dopo. Antefatto curioso e stimolante, indubbiamente, che nelle mani di Omar A Rodriguez-Lopez (chitarre) e Cedric Bixler Zavala (voce), le due menti dei Mars Volta, diventa una sorta di avventuroso tributo, insieme, all'amico stesso e alla fantasia più estrema. Il disco ha una struttura apparentemente caotica, tale è la sua ricchezza stilistico-espressiva, ma in realtà un ascolto attento lascia emergere nomi e temi ricorrenti dal principio alla fine dei circa settantasette minuti che lo compongono. "Sarcophagi", ad esempio, è il primo titolo e anche l'ultimo, e anche "Con Safo" ricorre due volte nella scaletta. Detto questo, non è certo una musica per tutti: l'impatto dei cinque episodi, quattro minisuites e una parentesi più breve, ha qualcosa di devastante e incutente che può anche risultare indigesto come un piatto eccessivamente speziato. Molteplici i richiami e le influenze, dal pop latino di Santana ai Crimson più apocalittici, passando per tutte le derive psichedeliche, metal e acide che potete immaginare, assemblate in un disegno sonoro stratificato e oltretutto valorizzato da una carica interpretativa sempre vibrante, nelle voci spasmodiche, nei ritmi imprevedibili e tirati fino al limite, con soluzioni a tratti vertiginose di tastiere trattate e rumoristica assortita. Difficile fare graduatorie tra i brani, se non tratteggiandone i caratteri più esteriori: il più breve, "The widow", sembra un intervallo piazzato strategicamente nel cuore di un viaggio senza pause, con la sua melodia carica d'echi e presagi, dopo l'attacco convulso e visionario di "Cygnus...Vismund Cygnus", intitolato al protagonista del concept. "L' Via L' Viaquez" è un inno composito e spasmodico, cantato in spagnolo e inglese, con inopinate irruzioni di stranianti atmosfere salsa nel flusso più teso del racconto. Violenza, nostalgia e oscurità ipnotiche si avvicendano in una trama sonora che disorienta e stordisce. La tromba di Flea (Red Hot Chili Peppers) e gli archi arricchiscono l'atmosfera di "Miranda that ghost just isn't holy anymore", conferendo al tema portante una nota di solennità ammaliante, come la stessa voce solista, protagonista indiscussa di tutto il disco. L'intera cavalcata del diario di Cygnus ha quindi l'aria di sfogarsi nell'atto conclusivo della sterminata "Cassandra Geminni", oltre mezz'ora che compendia pregi e difetti di quest'avventura in musica da collocarsi senza dubbio sotto il segno dell'estremismo, nel bene e nel male. Nella suite finale spicca il grande lavoro del sax, lanciato in assoli lancinanti insieme alle chitarre in un impasto debordante, tra fosche progressioni e ritmi indiavolati, sfrangiato in tanti rivoli ogni volta ricompattati dietro il timbro esasperato della voce. "Frances the mute" è davvero un disco eccessivo, ma questo è probabilmente il suo vero fascino, perché sprigiona quell'alone di mistero, vagamente inquietante e sulfureo, che accompagna sempre le creazioni più radicali. Un album che ogni successivo ascolto vi porterà più vicino, lasciandovi tuttavia, forse, più stupiti che convinti: a conti fatti, un'opera maledetta, nella migliore tradizione del vecchio progressive di una volta, molto prima che diventasse una formula di comodo per musicisti dal fiato corto. Finisterre - "La meccanica naturale" (Immaginifica, 2004) Anche i Finisterre, nome di punta del progressive italiano degli anni Novanta, sono passati alla battagliera etichetta capitanata da Franz Di Cioccio per questo nuovo disco di studio. L'ultimo, prima di un temporaneo scioglimento, fu l'ottimo "In ogni luogo", targato 1998. La formazione genovese è oggi un quintetto che ruota intorno al nucleo storico del bassista Fabio Zuffanti, più il tastierista Boris Valle e Stefano Marelli alle chitarre, oltre al batterista Marco Cavani (che suonava nel disco d'esordio della band) e a un secondo tastierista come Agostino Macor. Che disco è "La meccanica naturale"? Sicuramente molto buono, ma con un punto interrogativo in fondo. Siamo di fronte a una sequenza di dieci brani, ed a un primo ascolto si nota subito che Zuffanti e soci hanno accantonato le ambizioni sinfoniche, le suites più complesse, e certe sonorità sperimentali che facevano tanto vintage prog per intenderci. Sarà l'effetto di avere alle spalle il navigato Di Cioccio (che nelle note interne parla non a caso di una musicalità senza confini) o forse l'ambizione, più che legittima, di catturare finalmente una audience più vasta, fuori dal circuito di nicchia, ma si respira un'aria diversa, un rock più conciso e tagliente che strizza l'occhio a soluzioni musicali più accattivanti. Alcune proposte in questo senso possono risultare spiazzanti: ad esempio "La maleducazione", firmato e cantato da Marelli secondo un'ottica che ricalca, curiosamente, i vecchi CCCP di Giovanni Lindo Ferretti. Gli ascolti successivi, comunque, portano in luce altri elementi: anzitutto che il peso dello stesso Marelli negli equilibri del gruppo è molto cresciuto, e poi, soprattutto, la sua bella prova come voce solista. Le incertezze dei primi Finisterre, in questo senso, paiono finalmente risolte, e basta a dimostrarlo l'ottima apertura del disco, "La perfezione", un concentrato riuscito di rock asciutto e insieme evocativo, con un testo intrigante e un suggestivo tappeto di mellotron e pianoforte sotto la voce. I suoni sono limpidi e calibrati, senza sbavature, anche in episodi come "La mia identità", segnata da mordenti spezzature di chitarra e synth nel giro armonico, o ancora ne "Il volo", che parte in sordina e cresce alla distanza. Altre volte, la ricetta sortisce effetti diversi, in una lingua rock più agile, a tratti trascinante ("La ricostruzione del futuro") o comunque ingegnosa nella sua leggerezza ("Lo specchio"), ma chi ha amato le raffinate proposte di "In limine", ad esempio, o le contaminazioni ardite dello stesso "In ogni luogo", potrà sentirsi spaesato. Sensazione confermata, per contrasto, dalla presenza nel disco di almeno tre perle assolute, che sembrano nate in un altro contesto. La prima è "Ode al mare", forse il vertice della raccolta: nella sua semplicità, con un testo che sa di preghiera, sprigiona un pathos lirico rispecchiato dal canto delicato di Marelli e da una coda strumentale davvero immaginifica, che si avvita sulle note lunghe della chitarra elettrica. L'altra è "Rifrazioni", firmata da Boris Valle, che cattura suoni, voci e interferenze impalpabili nell'incedere di un pianoforte squisito, minimalista, con la tromba ospite di Luca Guercio. Infine la chiusura splendida di "Incipit", un crescendo avvolgente ancora modulato sul piano fino a un vibrante tutti finale. Stiamo comunque parlando, è bene ribadirlo a scanso di equivoci, di un disco di gran classe: la produzione è impeccabile, la qualità tecnica sempre elevata e a tratti abbagliante. Eppure certe discrepanze stilistiche fanno pensare che i Finisterre siano davvero giunti a un bivio, e solo il prossimo passo chiarirà le intenzioni della formazione ligure. Inutile dire che lo aspettiamo con molta curiosità. Marillion - "Marbles" (Intact, 2004) La storia dei Marillion è gia sufficientemente lunga per considerarli dei classici del rock inglese, sin da quando esordirono nel segno dei Genesis all'alba degli anni Ottanta, quasi a raccogliere il testimone e portare avanti quella pesante eredità. Il seguito di carriera, con i cambi di organico, e soprattutto quello del cantante Fish con l'attuale frontman Steve Hogarth, ha conosciuto anche zone d'ombra, ma l'amore dei fans sembra immutato. Lo dimostra il fatto che il gruppo ha chiesto e ottenuto da loro di prenotare il disco per sostenere l'operazione, ricevendone pronta e compatta adesione. "Marbles", il disco in questione, è uscito così in due versioni: sottoforma di doppio Cd per i fans, e come dischetto singolo per il mercato. Premetto che io ho ascoltato proprio quest'ultimo, composto di undici tracce oltre alla versione single di "You're gone". Il titolo ("biglie") la dice lunga sul senso del progetto e la musica, pur senza essere un vero concept, conferma l'impressione di un viaggio sospeso tra ieri e oggi, l'adulto consapevole e il suo doppio infantile, il sogno e la realtà. I quattro momenti che intitolano il disco sembrano appunto quattro finestre nostalgiche aperte sull'infanzia e le sue attese, contrapposte a visioni e problematiche diverse. Si tratta, diciamolo subito, di un bellissimo disco. Il suono odierno dei Marillion, se rinuncia agli standard del progressive classico, sa in compenso muoversi in una zona franca di atmosfere raffinate, in un gioco collettivo che si anima sulle tastiere di Mark Kelley e la chitarra di Steve Rothery, ma trova il suo focus ancora una volta nella voce solista di Hogarth, primattore assoluto dell'intera sequenza. Lo testimoniano soprattutto i due brani più lunghi, collocati non casualmente in testa e in coda: nell'apertura di "The invisible man" il canto lievita di pari passo con il ricco tessuto strumentale, sulle tastiere e il synth avvolgenti, il bel gioco percussivo, e sinuose linee di basso, in un crescendo ramificato dal pathos davvero notevole. Non da meno è l'atto finale di "Neverland": l'attacco al pianoforte e alcuni effetti speciali, come l'eco che raddoppia il canto nell'ultima parte, richiamano la nobile lezione dei Pink Floyd di "Dark side of the moon", ma la cifra stilistica della band rimane comunque personale e suggestiva. Sta in un passo medio, sempre elegante, che non ama le forzature ma sceglie la gradualità e la cura degli arrangiamenti, perché ogni frammento suoni limpido e intenso. Risultato pienamente raggiunto in episodi come "Angelina", di struggente intimismo, e nel più corposo rock barocco di "Drilling Holes", mentre "Fantastic place" esalta ancora la chitarra solista e la bella voce del cantante in un contesto sonoro e lirico schiettamente romantico. Il momento più melodico, e ugualmente riuscito, è invece "You're gone", che prende corpo s'un vivace tappeto ritmico e ariose spirali di synth. I Marillion firmano a conti fatti un album di valore, dove si sentono messi a frutto anni di esperienza e affinamento progressivo di una musicalità ricca, elaborata, e oggi pienamente godibile anche fuori delle consuete gabbie stilistiche. Ormai dalla Svezia le novità discografiche si sprecano, e vanno al di là dei soliti steccati: dal pop più smaliziato all'elettronica, passando per le più varie formule di progressive, è tutto un fiorire di gruppi e artisti. I Paatos confermano il buon momento della scena scandinava, e arrivano al secondo appuntamento discografico dopo l'esordio ben accolto di "Timeloss". Il sestetto svedese mantiene ora quelle promesse e sin dall'attacco di "Gasoline", aperta e innervata dal violino di Anders Bergman, "Kallocain" svela le sue potenzialità espressive: è una musica dal passo felpato, talvolta rarefatta e sempre evocativa, con rare ma incisive sterzate ritmiche intorno al canto solista di Petronella Nettermalm. La cantante è in effetti protagonista decisiva di tutto l'album, con la sua bella voce dai toni introspettivi davvero ideale per certe atmosfere sospese che più nordiche di così non potrebbero essere: è soprattutto il caso di "Reality", la finale e ovattata "In time", o anche "Absinth minded", dove la voce si fa strada tra effetti elettronici e sfocature sonore che solo l'irruzione suggestiva del mellotron mette in fuga per dare corpo e sangue al brano. In "Holding on" il suono malinconico del violoncello (della stessa cantante) fotografa perfettamente, assieme alla voce, un coinvolgente momento di crisi esistenziale reso dalla poesia laconica del testo. Questo stato perennemente sospeso tra un letargo trasognato dell'anima e le remote promesse di un sentimento ancora incerto, cattura davvero il nucleo ispirativo dei Paatos. A tratti la loro musica lascia però balenare frammenti di un'epica perduta, un miraggio di grandezza che ha ancora i colori del mellotron, e del pianoforte, e le cadenze estenuate di un camerismo d'altri tempi: accade nell'ipnotica "Stream", uno dei pezzi forti del disco, con la chitarra di Peter Nylander che brilla nel finale. Molto bella l'atmosfera jazzata di "Won't be coming back", ancora punteggiata da una chitarra eccellente e un sofisticato lavoro del batterista Huxflux Nettermalm, e splendida anche la coda strumentale di "Look at us", con la chitarra, il pianoforte e la batteria in magnifica simbiosi. La formazione svedese ha il pregio del lavoro corale, e senza indulgere in virtuosismi fuori luogo sa sprigionare il senso di una musica fortemente connotata, che si esalta proprio nelle sfumature e nella cura meticolosa degli arrangiamenti: è qui che si avverte la mano felice di Steve Wilson (anima dei Porcupine Tree), che per l'appunto ha diretto il missaggio. Al disco non mancano neppure aperture più francamente melodiche, come "Happiness", ma a fare la differenza è sempre la cornice di un arazzo strumentale mai convenzionale. I Paatos sembrano insomma aver imboccato la via d'uno stile estremamente personale, probabilmente ancora in crescita, eppure già peculiare e riconoscibile, in grado di soddisfare un pubblico trasversale ma comunque di palato fine. Decisamente il Giappone è uno strano paese: visto dall'Europa rimane un luogo di contraddizioni circondato da un'aura vagamente misteriosa, anche nelle sue manifestazioni artistiche. Prendete i Kenso. Questo gruppo, che ha esordito nel lontano 1980 con un disco autoprodotto, ha realizzato l'album in questione due anni fa, ma solo ora la benemerita BTF nostrana ne pubblica la versione europea. Perchè benemerita? Perché è uno di quei dischi che vorremmo incontrare più spesso, e che invece sembrano scomparsi con i nostri anni migliori, l'ideale dell'amor platonico e la gazzosa in bottiglia di una volta. A partire dal titolo, che chiama in causa un oscurissimo disturbo psichico legato alle arti, il quintetto nipponico con ben due tastieristi in organico sembra voler ribadire che non di soli cloni vive il progressive di quelle lande, come molti credono. Nossignori: in queste quindici tracce avrete modo di titillarvi oltremodo con un portentoso frullato di ritmi dispari, sgroppate hard-rock d'annata, preziosismi sinfonici, effetti speciali e anche discreti richiami al folclore del Sol Levante, in una chiave che suona a suo modo originale. Sembra impossibile, ma il disco dei Kenso riesce nell'impresa di imporre tutto questo popò di suggestioni sparse senza mai annoiare, anzi, di più: è perfino divertente, per quanto è imprevedibile nella sua lucida follia. Non è mica facile tirar fuori dal cilindro un canto flamenco che, del tutto inatteso in un album interamente strumentale, fa capolino all'interno d'un bel tessuto jazzato (succede in "In-utsu na nikki"), oppure partire in tromba con riff tiratissimi alla Led Zeppelin per poi rincorrere il flash-rock dei migliori Yes, tutto Hammond e avventurosi cambi di tempo (l'attacco di "Seibumon"), e senza che tutto questo suoni ridicolo, badate bene. Occorre una caratura tecnica notevole e soprattutto aver sviluppato automatismi di gruppo quasi perfetti, ed è quello che i Kenso hanno fatto, a giudicare dallo scintillante lavoro che abbiamo davanti. Il leader Yoshihisa Shimizu (chitarre e sintetizzatori) ha composto l'intero materiale, oltre a suonare tutto solo tre pezzi, ma intorno ha un band in stato di grazia, che trasmette davvero energia e quelle che i Beach Boys chiamerebbero buone vibrazioni : si ascoltino alcuni episodi deliziosamente schizofrenici (sarà l'effetto della bombycosi del titolo?) come "Tokai jokyoku", saltellante successione di fratture, e poi "Tjandi bentar", che abbina esotismi tipicamente orientali a fughe ritmiche improntate a una fusion modernissima, dove si apprezza sia il virtuosismo dei singoli (chitarre e batteria soprattutto) che la tenuta godibilissima dell'insieme. Per non parlare del delirante collage di atmosfere offerto da "Echi dal foro romano", tra indolenze felliniane, marcette popolari e ficcanti spezzature free-jazz. Grande. L'uso di svariati effetti elettronici, nastri manipolati, campionamenti e interferenze ambientali, non solo non mortifica affatto l'effetto generale, ma lo arricchisce di un suo fascino arcano, una sorta di pluralismo sonoro che avvince fino all'ultimo brano della sequenza. Se il progressive, oggi più che mai, è soprattutto contaminazione, allora i Kenso ne rappresentano una delle punte espressive più geniali e consapevoli. Un disco davvero sorprendente. Moongarden - "Round Midnight" (Galileo Records, 2004) Quella capitanata da Cristiano Roversi è già da qualche anno (il disco d'esordio è datato 1994) una delle migliori realtà della musica italiana alternativa: e con questo termine voglio indicare tutto quel folto sottobosco di gruppi e artisti che battono percorsi non sempre popolari, di rado premiati da vendite cospicue, ma sempre interessanti da seguire nella loro evoluzione. "Round midnight" è un disco maturo ed elegante, che abbina una scrittura sofisticata a un'ammirevole compattezza tra i cinque componenti della band. Sullo sfondo, come antichi numi tutelari, possiamo ancora intuire il debito verso indiscusse icone del progressive classico (i Genesis, per fare un nome esemplare), ma è innegabile che siamo di fronte a una musica moderna e decisamente adulta, priva di nostalgie fuori luogo, più che mai sintonizzata sul tempo in atto, nei suoni, e anche nei testi in lingua inglese. Uno dei punti forti del disco è proprio la voce solista di Luca Palleschi, dal timbro intenso e malinconico, sempre convincente nelle atmosfere proposte dai nove episodi dell'album. Già la traccia iniziale che intitola il disco suggerisce un clima tendenzialmente crepuscolare, notturno, e un mondo catturato nella sua essenza dispersiva e spesso alienante, diviso tra miraggi mediatici e abissali solitudini. In questo scenario si muove l'ispirazione di Roversi e compagni, intessendo ritratti di spigolose intese sentimentali (l'avvolgente "Wounded", ma anche "Lucifero") e manifesti di solitaria rivolta ("Killing the angel", tra i pezzi più incisivi), fino alla disperante umanità rassegnata di "Learning to live under the ground", con le dure scansioni della chitarra di David Cremoni per una volta in cattedra. In linea di massima, i fans del progressive più canonico potranno restare anche interdetti di fronte a un disco che privilegia la ricerca di un suono tanto rifinito e puntiglioso, lasciando così da parte gli spunti dei solisti e le formule più ovvie: tutti gli altri apprezzeranno invece, come merita, il finissimo lavoro di cesello che caratterizza la sequenza, con le tastiere di Roversi quasi sempre decisive (piano elettrico, effetti sintetici, ma anche mellotron) nel creare l'ideale cuscinetto sonoro per le dense liriche di Palleschi. Un disco di questo spessore ha bisogno di orecchie bene aperte e ascolti ripetuti prima di farsi amare in tutte le sue molteplici sfumature. E' un esercizio di pazienza, comunque, che i Moongarden meritano senz'altro, proprio in quanto interpreti di una proposta musicale che giustamente guarda avanti, senza vendersi l'anima, ma soprattutto senza chiudersi nel recinto sterile della memoria. Le Orme - "L'infinito" (Crisler, 2004) Uno legge il titolo di questo nuovo capitolo discografico delle Orme, e subito capisce che ci risiamo: prosegue il cammino di Aldo Tagliapietra nel cuore della cultura indiana e del suo mondo spirituale. Il primo ascolto conferma l'intuizione, e viene legittimo chiedersi se tutto questo, in prospettiva, faccia bene o male alla musica del gruppo. Perfino i testi sembrano ribadire una tendenza all'immobilismo e alla ripetizione, quando si ascoltano questi versi: "Non ci sarà nessuna mutazione/perché il tempo è un'illusione". Appunto, si pensa. Eppure, accantonata un attimo questa prima impressione, lasciamo girare il dischetto e poco a poco succede qualcosa. La voce del cantante, quella voce così anomala e così inconfondibile, c'incanta ancora sulle note di un organo assorto ("La voce del silenzio") e quando invoca solennemente l'anima ("Shanti") siamo dentro la sua malìa una volta per tutte. Non importa qui condividere alla lettera i dettami del mondo evocato dalle liriche: a contare davvero, sempre, è l'emozione della musica che ne scaturisce, e se ancora sa prenderci per mano come una volta. Come ai tempi del celeberrimo concept "Felona e Sorona", per intenderci, o dei colorato impressionismo dell'"Uomo di pezza". Acqua passata. Tagliapietra guida oggi un quartetto diverso, col fedele Michi Dei Rossi in testa, e due eccellenti e giovani tastieristi che sembrano crescere disco dopo disco: Michele Bon (organo soprattutto) e Andrea Bassato (pianoforte e violino). "L'infinito" non ha forse l'appeal brillante de "Il fiume" (il disco della rinascita, 1996), perchè a quel primo sgorgare di rinnovato entusiasmo si è aggiunta la consapevolezza che nasce dall'esperienza, depositata nel precedente "Elementi". E' un viaggio circolare, appunto, e ogni giro scava il solco più profondo, mostrando luci e ombre come parti del medesimo disegno. Suggestioni che non restano mute, ma privilegiano toni più raccolti e pensosi, componendo una nuova suite delicata, quasi trepidante, che alterna momenti di rapita sospensione ("Si può immaginare") ad altri di abbandono rasserenato al gioco del destino: fratture e chiaroscuri che hanno il timbro di un violino e di un organo che si rincorrono in cerca di una risposta definitiva (in "Shanti"), fino alla rivelazione de "L'infinito", scandito dalla progressione marziale della batteria. E' una soglia attraversata nell'altalena di presagi e stupori, e il pianoforte elegante di Andrea Bassato asseconda un canto davvero simile a una preghiera ("Canto"), fino all'incontro tra due anime diverse ma complementari: "La ruota del cielo" è infatti un nuovo, prezioso sigillo sulla possibile convivenza di culture solo apparentemente distanti, esplicata con ispirati accenti nel corteggiamento gioioso e cantabile di violino e sitar. Le Orme di oggi sono questo impervio, affascinante equilibrio di opposti che si cercano e s'incontrano in una sorta di zona franca, senza tempo eppure così dentro questo tempo di conflitti, dove conta esclusivamente la risposta più vera, quella emotiva e interiore, alle tensioni di sempre. Dove questo riesce, la loro musica colpisce al cuore come raramente accade nel panorama musicale odierno. Ecco allora dove nasceva quel sospetto iniziale: da questa cronica incapacità di uscire dagli schemi, da questa sordità a un disegno diverso e più libero. Perché "L'infinito" è un disco che richiede un ascolto sgombro da pregiudizi: solo allora vi conquisterà con la sua grazia che arriva da lontano, nutrita con l'appassionata dedizione riservata alle cose che contano, e che è propria degli artisti ancora degni di questo nome. Stereokimono - "Prismosfera" (Immaginifica/BTF, 2003) Franz Di Cioccio, celeberrimo batterista della PFM, ha deciso di darsi alla produzione di nuovi artisti, e tra loro appunto gli Stereokimono. Si tratta di un trio che arriva da Bologna e non fa niente per nascondere le proprie simpatie musicali in questo "Prismosfera", secondo titolo della loro carriera: tracce di cosmici tedeschi e space-prog targato anni Settanta, ma anche altro, che potrete divertirvi a scoprire da soli nella traccia-fantasma in coda. Detto questo, comunque, siamo davanti a un disco di buon livello, suonato con lodevole freschezza e un piglio sempre agile, dinamico, lontano per fortuna da ogni intento passatista e nostalgico. Il merito è di un approccio ritmico garantito dalla batteria di Cristina Atzori e dal basso di Alessandro Vittorio, che si divertono a variare continuamente i loro temi strumentali (mancano quasi del tutto le parti vocali), fino a ridare vigore e un certo potere incantatorio a un immaginario che evidentemente trova ancora seguaci. Lo stesso Vittorio suona le tastiere insieme ad Antonio Severi, impegnato anche alle chitarre: è dai suoi riff acidi e jazzati che viene il meglio, come nell'iniziale "Onda beta", che fa temere il peggio tra effetti speciali e sbronze spaziali, prima di invertire felicemente la rotta e far decollare il disco. Tra i momenti migliori c'è "Rosso di luna", con la sua dimensione aperta e circolare, costellata di belle combinazioni basso-chitarra e piccole fratture interne. Musica gradevole, suonata con sperimentato amalgama e senza forzose oscurità. Efficace anche l'andamento più tirato di "Xetrov 5", mentre "L'uomo nuvola" si segnala per la sua cesura a metà pezzo, che prelude a sonorità più meditative. L'anima rock più genuina del trio affiora in "Salamandra", con la chitarra protagonista con riff acidi e continue ripartenze. Forse il brano più intrigante di tutti è però "Bahnhofstrasse", col suo andamento sornione ma percorso da fremiti e umori misteriosi. La chiusa è affidata a "La soffitta volante", bella metafora di un mondo abitato da suoni e fantasie che hanno nutrito fecondamente gli stessi Stereokimono negli anni del loro apprendistato. Non a caso è un episodio che mescola introspezione e galoppate spaziali, ritmo e colore, in una riuscita alternanza. Un gruppo da seguire con interesse. Mogwai - "Happy songs for happy people" (Pias, 2003) Confesso: di questa band scozzese non sapevo niente fino ad ora. Dopo l'ascolto di questo disco posso anche aggiungere che me ne pento, e cercherò quanto prima di recuperare...la musica perduta. Forse il problema sono le etichette, che a volte sembrano fatte più per confondere e sviare che per guidare il povero musicofilo tra tutti i CD che escono continuamente, le ristampe, i remix, i rigurgiti, e via dicendo. Il problema si pone più che mai davanti ai suoni dei Mogwai, perchè riesce difficile liquidarli con un aggettivo, una definizione capace di catturare davvero la magia delle loro composizioni. Sui cataloghi li si potrà vedere appellati come noise, o post-rock, ad esempio, eppure chi può negare quell'impronta fondamentalmente psichedelica che ci accalappia a un tratto e non ci molla più? Il gruppo del chitarrista Stuart Braithwaite, messo insieme a Glasgow nel 1996, realizza alla sua quarta prova ufficiale nove tracce che lasciano il segno nel modo sornione di chi non ha nessuna fretta e richiede un ascolto meno distratto del solito. Il sortilegio comincia subito, dall'attacco di "Hunted by a freak", e di colpo siamo dentro una nuvola densa che sembra cullare la più nera malinconia, esasperandola fino allo zenith emotivo: ciò che nel linguaggio colto si chiama sublimazione passa attraverso una voce filtrata elettronicamente su note indolenti di chitarra, finchè la dilatazione delle tastiere sprigiona un vero incantamento estatico di almeno tre minuti. E' un pezzo meraviglioso, commovente, di rara suggestione. Lo stesso copione si ripete ancora, ad esempio in "Kids will be skeletons", e la formula dell'attacco in sordina (chitarra o pianoforte) che si sviluppa poi per aggregazione cellulare non manca mai di colpire al cuore. Si tratta, per così dire, di suggestioni psichedeliche rilette con tocchi di elettronica in nessun modo freddi o impersonali, ma al contrario, interiori e toccanti. Stupenda è anche "Killing all the flies", molto affine al brano iniziale, con un bel contributo degli archi, mentre negli otto minuti di "Ratts of the capital" si svela un'anima più potente e radicale, visionaria nel senso più estremo del termine. Il resto sono originali appunti interiori, a volte sviluppati in maniera quasi cameristica ("I know you are but what am I?", con un pianoforte dal tocco minimalista) o tessiture inquietanti attraversate dal violino e da intriganti suoni percussivi, come nella finale "Stop coming my house", degno epilogo di una sequenza di note evocativa e assolutamente indefinibile. In fondo è una fortuna che sia così: forse solo incontri tanto emozionanti, che non tollerano confronti, ci fanno riscoprire l'ineffabile potere della musica, quando è fatta con questa appassionata dedizione. Consigliatissimo. Robert Wyatt - "Cuckooland" (Hannibal/Rykodisc, 2003) Ogni nuova incisione di Robert Wyatt è fatalmente un evento, poiché il riconosciuto alfiere della musica alternativa inglese (Canterbury School e zone limitrofe), a partire dalla sua prima volta da solista ("The end of an ear", 1970) non ha pubblicato fino ad oggi che pochi titoli, quasi tutti memorabili. Più che mai a suo agio nel suo angolo di mondo, circondato dalla stima generale di amici, colleghi e fans, Wyatt si presenta finalmente con questo nuovo disco. Prevedibili, e già verificati, i commenti acidi degli oltranzisti del nuovo a prescindere: musica vecchia, suoni che si ripetono, atmosfere datate. Forse è vero: ma non potrebbe star qui il vero motivo che rende "Cuckooland" un piccolo gioiello, nonostante tutto? Il musicista è come sempre in buona compagnia: oltre ad Alfreda Benge, compagna inseparabile nella vita e nel lavoro, troviamo nel disco personaggi come Brian Eno, David Gilmour e Phil Manzanera, nel cui studio è appunto registrato l'album. Volendo essere pignoli, "Cuckooland" non è un capolavoro: forse è troppo lungo, ad esempio, cosa che incrina la tenuta complessiva della raccolta. Eppure anche questo sembra un dettaglio, perché il disco alla fine, e come sempre, conquista col suo timbro strumentale trasognato, ipnotico, spruzzato di jazz crepuscolare e malinconia ammaliante. E' il caso di "Beware", composto dalla brava Karen Mantler, con la tromba e la voce di Wyatt protagoniste con la loro classica gentilezza di tocco. Nella dimensione un poco uggiosa e molto britannica del disco si aprono in realtà parentesi che spaziano dall'omaggio al Brasile di Jobim e DeMoraes ("Insensatez") al quadro nostalgico di "Old Europe", affogato in un morbido jazz evocativo di cantine fumose e giovanili ricordi del periodo parigino dei primi Soft Machine, con il sax e il clarinetto di Gilad Atzmon in bella evidenza. Il Wyatt di oggi conserva il sorriso e l'umiltà dei tempi migliori, temperati da un cauto scetticismo di fondo, che deposita un velo disincantato sui brani e sulla società odierna frastornata ("Tom Hay's fox") che finisce spesso per accodarsi passivamente ("Life is sheep", ancora scritto dalla Mantler). Eppure, a ben guardare, non c'è rinuncia né astioso cinismo nel disco, quanto la volontà ostinata del ricordo e della testimonianza: "Lullaby for Hamza" saluta il bambino iracheno venuto al mondo mentre iniziava il bombardamento americano nella prima Guerra del Golfo, così come "Forest" è dedicato al popolo zingaro perseguitato da sempre, spesso nel silenzio, ed è una melodia dolente e orgogliosa insieme. Ho lasciato in fondo due gemme, forse le più rappresentative dello stile inconfondibile di Wyatt. "Cuckoo Madame" è un episodio struggente, fuori dal tempo, un incantesimo di voci commosse e tastiere colanti che sembrano sgorgare dalla stessa fonte miracolosa di "Rock Bottom", capolavoro assoluto di Wyatt. La delicata "Foreign accents", invece, è ancora un omaggio alla memoria: il cantante ricorda la scelta coraggiosa di due persone, lo scienziato israeliano Mordechai Vanunu, che denunciò la preparazione di armi atomiche nel suo paese, e Mohammad Mossadegh, primo ministro iraniano deposto con la forza da inglesi e americani solo perché voleva nazionalizzare il petrolio. Senza retorica, con la sua voce quasi sussurrata, Wyatt intona una cantilena minimalista dove i nomi dei due uomini si alternano a quelli delle due città martiri del Giappone, Hiroshima e Nagasaki. A volte il genio è semplicità che si fa poesia: "arigato" (grazie in giapponese) canta Wyatt, e non c'è altro da dire. Il disco vale l'acquisto, oltre al resto, anche per due piccole-grandi invenzioni come queste. Arigato, mister Wyatt. Muse - "Absolution" (East West/Taste, 2003) Il brit-pop di questi tempi si fa ambizioso, e tende alla contaminazione di lusso in cerca di consacrazione. Il trio Muse, al terzo album ufficiale, ammanta così la propria ispirazione di arrangiamenti sontuosi che rivestono le linee melodiche di questo "Absolution" di un fascino ambiguo, che cattura comunque l'attenzione in un mix di potenza sonora, virtuosismi vocali e malinconiche introspezioni dal refrain quasi sempre vincente. Quattordici le tracce del disco, e praticamente nessun punto debole: il piano a martello di "Apocalypse please", tra i momenti più alti, apre la strada alla vibrante voce solista di Matthew Bellamy, che scrive tutte le liriche, e le interpreta con l'enfasi giusta. Sulla stessa falsariga sono pezzi di uguale impatto melodico, come "Time is running out" e anche "Stockholm syndrome", che testimoniano di una potenza sonora notevole per un semplice trio: ottima la dinamica batteria di Dominic Howard, in particolare, essenziale in questo suono estremamente compatto e fluente. Rispetto ai compatrioti Radiohead, ad esempio, i Muse mostrano un'anima meno sperimentale, con tutti gli spigoli riassorbiti nel flusso di un pop sovrarrangiato, che punta sempre a stordire con le sue armonie strutturalmente lineari ma confezionate a puntino, che fanno breccia fin dal primo ascolto. Quando si fa luce una vena diversa è l'effetto sapiente degli archi (la delicata preghiera di "Blackout"), o l'atto di contrizione di "Sing for absolution", malinconia senza tempo, ma gli umori dominanti sono la scorribanda elettrica di "Hysteria" o l'energico rock di "The small print", episodi dove l'incisiva presenza della voce multiforme di Bellamy bilancia le sfuriate della chitarra in un impasto indubbiamente efficace. Il piccolo capolavoro è in coda: si chiama "Ruled by secrecy" e si sviluppa s'un pianismo romantico e prezioso che viene da lontano, sul quale il cantante trova accenti particolarmente ispirati. I Muse fanno canzoni, in fondo, ma sanno rivestirle come pochi e qualunque sia il registro che scelgono, in ogni caso, lo valorizzano sempre al meglio. "Absolution" è perciò un disco di buon livello e non deluderà chi cerca vibrazioni di qualità anche nel contesto del pop più smaliziato di oggi. Groovector - "Enigmatic elements" (Mellow Records, 2003) Ascoltando questa seconda prova dei finlandesi Groovector viene da pensare che tanti esperimenti cervellotici o forzature di vario genere, non sono affatto indispensabili, né sufficienti, per suonare della buona musica. Questo solo per dire che, ad un primo ascolto, "Enigmatic elements" non sembra neppure un disco così straordinario: gli elementi, per restare al titolo, non sono poi così enigmatici e complessi, e tutto fila via piuttosto liscio. E invece no: poco a poco il paesaggio sonoro creato dal quartetto (tastiere, chitarra, basso, batteria) si svela in tutta la sua ricchezza di sfumature, e ci si accorge che la linearità apparente di certi passaggi strumentali è piuttosto il frutto di una coesione invidiabile tra i musicisti, che permette loro di assemblare questo mosaico riuscito di tessere acustiche e melodiche con sterzate elettriche e jazzate, a volte rarefatte, a volte più corpose. Il tessuto strumentale si concentra sul piano elettrico e l'organo di Mikko Heininen , che oltre a cantare firma gran parte del materiale col bassista Teemu Niemelä, e sulle calibrate impennate della chitarra solista (Rauli Viitala): un buon esempio è proprio l'attacco di "Remember", mentre "Never growing old" abbina una melodia malinconica, e un'efficace gioco di voci, a una parte strumentale di squisita fattura per organo e pianoforte. Il meglio però sta forse nei brani dove risulta decisiva l'aggiunta del sax ospite di Risto Salmi: "First flakes" è ancora sospesa come un vero acquerello nordico di luci e spazi rarefatti, ma "Your light", in particolare, è uno dei piccoli gioielli di tutta la raccolta, con il tema lirico al centro di eleganti ricami di sax, e un finale da brivido grazie allo splendido ingresso del basso sul tema dominante. Sembra proprio un perfetto riassunto delle migliori qualità dei Groovector, la cifra esatta del loro succoso minimalismo dalle mille risorse. E' una musica che affonda i suoi artigli quando sembra già avvitarsi indolente nelle sue pacate atmosfere, come succede prima in "Nordic night", con la chitarra heavy di Seppo Tyni (altro ospite del disco) che irrompe corposa nella delicata trama distillata dal pianoforte per condurla altrove, e poi nella stessa title-track, dove è l'organo a dirottare energicamente il pezzo, lasciandolo poi vibrare sulle corde della chitarra solista. Il vero colpo di coda dell'album sta proprio in fondo, in "Rain on", prima avviato su scorrevoli vie di marca lounge, addirittura, e poi travolto dall'incascendente dialogo ravvicinato di sax e chitarra, in un numero di alta scuola. Insomma, "Enigmatic elements" offre un piatto estremamente saporito, da parte di un gruppo che mostra di saperci fare davvero, e senza clamori ed effetti speciali realizza a suo modo un piccolo-grande manifesto di moderna prog-music che non deluderà le vostre attese. Indaco - "Terra Maris" (Helikonia, 2002) E' sempre un piacere imbattersi in dischi come questo: le proposte a nome Indaco hanno come filo conduttore un senso molto aperto e collettivo del fare musica che traspare anche dall'organico mutevole e ovviamente dalle scelte sonore. Intorno al nucleo storico dell'ensemble romano, costituito nel lontano 1992 da Mario Pio Mancini (bouzuki e violino) con Rodolfo Maltese e Pierluigi Calderoni (entrambi ex- Banco), insieme a Luca Barberini (basso), Carlo Mezzanotte (tastiere) e il percussionista Arnaldo Vacca, troviamo stavolta uno stuolo di nuovi compagni di strada. Tra questi si segnala soprattutto la cantante Gabriella Aiello, molto efficace, ma qua e là si apprezza il contributo di vecchie volpi e talenti affermati come Mauro Pagani, Eugenio Bennato e Andrea Parodi (inconfondibile voce dei Tazenda). "Terra Maris", bellissimo titolo per una sequenza di suoni altrettanto evocativa, allinea undici tracce che ancora una volta lasciano emergere echi multietnici, voci e ritmi di pregevole qualità, che spaziano dal mediterraneo profondo e dolente di "Amargura", firmata e interpretata da Parodi nella sua lingua sarda, ai chiaroscuri spagnoleggianti di "Umbras" (firmata ancora da Parodi con Francesco Sotgiu), per la voce della Aiello, fino al manifesto più sociale e polemico di Eugenio Bennato, coautore e interprete di "Terza qualità", ben calato nel paesaggio contraddittorio ma fecondo dell'Italia di oggi. Armonie vocali senza tempo e nuovi orizzonti s'incrociano in una trama musicale sempre fresca, pulsante, godibile eppure mai banalmente prona alla babele ammiccante di tante proposte in chiave world: perché qui, accanto alle voci e alle parole, sentiamo anche la vitalità e lo slancio di musicisti di razza, che arrivano spesso da percorsi diversi, ma sanno poi fare lega nel nome della musica. Rodolfo Maltese, alla chitarra e ai fiati, si fa apprezzare soprattutto nella finale "Puja", con il suo flicorno che suggella il disco in una dimensione ariosa, insieme al violino di Mancini e al pianoforte elegante di Carlo Mezzanotte. Ma sono da segnalare anche "D'oriente", l'apertura nel segno vocale di Gabriella Aiello, e un altro strumentale molto efficace, "Concentrico": un tema che insiste a spirale, davvero accattivante nella sua tensione ritmica. Più composito l'episodio di "Aran", bell'incontro di jazz e folk, con gli strumenti a corda dialoganti con il sax. La curiosità è invece offerta da una versione tutta speciale della classica "Norwegian wood" dei Beatles, riletta in una inedita veste etnica. In conclusione, questa bella realtà che gli Indaco rappresentano da qualche anno nella scena italiana, colpisce ancora nel segno restando ancorata all'idea di partenza: "Terra Maris" è infatti un esempio di musica senza frontiere, antica e moderna insieme, praticamente un mobile mosaico di suggestioni che somiglia al tempo in cui nasce. La Maschera di Cera - "Il grande labirinto" (Mellow Records, 2003) Riassunto delle puntate precedenti, a beneficio dei più distratti: prima vengono i Finisterre, quindi l'ensemble Hostsonaten, i Finisterre si sciolgono, e nascono altri progetti dalle sigle intriganti, poi rinascono i Finisterre, ma intanto ha preso corpo anche la qui presente Maschera di Cera...Dietro questo florilegio di band più o meno estemporanee c'è sempre Fabio Zuffanti, autentico re Mida del progressive italiano di questi anni: ogni sua idea vede la luce, intanto, e di questi tempi non è poco. Segno che ormai si è guadagnato un suo credito presso la discografia di nicchia, e sa giocarselo sempre al meglio. "Il grande labirinto" è il secondo titolo pubblicato con la sigla della Maschera di Cera, una formazione che nasce allo scopo dichiarato di tenere vivo il retroterra di certo prog classico datato anni Settanta. L'intelligenza dell'operazione, comunque, sta nel portare il gioco sempre un poco oltre il déja vu, per evitare il rischio di fare archeologia musicale, e cadere nel puro Regressive. E' quello che riesce in questo album a Zuffanti e soci, nonostante le premesse tutte rétro: un concept-album, par di capire, che cattura un viaggio interiore sull'orlo (e oltre) dell'abisso esistenziale. Il tutto condito, va da sé, da quel margine di ambiguità e non detto che costituisce il sale di certi progetti, oltre all'oscurità programmatica delle scelte musicali. Se "Il grande labirinto" è un disco riuscito è anche merito di Alessandro Corvaglia, una voce solista finalmente all'altezza del tessuto musicale, anche se forse alcuni capitoli del racconto peccano di qualche lungaggine lirica. L'appunto, del tutto trascurabile, riguarda soprattutto la seconda parte di "Viaggio nell'oceano capovolto", che pure ha dei momenti grandiosi, all'altezza di "L'ultimo giro" in particolare: il gioco ritmico si avvita davvero a spirale, con l'ottima performance del batterista Marco Cavani, assieme all'organo Hammond di Agostino Macor e al basso dello stesso Zuffanti, in un impasto mozzafiato. Tutto il disco è strutturato come un efficace contrappunto di tonalità scure, introspettive, e toccanti aperture, in un crescendo dove la stessa qualità tecnica della band, sebbene altissima, è surclassata dal fattore emozionale: nella title-track, ad esempio, il cantato è spezzato da ficcanti inserti di flauto (il bravo e decisivo Andrea Monetti) e acide sonorità, mentre il mellotron e il pianoforte volano altissimi secondo un disegno drammatico che aggiorna brillantemente la lezione di capiscuola come il Balletto di Bronzo. Lo stesso avviene in "Ai confini del mondo", una sorta di testamento estremo: difficile resistere al pathos di questo canto limpido e vibrante, che alla fine sembra svincolarsi dalla morsa spigolosa di flauto e chitarra, e innalzarsi sulle ali del mellotron. Sarebbe già molto, ma bisogna spendere una parola per un pezzo tutt'altro che facile, eppure squisito, come "Il canto dell'inverno", magistrale paesaggio interiore per il pianoforte inquietante di Macor e l'oboe di Antonella Trovato. Lo stesso tema ritorna, amplificato, anche nello splendido finale ("Viaggio nell'oceano capovolto parte 2"), in una progressione veramente intensa. Alla fine, "Il grande labirinto" è un disco prossimo al capolavoro, ben concepito e suonato anche meglio, dunque da non lasciarsi sfuggire. E Fabio Zuffanti, forse, dovrebbe insistere e puntare tutto su questo gruppo di validi musicisti, a cominciare dalla bella voce solista, a costo magari di accantonare (momentaneamente!) qualche altro progetto. Perchè, con queste premesse, ha molte possibilità di lasciare un segno ancora più forte nel panorama musicale italiano: è un augurio. Sigur Rós - "( )" (Fatcat records, 2002) E' un'impresa valutare un disco come l'ultimo realizzato dalla band dei quattro giovani islandesi: enigmatico sin dal titolo che non c'è, perchè le due parentesi non contengono parole, questo è un album tutto da ascoltare lasciandosi invadere da ogni singola nota, e sgombrando il campo da qualsiasi parametro. E' una sequenza di otto tracce, naturalmente senza titolo anch'esse, che a sentire il gruppo sarebbe poi divisa in due parti ben distinte (più leggera nelle prime quattro tracce, più melanconica nelle restanti), e che il cantante e chitarrista Jón Þor Birgisson (Jónsi) canta oltretutto in una lingua tutta sua, soprannominata hopelandic, uno strumento in più, e suggestivo quanto mai, nel cuore di questa miscela al tempo stesso elementare e ardita. Elementare perché indubbiamente le atmosfere sono molto minimaliste, basate s'un lento crescendo d'intensità strumentale e vocale, senza grossi strappi ritmici; ma anche ardita, proprio per il rigore assoluto, tetragono a ogni scorciatoia, che caratterizza l'operazione per oltre settanta minuti. Se le prime tracce hanno un tratto più impressionista e raccolto, le altre si caricano via via d'una impronta più incombente, come un paesaggio sinistro che si svela lentamente. Elettronica a volontà, per le tastiere di Kjartan Sveinsson, ma anche il sofisticato apporto di un quartetto d'archi, che immerge il tono generale dentro una dimensione singolare, in bilico tra un sinfonismo intimista e una ricerca di purezza che non sopporta etichette. Liquida, fluida, a volte rarefatta fino al silenzio (come quello prolungato tra i brani 4 e 5 che separano appunto le due anime del progetto), la musica degli ultimi Sigur Rós non ama le trame troppo dinamiche, così che la batteria di Orri Páll Dýrason si sceglie spesso un ruolo di soffice accompagnamento jazz, per non scalfire la soffusa e dominante vena crepuscolare, o scandisce enfaticamente il pathos drammatico. Non è un ascolto facile, ma certo un disco come questo non lascia indifferenti: la voce solista ammalia, come un richiamo lanciato nel cosmo per essere raccolto, e forse condiviso, insieme alle lunghe e circolari note di pianoforte organo o chitarra che si avvitano a spirale in cerca di una liberazione che forse non esiste. Quando quest'appello ricade, il suono si ammanta di un colore più scuro, venato di una tristezza a volte insostenibile, eppure anche tremendamente affascinante, commovente. Il momento più potente, con un ruolo più decisivo delle percussioni nella progressione, è forse la traccia Sette (con il corollario dell'ottava e ultima) ma mai come in questo caso si deve parlare di un disco fortemente unitario e compatto. Un ascolto è sicuramente consigliato, perchè i Sigur Rós possono piacere o meno, ma più ancora dei cugini Radiohead (col quale hanno effettivamente dei punti di contatto), perseguono il loro stile, la loro poetica di base, con una coerenza intatta e perfino ostinata, che appartiene agli artisti di razza fedeli soltanto al proprio mondo interiore. Quello che hanno messo tra parentesi, perché ogni ascoltatore scenda a cercarlo, forse a riconoscerlo, con loro. Porcupine Tree - "In absentia" (Lava Records, 2003) Il nome dei Porcupine Tree si è imposto nel corso degli anni Novanta come una delle più autorevoli bandiere del rock alternativo inglese, sia pure attraverso fasi disuguali, per la brillante capacità di spaziare dalla psichedelia degli esordi alle sonorità progressive in perenne evoluzione. A conferma di quanto appena detto, questo nuovo album ripropone un quartetto che, sotto la guida di Steven Wilson, dimostra la grande maturità di un progetto perfettamente dentro il proprio tempo, nei suoni come nei testi, in una riuscita mescolanza di utopia e consapevolezza. Le dodici tracks del disco (ma l'edizione europea qui in esame si avvale di un secondo CD con tre pezzi alternativi) riesce nell'impresa di conciliare gli umori più acidi con la poesia malinconica di chi vive ai margini, o, semplicemente, non sa sintonizzarsi sulla realtà in atto. Così accanto alle punte strumentali più abrasive, come "Wedding nails" o l'iniziale "Blackest eyes", fino all'inquietante manifesto di "Strip the soul" (incubo urbano senza risveglio), dominati dalle sonorità più dure e spigolose, vanno pure sottolineati gli episodi più evocativi: su tutti "Heartattack in a layby", di visionaria malinconia, e la toccante "Gravity eyelids", accorata invocazione d'una tregua con un grande lavoro atmosferico di Barbieri, fino alla cantabile e nostalgica "Trains", dominata da immagini e sapori perduti. L'incalzante "The sound of muzak" è invece una denuncia esplicita del potere mistificatorio dell'industria rock, ben scandita dalla ritmica secca e circolare della batteria di Gavin Harrison (ultimo arrivato che ha sostituito Chris Maitland) e con un lungo solo di Wilson nel mezzo del tema dominante. Un paesaggio musicale sempre avvolgente, che cattura però dopo ripetuti ascolti e non subito, proprio in ragione dell'estrema accuratezza del lavoro, un vero puzzle di tessere variegate: il colore dominante è piuttosto cupo, ma la band si mostra capace di aprire la propria musica a scenari suggestivi che vanno verso la speranza, la malinconia (nel convincente ritratto di "Prodigal") o più spesso indagano l'ambiguità dei sogni, come avviene in "The creator has a mastertape", costruito sul basso di Colin Edwin e dilaniato da pesanti scariche elettriche. Le tastiere di Richard Barbieri trovano apparentemente meno spazio, ma con una serie di efficaci accorgimenti elettronici che punteggiano tutto il disco il musicista svolge comunque un prezioso lavoro di rifinitura. C'è da sottolineare anche l'apporto degli archi in "3" e nell'atto conclusivo di "Collapse the light into hearth", con il pianoforte in primo piano sullo sfondo orchestrale. Una chiusura molto poetica per un album di forte e spesso urticante impatto. Difficile davvero citare i brani migliori, ma nella scaletta spiccano forse "Gravity eyelids" e "Heartattack in a layby", eloquenti manifesti della potenza espressiva raggiunta dai Porcupine Tree attuali. "In absentia" è un gran bel disco, sostanzioso e ricco di sfumature, e vi conquisterà se avrete la pazienza di un ascolto non superficiale. Trespass - "In Haze of Time" (Musea, 2002) Quasi a ennesima conferma che ormai, in pieno terzo millennio, il progressive è davvero (e ancora) una musica globale, ecco arrivare questa briosa formazione israeliana, di Gerusalemme, con un album d'esordio davvero incisivo. Si tratta di un trio, sul classico modello di nomi quali E.L.P. e simili, e in effetti se si deve chiamare in ballo qualche nome celebre, quello di Emerson e soci può sembrare il più ovvio. Eppure, attenzione, questi tre ragazzi sono perfettamente in grado di sviluppare un discorso discretamente personale, che nasce da influenze diverse ben digerite, e soprattutto suonano con contagioso entusiasmo dalla prima all'ultima nota delle sette tracce che compongono il disco. Se a dettare i temi dominanti sono le brillanti tastiere di Gil Stein, che viene da studi classici e vanta una precoce esperienza in ambito folk, è anche vero che alla riuscita del disco concorrono in maniera decisiva gli altri due complici: il batterista Gabriel Weissman e il bassista Roy Bar-tour, a loro volta cresciuti tra molteplici esperienze, dal jazz al rock e al blues. In sostanza, a colpire l'ascoltatore è appunto la grande compattezza sprigionata dalla musica dei Trespass: è un suono sempre dinamico e particolarmente generoso di spunti, imprevedibile, che lascia intravedere un perfetto affiatamento e una eccellente preparazione tecnica. Tutti i brani sono di ottimo livello, ciascuno a suo modo: il più ritmico, con una bella performance di basso e batteria, è forse lo strumentale "Gate 15", incalzante manifesto di jazz-rock moderno, mentre episodi come "Orpheus suite" mostrano un passo più classicheggiante e barocco, corroborato però da ficcanti cambi di tempo che esaltano il peculiare dinamismo del gruppo. Le tastiere elettroniche di Gil Stein sono pure l'anima di "Troya", ancora irrorato dallo splendido lavoro della sezione ritmica. Tra i brani cantati in inglese dallo stesso tastierista, si segnalano l'iniziale "Creatures of the night", e la movimentata "City lights", con organo e piano a guidare le danze. Forse però il pezzo forte dell'album è proprio la title-track, "In haze of time": il fraseggio all'organo e la dimensione sospesa delle liriche si sommano qui a un tema di particolare efficacia, che scandisce splendidamente il brano, con il canto solista di Stein e gli impasti vocali sempre efficaci. Non c'è che dire: i Trespass si presentano sulla scena del progressive odierno con un biglietto da visita di tutto rispetto, e promettono di restarci a lungo. E' l'augurio che facciamo loro, come a chiunque dimostri certe qualità. Il disco è vivamente consigliato a chi crede che il termine progressive abbia davvero un senso. Eclat - "Le cri de la terre" (Musea, 2002) Questo quartetto francese esce con un album dal titolo suggestivo che solo in parte, però, mantiene le sue promesse. Le nove tracce in scaletta sono ben suonate, intendiamoci, e mostrano una discreta coesione interna, del resto abbastanza normale per una band attiva ormai dai primi anni Novanta, eppure la musica proposta lascia alla fine una strana impressione, non del tutto soddisfacente. Forse bisognerebbe interrogarsi su cosa sia e debba essere, oggi, il progressive: ripetere formule già affermate, se non abusate, o ricercare, a costo di fallire, una nuova strada. Perché gli Eclat sanno sicuramente come imbastire un gradevole frullato a base di belle tastiere dal timbro romantico e classicheggiante (Thierry Massé), incisivi break di chitarra (Alain Chiarazzo, che compone e canta) e una sezione ritmica dinamica che fa il suo dovere, ma tutto quello che sentiamo non ci esalta, non riesce mai a sorprendere davvero. Forse l'idea di un disco prevalentemente strumentale non è stata felice: l'unico titolo cantato, infatti, "La vie du Sonora", risulta tra gli episodi più gradevoli. In "Mr Z" l'atmosfera è ariosa e solare, con la chitarra che però allunga fin troppo il brodo, mentre il sintetizzatore colora lo sfondo senza troppa fantasia. Insomma, riposante, ma alla fine manca sempre l'affondo vincente capace di rendere un disco in qualche modo memorabile. In questo senso, "Horizon pourpre" è almeno più esotica e potente, nel suo incedere spezzato e orientale, con l'apporto di un bel violino e basso e batteria che si divertono a improvvisare in uno stile etno-fusion. Meno convincenti gli altri brani, dove le discrete qualità tecniche non si accompagnano quasi mai a invenzioni veramente originali, anche se "Eternité" è un dinamico rock per organo e chitarra di buon effetto. Un disco che in fondo si ascolta anche con piacere, ma non lascia tracce profonde. Hostsonaten - "Springsong" (Sublime, 2002) Ecco uno di quei dischi che non troverete mai in cima alle classifiche, che pochi si prenderanno la briga di recensire o solo segnalare sui media dei grandi numeri: forse, viene da pensare, proprio in ragione del valore della musica in questione? Già: perchè "Springsong", il nuovo, splendido album firmato dall'ensemble Hostsonaten (vale a dire una delle molte incarnazioni del prolifico Fabio Zuffanti), è una vera meraviglia sonora, che sembra sgorgare da un altro tempo, un'altra concezione della musica. Niente effetti speciali, nessuna forzatura, nè, tantomeno, la ricerca esasperata del brano giusto per radio e tivù: macché, qui impera ancora il gusto dell'arazzo musicale da coltivare in pace, fuori dalle ossessioni del mercato e dei suoi compromessi. Eppure fa quasi rabbia che un disco del genere debba restare patrimonio di pochi eletti, all'interno di un circuito chiuso (quello del progressive per capirci) che proprio non si riesce ad allargare a un pubblico distratto, confuso e sviato da altri miraggi a buon mercato. Il bassista e compositore Zuffanti, già anima dei validi Finisterre, ha concepito davvero un progetto seducente, ispirato come da titolo alle suggestioni della stagione primaverile: esclusivamente strumentale, l'album si compone di nove episodi trasognati, tutti suonati con ammirevole perfezionismo eppure sempre in grado di colpire al cuore. Nel complesso e articolato affresco spiccano soprattutto le delicate armonie del flauto di Francesca Biagini, l'eclettico violino di Sergio Caputo e le chitarre, acustiche ed elettriche di Stefano Marelli, anche lui compagno di strada con i Finisterre. Il basso del leader dal suo canto non si limita al mero supporto ritmico, e svolge una funzione discreta ma essenziale in un sound sempre rotondo e corposo, arricchito spesso dal mellotron di Agostino Macor. Ma i singoli musicisti, ecco quel che conta, riescono a suonare davvero insieme con una scioltezza esemplare, lontani da tentazioni virtuosistiche e del numero ad effetto: dalla morbida apertura di "In the open fields" alla bella minisuite di "Toward the sea", divisa in tre tempi, che amalgama i diversi temi portanti del disco, "Springsong" fluisce come una vera sorgente di armoniosa e cristallina bellezza, privilegiando spesso la dimensione acustica, a tratti rarefatta, salvo aprirsi poi a passaggi più mossi e increspati ("The underwater" ad esempio), con il sax di Edmondo Romano e il pianoforte di Boris Valle eccellenti nel fraseggio jazzato, o alla ritmica danza campestre di "Evocation of Spring", mentre il leiv-motiv più insistente è il richiamo alla tradizione celtica. La produzione, per finire, è impeccabile: i suoni e gli arrangiamenti sono eccellenti, così come la preziosa confezione cartonata, finemente illustrata. Insomma, un disco del genere è da non perdere, anche se il progressive vi lascia indifferenti: questa è grande musica, e basta. Pat Metheny Group - "Speaking of now" (Warner Bros, 2002) Nell'ambito della moderna fusion il nome di Pat Metheny ha da anni un suo posto ben preciso. Il chitarrista ha ormai uno stile riconoscibile, sia nelle prove firmate da solo sia con il suo gruppo di sempre (messo insieme nel 1977) come in quest'ultimo lavoro, che ripropone il fido tastierista Lyle Mays, accanto al bassista Steve Rodby, Antonio Sanchez alla batteria, e ancora Cuong Vu alla tromba e il camerunense Richard Bona, impiegato alla voce e alle percussioni. La presenza di quest'ultimo musicista offre indubbiamente alcune suggestioni inedite alla musica più tipica del gruppo: le trame sonore, jazzate e malinconiche, centellinate dalla chitarra di Metheny, si aprono così a momenti più evocativi e solari, ad esempio in "You", splendida ascensione di note rarefatte che sale in ariose spirali intorno al canto, o anche in "Another life". Sono brani sorretti per altro dal consumato amalgama tra Metheny e gli altri compagni di viaggio, a cominciare da Mays, che si adopera soprattutto al pianoforte con grande sapienza e versatilità, ad esempio in "A place in the world", lussureggiante composizione che sa riunire sapori diversi in una miscela sempre accattivante. Spicca qui l'altro elemento portante di questo sound, la tromba di Cuong Vu, che sa ritagliarsi un suo spazio discreto ma elegante tra la chitarra del leader e le tastiere. In "On her way" Metheny scherza su brillanti atmosfere vagamente sudamericane, mentre la prova d'insieme più intensa dell'album è sicuramente la lunga "Proof", oltre dieci minuti di seducente jazz multicolore, più volte scomposto e ricomposto da una band veramente affiatata attorno al suo leader. Più atmosferico che veramente sperimentale, sinuoso e sempre legato ai colori di un pomeriggio che scorre sornione e indolente, come nel breve episodio di "Afternoon", "Speaking of now" non deluderà sicuramente i fans di Metheny e magari gliene porterà di nuovi, catturati nell'ariosa rete di suoni che ancora una volta il talentuoso chitarrista ha saputo tessere. Le Orme - "Elementi" (Crisler, 2001)
A cinque anni da "Il fiume", il gruppo guidato da Aldo Tagliapietra e Michi Dei Rossi, torna con un disco dedicato ai quattro elementi naturali, che si avvale tra l'altro di una copertina firmata da Paul Whitehead (autore delle più note cover dei Genesis). Diciamo subito che rispetto a quell'album non si registrano novità significative: e questa è già una bella notizia, se consideriamo alcune deludenti performances di altri nomi storici del panorama italiano. Le Orme invece, ancora attive dopo tanti anni di luci e ombre (vedi la scheda |