Classici e capiscuola del Rock Progressivo Italiano

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Le Orme   Osanna   Perigeo   Premiata Forneria Marconi  Quella Vecchia Locanda   Stormy Six





LE ORME

Il nome delle Orme, gruppo di origini veneziane, ha attraversato ormai diversi decenni della musica italiana. Fondato nel 1966 da Aldo Tagliapietra (voce, basso e chitarre), Marino Rebeschini (batteria), presto rilevato da Michi Dei Rossi, più Nino Smeraldi e Claudio Galieti, il gruppo passa per alcuni timidi successi a 45 giri, da "Senti l'estate che torna" (1968) a "Milano 1968", prima di incidere nel 1969 il primo album, "Ad gloriam", con l'arrivo in organico del tastierista Toni Pagliuca. E' un disco molto importante, perché mescola ai sapori del beat più ingenuo dei pezzi già usciti come singoli, anche suggestioni psichedeliche ancora inedite in Italia: brani come "Oggi verrà", "Fumo", o "Non so restare solo", che si sforzano di coniugare un'ispirazione melodica al rock più moderno. Tra qualche trovata rumoristica e la beffarda ironia della title-track, e al di là dei risultati, l'album ha comunque un suo valore storico non trascurabile per la nostra scena musicale.

Quando Galieti e Smeraldi lasciano, all'indomani dell'album-raccolta "L'aurora" (1970), i tre rimasti, cioè Pagliuca, Dei Rossi e Tagliapietra, scoprono in Inghilterra gruppi come i Nice di Keit Emerson, e decidono di continuare nella stessa formazione triangolare. Il risultato è "Collage" (1971), primo di una lunga serie di album destinati al successo. La novità, pur tra qualche ingenuità giovanile e il sapore ancora acerbo di alcuni passaggi, sta nelle sonorità sperimentali di "Evasione totale", ma soprattutto nei larghi spazi strumentali di "Cemento armato" e della briosa title-track, in pieno clima barocco, dominati dall'organo e dal basso, e nell'abilità di mescolare queste innovazioni con la melodia non banale di "Morte di un fiore", o "Sguardo verso il cielo", uno dei grandi cavalli di battaglia delle Orme: brani, come pure "Era inverno", che si giovano oltretutto di liriche molto buone, in grado di esprimere realtà non facili con estrema semplicità poetica. L'album è una tappa epocale, poiché fa in pratica da apripista alle altre band italiane che verranno, e inaugura il filone tutto italiano del rock progressivo propriamente detto.

Baciato subito dal successo, il trio replica con "Uomo di pezza" (1972, a sinistra), il loro disco più venduto, che mostra le medesime qualità del precedente, in una sequenza ugualmente composita e tecnicamente più rifinita. Dalla classicheggiante atmosfera di "Una dolcezza nuova", col pianoforte in evidenza, all'organo più aggressivo de "La porta chiusa", al synt che caratterizza "Figure di cartone" e lo strumentale "Alienazione", e alla bella dimensione psichedelica di "Aspettando l'alba". Ma la pietra dello scandalo, si fa per dire, è il brano più breve, "Gioco di bimba", che nella sua semplicità naive, in realtà molto 'consumata', finisce tra i singoli più venduti dell'anno, destando malumori e polemiche. Oggi c'è da ridere, ma in quei tempi, avere successo commerciale era sinonimo di scarsa qualità, anche se l'intera scaletta dell'album è comunque un classico della musica italiana e il brano in questione conserva ancora oggi il suo fascino. Inizia da qui, comunque, una lunga e sterile diatriba tra detrattori e sostenitori del gruppo veneto: sterile perché basata, appunto, su premesse francamente risibili.

La realtà è che il successivo disco "Felona e Sorona" (1973, a destra), un 'concept' in stile 'fantasy' su due pianeti gemelli e complementari, mette tutti d'accordo: è un album memorabile, dove Pagliuca e Tagliapietra (la coppia che firma il materiale) sembrano toccare l'apice creativo. L'iniziale "Sospesi nell'incredibile" è una pietra miliare del 'progressive' italiano: Pagliuca disegna un magico tappeto di polvere stellare sul quale il basso ricama incrociandosi col drumming potente e variegato di Dei Rossi, e la voce illustra brevi immagini sospese. Incastonato nel corpo di questa dimensione siderale spicca un inserto melodico di grazia cristallina, come "Felona", che testimonia una tendenza alla sintesi per immagini tipica del gruppo. E ancora, in sequenza, la malinconia metafisica de "La solitudine di chi protegge il mondo", per pianoforte e voce, prima di un altro miracolo di sintesi come "L'equilibrio", giocato su sincopi ritmiche e meravigliose aperture di tastiere, col contrappunto serrato di basso, e , in coda, un grandissimo lavoro di un Pagliuca scatenato, che si destreggia tra pianoforte e synt. Appena meno brillante la seconda parte (forse perché dedicata alla cupa Sorona), che pure presenta altri momenti notevoli: la limpida chitarra di Tagliapietra nell'arioso "Ritratto di un mattino" , e il gran finale, in chiave strumentale, di "Ritorno al nulla", con Dei Rossi che lavora benissimo coi piatti in un crescendo drammatico che suggella una storia essenzialmente allegorica, e non così insulsa come si vorrebbe. Un album, questo, che piacque molto a Peter Hammil dei VDGG, il quale poi tradusse i testi nella versione inglese del disco (per l'etichetta Charisma), quando Le Orme effettuarono anche un tour di buon successo in Inghilterra.

A questo vertice, e dopo "Le Orme in concerto", primo vero 'live' del rock italiano, con la lunga e inedita "Truck of fire", segue un album controverso come "Contrappunti" (1974, qui a sinistra). In questo caso cresce notevolmente il ruolo di Giampiero Reverberi, fedele produttore del gruppo, il quale suona in prima persona le parti di pianoforte. Ambizioso rock barocco e sinfonico spinto in direzione sempre più colta e cerebrale, il disco guadagna a un riascolto attento, proprio perché molto impegnativo e sofisticato nella scrittura strumentale. E' il caso, soprattutto, della elaborata title-track iniziale o del "Notturno", rarefatto quadro da concerto classico, con interessante dialogo tra synth e pianoforte. Ma non mancano brani dove la dimensione rock del gruppo prende il sopravvento: soprattutto "Maggio" e "La fabbricante d'angeli", con liriche piuttosto scottanti, tra l'altro. Il primo critica l'ambiguo umanitarismo della Chiesa, mentre il secondo si esprime a favore dell'aborto legalizzato, e non a caso viene censurato dalla RAI: tematiche delicate, come sempre risolte in eleganti metafore. "India" condanna il governo indiano che prepara la sua bomba atomica nella nera miseria del paese, mentre "Frutto acerbo", con la sua delicata dimensione acustica e crepuscolare, è un piccolo gioiello dedicato al sesso difficile in un paese pesantemente cattolico come l'Italia. Infine il vivace strumentale "Aliante", costruito s'un felice spunto ritmico della batteria che prepara il volo delle tastiere.

Una certa freddezza imputata comunque all'album, e che il gruppo riconosce a posteriori, porta Le Orme a cambiare indirizzo, all'indomani del singolo "Sera". Si apre un periodo più mosso, a partire da "Smogmagica", inciso nel 1975 a Los Angeles: per la prima volta dal '69 al terzetto si affianca una chitarra stabile, in questo caso l'ottimo Tolo Marton, che in pratica recita la parte del leone in tutto l'album. Per quanto lo stacco col passato sia notevole, non si può discutere la qualità di brani come "Los Angeles", la trasognata "Amico di ieri", ma soprattutto la splendida "Laserium Floyd", immersa in una sofisticata atmosfera che riluce di sapienti synt e di un magnifico finale, davvero per palati fini. Ancora all'estero, per l'esattezza a Londra, Le Orme realizzano poi "Verità nascoste" (1976). In questo caso però alla chitarra non c'è più Marton, in disaccordo col gruppo, ma il giovanissimo Germano Serafin, che mostra buona personalità con alcuni 'solo' molto incisivi: è il caso del "Gradino più stretto del cielo", ad esempio, o "Regina al Troubadour", uscita poi con successo come singolo, fino alla traccia forse più bella della sequenza, "In Ottobre": un andamento di rock sincopato con breaks efficacissimi e inserti lirici ad effetto per la voce di Tagliapietra. Comunque è un disco più equilibrato del precedente, con Pagliuca che recupera spazio con le sue tastiere, e momenti molto suggestivi, come nella poetica title-track, per voce e archi, o nella più drammatica "Vedi Amsterdam", incentrata sulle morti per droga.

Ancora con Serafin in organico il gruppo realizza "Storia o leggenda" a Parigi (1977). Stranamente, fin dalla copertina di Mazzieri, molto simile a quella di "Uomo di pezza", la band pare riannodare i fili con una certa vena più 'naive' degli inizi. Eppure, ora ci sono di mezzo anni di esperienza e molti cambiamenti, e si sente: nella spiccata predilezione per la melodia, il disco ha una sua raffinatezza di arrangiamenti che si lascia ascoltare fino in fondo. Basso e tastiere costituiscono un binomio di morbida eleganza, impreziosita dal lavoro discreto della chitarra, e da liriche nostalgiche e volutamente semplici. "Tenerci per mano", che apre il disco, la stessa canzone del titolo, più "Il musicista" ( evidentemente autobiografica) e lo strumentale di coda "Al mercato delle pulci", sono i titoli migliori di un album leggero, ma suonato con classe.

Ma il mercato, avido di novità, mette in crisi anche Le Orme. La parentesi molto coraggiosa dei due album seguenti, "Florian" (1979) e "Piccola rapsodia dell'ape"(1980), suonati con strumenti acustici come violoncello e violino, armonium e clavicembalo, chitarra classica, marimba e percussioni, produce musiche di rara eleganza che non dispiacciono al pubblico, ma tuttavia mostrano che un ciclo è finito. Negli anni ottanta escono "Venerdì"(1981), album transitorio che include "Marinai", pezzo portato a Sanremo, e dopo qualche anno di latitanza un singolo di grande effetto come "Dimmi che cos'è"(1987), ancora presentato al Festival dei fiori. Nel frattempo Serafin ha lasciato il gruppo (morirà precocemente nel 1992), e solo nel 1990 esce un nuovo disco omonimo, prodotto da Mario Lavezzi, con un ritorno alla formazione triangolare. E' un disco che alterna brani gradevoli ("L'universo") ad altri meno felici: decisamente un prodotto non all'altezza del gruppo.

Solo nel 1996, con una nuova formazione, che affianca a Dei Rossi e Tagliapietra i due nuovi tastieristi Michele Bon e Francesco Sartori, esce un bell'album come "Il fiume" (a destra). E' un disco perfino sorprendente per come suona fresco e grintoso, tra tastiere vivaci e qualche solo di chitarra elettrica di Tagliapietra (impegnato anche al sitar), con un'impostazione 'concept' che si richiama all'India: il viaggio del fiume è un'evidente metafora della vita umana.

Un grande ritorno, che deve aspettare ben cinque anni un seguito: l'attesa è comunque ampiamente ripagata dall'uscita di
"Elementi" (2001), ancora in quartetto, ma con Andrea Bassato (tastiere e violino) al posto di Francesco Sartori. Lo spirito, l'entusiasmo e le capacità dimostrate in questo lavoro fanno della band veneta un raro esempio di longevità e coerenza artistica. La conferma è l'uscita, nel 2004, di un altro disco eccellente come "L'infinito". All'inizio del 2008 esce il CD/DVD "Live in Pennsylvania", fedele riproposizione della brillante esibizione della band nel corso del celebre Near Fest di Bethlehem (Stati Uniti).
Nell'autunno 2009 si rompe però il lungo sodalizio tra Aldo Tagliapietra e Michi Dei Rossi: quest'ultimo, dopo molte polemiche, conserva il nome del gruppo e realizza nel 2011 un nuovo disco intitolato
"La via della seta", dove il ruolo di cantante è ricoperto da Davide Spitaleri, a suo tempo frontman dei Metamorfosi. Tagliapietra prosegue invece come solista, realizzando dischi pregevoli come "L'angelo rinchiuso", nel 2013, seguito poi da "Invisibili realtà" (2017).

Dischi consigliati:

  • "Uomo di pezza" (1972)
  • "Felona e Sorona" (1973)

    · Sito ufficiale          Guarda il video di "Felona e Sorona - medley" (Live in ProgFest, Los Angeles 1997)



    OSANNA

    Tra le massime espressioni del progressive italiano, gli Osanna sono anche la meno fortunata, considerando i meriti effettivi della band: la sua parabola maggiore dura infatti pochi anni, ma lascia comunque un segno incisivo sulla scena rock italiana. Il gruppo si forma a Napoli nel 1971, quando al gruppo Città Frontale si unisce il fiatista Elio D'Anna, reduce dall'esperienza con gli Showmen, e già in Febbraio comincia a esibirsi con successo nei locali della città. Dopo aver fatto da supporter all'inglese Arthur Brown, il quintetto guadagna quindi un contratto discografico con la Fonit Cetra.

    "L'uomo" (1971, a destra) è l'ottimo esordio di Lino Vairetti (voce), Elio D'Anna (flauto e sax), Lello Brandi (basso), Danilo Rustici (chitarre) e Massimo Guarino ( batteria). Il rock degli Osanna si distingue subito, nel panorama italiano di quegli anni, per lo scarso peso delle tastiere, a favore di un vivace lavoro congiunto di fiati e chitarre, oltre che per la voce calda e potente di Vairetti. La sequenza, di taglio concettuale, alterna episodi di grande energia ("Vado verso una meta" o "Lady Power") ad altri più lirici ed evocativi ("L'uomo", "In un vecchio cieco"), mentre i testi sono generalmente di buon livello, e soprattutto ben inseriti nel tessuto strumentale, a differenza di altre formazioni italiane. C'è insomma grinta, talento e personalità, e infatti il disco vende discretamente, anche per il trionfo del gruppo nel primo Festival Pop di Viareggio lo stesso anno.

    Segue a questo punto una prova anomala, che conferma comunque il momento felice della band napoletana: si tratta della realizzazione di
    "Preludio, tema, variazioni, canzona" (1972), cioè la colonna sonora in chiave classica del film "Milano calibro 9", di Fernando Di Leo, con l'orchestra diretta da Luis Bacalov. In realtà il compositore argentino, reduce da un'analoga operazione con i New Trolls l'anno prima, firma tre soli pezzi, tra cui "There Will Be Time", una canzone che uscita su 45 giri ottiene tra l'altro un buon successo, mentre il gruppo è responsabile di sette variazioni davvero molto brillanti. Fiati e chitarra sono sempre in primo piano secondo una chiave rock molto dinamica e grintosa: ad esempio "Variazione I"(To Plinius), dal mordente riff chitarristico, e il sax in grande spolvero.

    Quindi arriva "Palepoli" (1973, a sinistra la copertina): è proprio questo il disco che insedia gli Osanna nel piccolo olimpo del rock italiano. Vairetti e gli altri incontrano qui le proprie radici, quella Napoli che pare immutabile nei suoi dilemmi sotto le forme cangianti, e questo magma di umori a contatto con il linguaggio del rock più avanzato produce un'opera densa e complessa, a volte stridente, ma sicuramente vitalissima e di grande impatto. In questi tre brani, e soprattutto in "Oro caldo", evocativa sintesi del paesaggio umano e sociale al centro del progetto, ma anche nella lunga "Animale senza respiro", durissimo atto d'accusa senz'appello, il suono degli Osanna si fa più corposo e variegato, abbracciando il blues e l'hard rock, il jazz e le voci della strada, mentre il flauto di Elio D'Anna si scrolla di dosso il fantasma di Ian Anderson e impazza alla testa d'una tarantella stravolta di rara potenza. Il fiatista è sicuramente uno dei protagonisti dell'album: restano memorabili soprattutto i picchi espressivi del suo sax, unitamente al mellotron e alla chitarra elettrica di Rustici, nei momenti più drammatici della sequenza. Quanto alla voce solista di Vairetti, duttile e sofferta, interpreta magnificamente l'evoluzione emotiva del racconto, tra malinconia, rabbia e nostalgia: il risultato è un grande disco, tra i più originali e generosi contributi della musica italiana al movimento progressive. "Palepoli" fu concepita, va ricordato, come una vera "opera rock" di taglio multimediale (con attori, mimi, danzatori e filmati a integrare la musica) e decisamente moderno: grazie a Tony Neiwiller, regista e scenografo napoletano, la versione teatrale girò infatti per l'Italia dell'epoca con una certa fortuna, sia pure tra mille difficoltà logistiche.

    Il successivo "Landscape Of Life", pubblicato nel 1974, è l'ultimo capitolo di questa fase magica. Non gode generalmente di troppa considerazione critica, perché lascia emergere alcune discrepanze stilistiche, ma in realtà offre ancora ottime cose, a dimostrazione che la classe non è acqua. Tra i momenti migliori si segnalano soprattutto la title-track posta in apertura e "Il castello dell'Es", passando per la cristallina ballata "Fiume", con un testo molto suggestivo, fino all'immaginifico strumentale di coda "Somehow, Somewhere, Sometimes", con chitarra e synth in evidenza. Nell'insieme però il disco è indubbiamente poco omogeneo, e il gruppo, ormai diviso in due anime e attraversato da forti contrasti interni, finisce per separarsi come accade in questi casi.

    Quello stesso anno Rustici e D'Anna, insieme al batterista forlivese Enzo Vallicelli, vanno a Londra, nei rinomati Trident Studios, per incidere a nome Uno un album omonimo diviso in sette tracce, ben prodotto ma senza fortuna (a sinistra), con liriche cantate in italiano e inglese da Rustici. Caratterizzata da echi musicali ancora evidenti del gruppo-madre, è una miscela sonora altalenante, con i fiati di Elio D'Anna in primo piano nei brani più intensi, dalla roccheggiante "Popular Girl" fino a "Stay With Me", contraddistinta dal suo sax. Tra gli altri episodi spiccano soprattutto "I cani e la volpe", ancora con il sax in grande evidenza insieme alle tastiere, e la conclusiva "Goodbye Friend", con l'intervento vocale di Liza Strike, nota per la sua partecipazione a "The Dark Side of the Moon" dei Pink Floyd.

    Da questo stesso nucleo, con l'esclusione del percussionista, nascono quindi i
    Nova, insieme a Franco Loprevite e Corrado Rustici (fratello di Danilo, che lascia dopo il primo disco), noto più tardi come collaboratore di Zucchero: è una band dedita a uno spigoloso e dinamico jazz-rock, con una sezione ritmica esasperata almeno quanto l'uso del sassofono, che incide diversi album a cominciare da "Blink" (1975), dove spiccano brani come "Tailor made" e "Toy". A partire da "Vimana", pubblicato nel 1976, i dischi successivi, tutti realizzati in Inghilterra dove la band si è trasferita, non vengono neppure distribuiti in Italia.
    Dal canto loro, Lino Vairetti e Massimo Guarino danno vita con altri quattro elementi, tra i quali il fiatista Enzo Avitabile, ad un altro gruppo chiamato
    Città Frontale, proprio come il primo nucleo della band. Questa formazione pubblica nel 1975 l'album-concept "El Tor", ispirato nel titolo al colera che colpì Napoli nel 1973 ("el tor" è il termine scientifico del vibrione). Il disco è una discreta fusione di testi molto politici ("Solo uniti" e poi "Duro lavoro", tra i momenti migliori) e vivaci parti strumentali, con la chitarra elettrica, le percussioni di Guarino e soprattutto il sax di Avitabile spesso protagonisti, come nella title-track. Sempre di piacevole ascolto, la sequenza alterna momenti acustici e melodici ("La casa del mercante Sun"), a spunti jazz-rock di buon livello: "Mutazione" ad esempio, con il sax ed il piano elettrico sugli scudi.

    Dopo questa serie di progetti paralleli nel segno della divisione, nel 1978 si realizza invece una ricostituzione degli Osanna, sia pure effimera: Vairetti, Rustici e Guarino sono affiancati in questo caso da Fabrizio D'Angelo Lancellotti (tastiere) ed Enzo Petrone (basso), e danno alle stampe l'album "Suddance". E' un disco indubbiamente ben suonato, tra pregevole jazz-rock (la title-track strumentale) e melodia mediterranea, con i testi spesso in dialetto, anche se lontano dal periodo più ambizioso della band: si segnalano comunque un paio di episodi di ottimo livello, come il grintoso "Ce vulesse" e soprattutto "'A zingara", un vero gioiello valorizzato dal violino di Antonio Spagnolo. La chiusura in lingua inglese di "Naples in the World", invece, sembra puntare al mercato internazionale, anche se l'esperienza non darà i risultati sperati.

    Dopo un lungo silenzio discografico, una nuova edizione della storica band, con i vecchi Vairetti e Rustici più il bassista Enzo Petrone, ha inciso il nuovo "Taka boom" (2001).
    Da una collaborazione live con il noto sassofonista David Jackson (
    VDGG) è nato quindi l'album "Prog Family", pubblicato nel 2009.

    Dischi consigliati:

  • "Palepoli" (1973)

    · Sito ufficiale     Guarda il video di "L'uomo" (Live)    - Leggi i testi di "Palepoli"



    PERIGEO

    Formato a Roma nel 1971 dal contrabbassista Giovanni Tommaso, il Perigeo va considerato il primo gruppo italiano ad aver coniugato con successo jazz e rock, aprendo così la strada ad altre esperienze simili. Di notevole c'è soprattutto la caratura dei singoli musicisti coinvolti nell'operazione: se Tommaso si era già fatto un nome negli ambienti del jazz più ortodosso, suonando prima con il Quartetto di Lucca e poi incidendo dischi e collaborando con il fiore dei jazzisti americani (Lee Konitz, Gato Barbieri, Sonny Rollins, Steve Lacy e Chet Baker tra gli altri) durante alcuni anni vissuti negli States, non sono da meno gli altri. Il pianista altoatesino Franco D'Andrea, ad esempio, vanta esperienze di prim'ordine, avendo suonato con Jean-Luc Ponty, Dexter Gordon, Kenny Clarke e lo stesso Barbieri, mentre Claudio Fasoli, il fiatista del gruppo, suona a sua volta con Clarke, Daniel Humair e altri. A questi tre navigati musicisti si uniscono i più giovani Bruno Biriaco, batterista romano, e poi il chitarrista di New York Tony Sidney, elemento scelto appositamente da Tommaso per inserire elementi rock nel tessuto jazzato della band.

    Il primo disco realizzato a nome Perigeo è "Azimut" (1972), e suscita reazioni contrastanti: da una parte lo scandalo dei puristi, che guardano a Tommaso e compagni come dei corruttori del verbo jazz, e dall'altro l'interesse della critica e del pubblico più attenti, sempre in cerca di suoni diversi in un periodo che vive ogni novità con grande partecipazione. L'album è senz'altro un elemento di rottura stimolante, anche se sconta una fusione ancora incompleta tra novità e tradizione: lo si nota in "Grandangolo", dove tra i riff acidi del piano elettrico e dei fiati, Sidney sembra ancora un elemento estraneo. Tommaso usa la voce come strumento aggiunto nel breve episodio "Un respiro" e nell'attacco di "Posto di non so dove", brano che mostra la ricerca di un impervio equilibrio: la chitarra scandisce il suo riff quasi timido all'interno d'uno schema segnato soprattutto dal pianismo di Franco D'Andrea. L'incontro, dopo il suggestivo inizio rarefatto, funziona meglio nella title-track, con l'ossatura ritmica traversata da sax, piano e una chitarra più incisiva. Jazz e Rock sembrano trovare davvero uno stesso respiro solo nella conclusione di "36° parallelo", episodio a struttura aperta e di bella tensione ritmica, con la chitarra libera d'incrociare a turno gli altri strumenti.

    Il Perigeo non perde tempo e s'inserisce con disinvoltura nel circuito di concerti del movimento progressive, come il Be-In di Napoli ad esempio, prima di realizzare il secondo disco. In confronto all'esordio, in effetti, "Abbiamo tutti un blues da piangere", pubblicato nel 1973, evidenzia una maggiore coesione e una musicalità più fluida, che si raggruma in limpidi squarci melodici senza perdere niente sul versante strumentale più raffinato. Il cozzo di registri, insomma, cede il posto a un vero connubio tra jazz e rock, contaminati sotto il segno di una vena melodica molto latina: la voce di Tommaso caratterizza ancora l'apertura di "Non c'è tempo da perdere", che cresce alla distanza in una miscela ariosa e libera da schemi, finalmente convincente. Tra splendide atmosfere sospese, come "Dejà vu", con il pianoforte e il sax di Fasoli in evidenza insieme al canto, la liquida "Nadir" dominata dalle note lunghe della chitarra, e la stessa title-track, cadenzata da contrabbasso e chitarra acustica fino all'ingresso dei fiati, la forza espressiva del gruppo si concentra soprattutto in un potente episodio come "Rituale". Il brano dilaga in progressione irresistibile sulle percussioni e il piano di D'Andrea, fino a deflagrare in una bolla sonora che porta fino al grado di fusione le diverse componenti della band, senza le sbavature del debutto, e dimostra l'affiatamento ormai raggiunto, come nella lunga coda di "Vento, pioggia e sole", dove i riff pungenti di Sidney, il fraseggio dei fiati e il pianismo esuberante di D'Andrea sembrano celebrare l'evento sonoro che lascerà il segno nella nostra scena musicale. Non a caso, questo secondo capitolo del gruppo viene premiato dalla critica italiana come miglior disco jazz dell'anno.

    Sull'onda dei consensi, Tommaso e soci proseguono un'intensa attività live, come la tournée italiana di spalla ai Soft Machine all'inizio del 1974 e, a ruota, appuntamenti di grande risalto come il Festival di Re Nudo e quello di Villa Borghese a Roma. Segue lo stesso anno l'uscita del terzo album, "Genealogia", che alcuni considerano il vertice del gruppo. Tra le nove tracce alcune sono esplicitamente associate dai musicisti a un proprio elemento biografico: i "Monti pallidi" di D'Andrea, ad esempio, o i "Grandi spazi", molto rarefatti, nei quali Fasoli rimanda alla laguna veneziana, come "Torre Del Lago" alle radici toscane del bassista. All'interno di una formula sonora vincente, si segnala l'aggiunta in tre brani del sintetizzatore suonato da Tommaso, ad esempio nella splendida "Genealogia", che apre il disco in un'atmosfera molto evocativa nella quale spicca il riff incisivo del sax soprano. Di grande impatto anche "(In) Vino veritas", episodio tiratissimo con la chitarra solista in evidenza, e "Polaris", firmata da Bruno Biriaco e costruita sul continuo pulsare di basso e batteria. Il momento più celebrato dell'album è comunque "Via Beato Angelico": aperto dal giro ossessivo del pianoforte e da effetti di synth, l'episodio trova poi un accattivante motivo portante per chitarra e sax, supportati dalle percussioni dell'ospite Mandrake.

    Il passo successivo arriva dopo la definitiva consacrazione del valore dei cinque: prima un tour con Antonello Venditti, quindi trionfali date a Londra (Marquee) e poi fianco a fianco con i rinomati Weather Report in giro per l'Europa. L'uscita di "La valle dei templi" (1975) ribadisce lo stato di grazia del gruppo. Al disco collabora in modo organico anche un valido percussionista come Toni Esposito , che accentua il valore ritmico dei pezzi. La musica, sempre più godibile eppure mai banale, denota una coesione impeccabile nel quale trovano posto i singoli apporti di strumentisti straordinari e ormai sperimentati. La suggestiva title-track è una potente immersione nello scenario classico del titolo, ancora guidata dal piano e dalla voce di Tommaso prima del limpido ingresso della chitarra. Un gioiello che sintetizza anni di coerente ricerca, come pure "Il mistero della Firefly" o "2000 e due notti", in bilico tra pause atmosferiche dominate dal sax di Fasoli e il raffinato lavoro al pianoforte di D'Andrea. La sezione ritmica, che non perde un colpo, è la base ideale per gli spunti di Sidney o Fasoli, che spiccano per gusto e senso della misura: lo dimostrano episodi frizzanti e maturi come "Tamale", ad esempio, o "Periplo". Stupenda anche la chiusura del disco, "Un cerchio giallo", dove sonorità sintetiche di sfondo e il sax evocativo, insieme ai vocalizzi trasognati di Tommaso, illustrano un paesaggio magico e ipnotico, con un contrappunto da brividi tra chitarra e sax che lascia il segno.

    L'ultimo capitolo discografico, prima dello scioglimento, è costituito da un album come "Non è poi così lontano", registrato nel 1976 a Toronto. Una raccolta di sette pezzi ancora eccellenti, dove gli spigolosi accenti degli inizi sono assorbiti in un sound che abbina una tecnica indiscutibile a un sentimento tutto latino per il ritmo e la melodia. Tony Sidney si segnala raffinato esecutore alla chitarra acustica in "Tarlumbana", tra i momenti più belli e godibili con i suoi colori cangianti che accostano Europa e America. Nella moderna fusion del gruppo non mancano neppure elementi funky, incorporati ad esempio in "Fata Morgana", ma i cinque confermano tutto il loro potenziale soprattutto nell'energica "Take off", quasi una brillante rassegna strumentale del miglior stile-Perigeo.
    La band si disperde, per le consuete difficoltà economiche, e solo dopo varie esperienze individuali (soprattutto di Sidney e Tommaso) si ritrova con la nuova sigla Perigeo Special, in compagnia di artisti come Anna Oxa, Ivan Cattaneo e Lucio Dalla tra gli altri, per realizzare il doppio LP
    "Alice" (1980), lontano però dal loro miglior periodo. A nome New Perigeo, con il solo Tommaso della formazione originale, esce quindi nel 1981 "Effetto amore". Episodi forse in tono minore, che nulla tolgono al valore dell'esperienza musicale rappresentata negli anni Settanta dal raffinato e innovativo jazz-rock di questo valido quintetto.

    Dischi consigliati:

  • "Genealogia" (1974)

    Guarda il video di "Via Beato Angelico" (Live, Firenze 2019)





    PREMIATA FORNERIA MARCONI

    E' sicuramente la band italiana più nota nel mondo, e anche l'unica ad aver registrato per qualche tempo delle buone vendite discografiche sul mercato internazionale. La storia della P.F.M. ha una sua genesi abbastanza lenta: da principio ci sono i Quelli, filiazione dei Black Devils nei quali già militava il batterista Franz Di Cioccio. Assieme al chitarrista Franco Mussida e a Pino Favaloro (chitarra) e Tony Gesualdi (basso), i Quelli si caratterizzano per il tentativo di proporre anche materiale originale, invece delle solite covers degli altri gruppi beat: "Via col vento" è il primo singolo registrato dalla formazione nel 1966. Segue nello stesso anno una cover da Michel Polnareff che rimane poi l'unico successo del gruppo: "La bambolina che fa no no", cantata niente di meno che da Teo Teocoli (poi attore e cabarettista). Quest'ultimo pezzo vede in organico il bassista Giorgio Piazza che rileva Gesualdi. Nel 1967 entra anche il giovane tastierista Flavio Premoli, reduce dal Conservatorio, mentre Mussida viene rilevato da Alberto Radius (che poi forma la Formula 3). Nel 1968 ancora un rimescolamento, tra una cover e l'altra, e infine, col rientro di Mussida e l'innesto di Mauro Pagani (flauto e violino), uscito di scena anche Favaloro, nel 1970 nasce ufficialmente la Premiata Forneria Marconi.

    Il quintetto ottiene subito vasti consensi al primo Festival pop di Viareggio(1971), e lo stesso anno esce il singolo "Impressioni di settembre", brano di forte impatto che stupisce il pubblico per l'utilizzo del moog, ancora mai ascoltato in Italia. E' il maggiore hit commerciale del gruppo e traina a dovere il primo album "Storia di un minuto" (1972, qui sotto).

    Si tratta di un prodotto eccellente, dove la band milanese mette a frutto anni di dura gavetta sulle tracce dei modelli inglesi più illustri (King Crimson in testa) e risulta convincente per come sa integrare certe suggestioni a un umore decisamente più latino e poetico. Perle del disco sono il trascinante "E' festa", pulsante e gioiosa sintesi di rock e tradizione popolare, che diventerà il loro biglietto da visita nei tour all'estero, e "La carrozza di Hans", dalla scrittura più rarefatta e sofisticata, piena di echi romantici, con flauto, violino e chitarra classica al proscenio. Ma non sono certo di minor valore le due parti di "Dove...Quando...", delicate composizioni cesellate a puntino, con splendidi passaggi evocativi e ripartenze di stampo barocco, con il pianoforte di Premoli in evidenza nel secondo episodio. Le parti cantate sono divise più o meno equamente tra tutti i componenti, e pur se gradevoli restano forse l'aspetto meno risolto di questo brillante esordio. Comunque sia, l'album riscuote subito il favore del pubblico e insedia la P.F.M. in cima a una triade ideale del progressive italiano (almeno sul piano della popolarità) che comprende anche le Orme e il Banco.

    Già alla fine del 1972 esce "Per un amico". Questo secondo album mostra una maggiore attenzione agli equilibri strumentali e una migliore focalizzazione delle liriche su temi legati al sociale e alla solidarietà. Inconfondibile è l'impronta barocca, quasi da concerto grosso, dell'iniziale "Appena un po'", tra flauto e clavicembalo in elegante combinazione prima del cantato, e con generoso apporto di mellotron. "Generale", unica traccia strumentale, è un momento più ritmico, con Di Cioccio che ne scandisce lo sviluppo serrato assieme a piano e violino, in una brillante successione di marcette e vivaci break d'organo. La canzone che intitola il disco, pacata e intimista, ha invece il pregio dei mezzi toni e delle sfumature timbriche che testimoniano meglio di momenti più enfatici la sapienza tecnica del gruppo. Il tessuto musicale ha splendide ramificazioni, poggianti sul virtuoso violino di Pagani e le squisite trovate chitarristiche di Mussida, per ricucire il tema iniziale che viene suggellato dall'organo. Ma forse il pezzo più significativo dell'album è "Il banchetto": l'inizio in sordina, con un testo tra i più satirici verso ogni forma di potere, diventa poco a poco un eloquente e lussureggiante episodio strumentale, condito da tastiere immaginifiche, contrappunto ritmico sempre pulsante, e divagazioni elettroniche che un delicato pianoforte riconduce al tema centrale. Cangiante e sorprendente, tra ironia e colorate invenzioni, il brano fotografa lo stile-P.F.M. nel suo momento migliore. E' una musica ricca e mai avara nelle sue proposte, sempre dinamica e generosa nel gusto della citazione e della contaminazione di antico e moderno, in questo senso quanto mai 'progressiva'.

    A questo punto la fama della band varca le frontiere: "Photos of Ghosts" (1973) è una raffinata compilation del secondo disco, con l'aggiunta di "Celebration" (cioè "E' festa") dal primo, e la traccia inedita "Old Rain", voluta e pubblicata dalla Manticore degli E.L.P., che si avvale dei testi di Pete Sinfield (paroliere dei King Crimson). Il discreto esito del progetto porta al tentativo di sfondare davvero all'estero, con lunghe e gratificanti tourneè inglesi e americane. Nel 1974 esce intanto "L'isola di niente" (a destra), un altro disco di pregevole fattura, forse più sinfonico dei precedenti, specie nelle atmosfere de "La luna nuova", e che vede Giorgio Piazza lasciare il basso a Patrick Djivas (dagli Area). La title-track che apre il disco è spezzata in due dalla presenza di un vero coro lirico all'inizio, prima di uno sviluppo roccheggiante e molto incisivo, con un testo che invoca solo una tregua dalle mille pressioni della società ("Favole e bugie che parlano di Dio / Stupidi soldati che chiedono di me..."). Questa vagheggiata pace suona come disimpegno politico, in quegli anni dove le parole, anche fraintese, sono davvero pietre, e per questo c'è chi non perdona al gruppo il successo sempre più vasto. Ma l'album comprende anche la delicata "Dolcissima Maria", una canzone dominata dal flauto di Pagani che otterrà un buon successo come singolo, e la splendida dimensione strumentale del conclusivo "Via Lumiere", riuscito incontro tra sonorità jazz e colti richiami al passato, con finale da brividi.

    Trionfali concerti in giro per l'Italia (come Parco Lambro), e all'estero (Parigi, Londra, Zurigo) preludono al secondo tour americano, nel corso del quale viene registrato appunto "Live in U.S.A." (1974). Questo album è caldamente consigliato per cogliere tutta la forza e la capacità comunicativa della Premiata: solo dal vivo infatti il gruppo sembra esprimere pienamente il proprio potenziale, mescolando da par suo l'anima rock con le proprie radici italiane, soprattutto in "Celebration", al quale viene abilmente integrato il refrain di "Impressioni di settembre" come pure il tema di "Funicolì Funicolà"! Difficile non farsi contagiare dalla carica del gruppo, come anche in "Alta Loma Five Till Nine", lunghissima cavalcata strumentale che immortala uno dei più grandi show in assoluto di una band italiana: prima la ricamata, elegante chitarra di Mussida, poi le molteplici tastiere di Premoli, quindi il violino, diabolico davvero, di un Pagani smagliante, in odor di... Paganini, che riannoda magistralmente i fili del pezzo fino alla rilettura folgorante del "Guglielmo Tell" di Rossini, in un crescendo irresistibile per tecnica, pathos e capacità improvvisativa. Da consegnare ai nipotini del rock nostrano come promemoria!

    La fama della P.F.M. è destinata a crescere con il successivo disco di studio: "Chocolate kings" (1975, a fianco) segna una svolta importante nell'evoluzione del gruppo, grazie al reclutamento di un vero cantante solista, quel Bernardo Lanzetti già noto per la sua esperienza con gli Acqua Fragile. Così allargata a sei, la formazione realizza uno dei capitoli più rifiniti e professionali della sua carriera. L'amalgama strumentale ha raggiunto la sua piena maturità, e la voce di Lanzetti, assolutamente perfetta nel suo inglese, consente oltretutto di scrivere testi estremamente coraggiosi, quasi temerari se consideriamo che l'album era attesissimo anche dal mercato americano. A cominciare dal martellante atto d'accusa della title-track, pregnante e corrosiva, l'intero album suona infatti come un esplicito e amaro rifiuto del mito americano di un'intera generazione. "From under" fotografa il distruttivo incantesimo dell'eroina ("provvidenza di illusione, provvidenza puttana di grassi re" recita il testo), come "Harlequin" è l'orgoglioso manifesto dell'artista che dà corpo ai sogni, e "Paper charms" rilegge con occhi disillusi i paesaggi di cartapesta di tanta letteratura e del cinema a stelle e strisce. La musica, che è poi quella in questione, non è comunque in secondo piano rispetto alla dura sostanza delle liriche: scintilla come un prisma dai mille risvolti espressivi, sempre duttile, capace di trasmettere vibrazioni senza forzare, giocando con i toni acustici come pure con le improvvise e calibrate impennate elettriche. Un disco quasi perfetto. Paradossalmente all'estero piacerà meno che i primi, forse più marcatamente italiani nei suoni di quanto sia "Chocolate kings", che rimane comunque il vertice della Premiata. E' anche l'ultimo atto di Pagani, che lascia per iniziare una parabola solista ricca di belle pagine e grandi collaborazioni (specie con il De André del bellissimo "Creuza de mä").

    Nel successivo "Jet lag" (1977, a sinistra), inciso in California e a Londra, il violino è affidato all'americano Greg Block (già It's a Beautiful Day) e tutto il disco mostra che qualcosa è cambiato. L'influsso di un certo jazz-rock che domina il mercato è evidente, e il gruppo sembra cercare una dimensione che non sente ancora sua. Non è affatto un brutto disco, sia chiaro, considerata la qualità dei musicisti, ma si può capire un certo disorientamento del pubblico: niente sinfonismi romantici, o flauti classicheggianti, ma ritmiche più spigolose e suoni diversi. Brani di spessore ce ne sono comunque: soprattutto "Meridiani ", uno strumentale flemmatico con la bella chitarra di Mussida in primo piano, o "Cerco la lingua", con Lanzetti che canta in italiano, e diversi spunti qua e là. Ma nell'insieme qualcosa non funziona. Anche i tour successivi in America non riscuotono lo stesso interesse e da questo momento il gruppo tira i remi in barca, tornando più attivo nel circuito live italiano. Alla ricerca di nuovi stimoli la band si affida ai testi di un autore caustico come Gianfranco Manfredi, per l'incisione dell'album "Passpartù" (1978). E' un altro capitolo controverso, ma indubbiamente si respira un'aria più compatta e vitale del disco precedente, e la musica risente di questa ventata di nuovo entusiasmo, già dall'attacco contagioso di "Viene il santo". E piuttosto freschi e riusciti sono brani come "Se fossi cosa", ariosa e melodica, o la più mossa e pulsante "I cavalieri del tavolo cubico", mentre certe atmosfere aperte e quasi fusion dell'album americano tornano nel brano strumentale che intitola il disco. La vena fantasiosa e irriverente delle liriche sembra giovare anche alla dimensione sonora, sciolta e godibile, senza eccessive forzature, arricchita da ospiti di calibro come Roberto Colombo, il percussionista George Aghedo e lo stesso produttore Claudio Fabi al piano.

    Anche il seguente progetto con Fabrizio De André ("De André-PFM in concerto", 1979) rientra in questo nuovo corso, più spigliato e aperto a collaborazioni di prestigio. Nel 1980 la Premiata torna in studio per realizzare "Suonare suonare" : con la novità di Franz Di Cioccio voce solista, al posto di Lanzetti che abbandona, e l'ingresso in organico del batterista Walter Calloni e del violinista Lucio Fabbri, si dipana una sequenza di brani ancora più lineare e dalla vena fresca, volutamente semplice nei testi e nelle musiche, come ad esempio in "Topolino", di delicato sapore autobiografico. Spiccano nella scaletta episodi rock più vivaci, da "Si può fare"( presentato anche al Festivalbar) a "Volo a vela", e quello che è forse il vero gioiello del disco, cioé "Maestro della voce", commosso e sofisticato omaggio a Demetrio Stratos.

    Il decennio degli Ottanta segna anche per la P.F.M. uno spartiacque fatto di ombre e poche luci. In un continuo ricambio di formazioni, a cominciare dall'uscita di Premoli in "Come ti va in riva alla città" (1981), il gruppo allunga le pause tra un disco e l'altro, proponendo un rock molto più immediato e leggero nei vari "PFM? PFM" (1984) o "Miss Backer" (1987). In seguito, dopo qualche raccolta antologica e documenti di vecchi concerti, la formazione lascia il campo.

    Si ripresenta però a sorpresa nel 1997 con l'album nuovo di zecca "Ulisse" che rimette insieme Di Cioccio, Premoli, Mussida e Djivas per una scaletta di tutto rispetto, che incontra un buon esito anche dal vivo. Escono intanto diversi documenti 'live' registrati negli anni dal gruppo e quindi "www.pfmpfm.it-il Best" (1998), un doppio CD eloquente sintesi del nuovo entusiasmo che la band ha ritrovato durante il più recente tour italiano. Nel 2000 esce infine "Serendipity", un album realizzato con l'aiuto di molti nomi di prestigio, e sicuramente suonato con la consueta classe, ma anche lontano dai fasti di un tempo. Discutibile anche l'operazione di "Dracula", opera rock del 2005, poi realmente messa in scena, mentre decisamente più fresco e godibile è un disco come "Stati di immaginazione" (2006).

    Dischi consigliati:

  • "Storia di un minuto" (1972)
  • "Chocolate Kings" (1975)

    · Sito ufficiale             Guarda il video di "La carrozza di Hans" (Live Lugano, 2001)



    QUELLA VECCHIA LOCANDA

    Un altro gruppo dalla storia fin troppo breve, e che viene ricordato tra gli esempi più interessanti del progressive italiano dei primi anni settanta.

    Originari di Roma, i QVL nascono nel 1970 e partecipano con successo al Festival di Villa Pamphili del 1972, prima di trovare un contratto discografico con la piccola label Help e incidere l'album omonimo nello stesso anno (a destra). La formazione è un sestetto nel quale convivono evidenti influenze classiche di stampo barocco (tra Bach e Vivaldi), dovute soprattutto al brillante violino dell'americano Donald Lax, studente al conservatorio di Santa Cecilia, e al pianoforte di Massimo Roselli, senza dimenticare il flauto elegante di Giorgio Giorgi, e sonorità roccheggianti più moderne, con vivaci inserti della chitarra elettrica di Raimondo Maria Cocco (impegnato anche al clarino). L'effetto è indubbiamente ricco di suggestioni, fin dall'attacco di "Prologo", e poi nella lirica "Realtà", un brano estremamente romantico anche nel testo. Il disco ha naturalmente una struttura 'concept' com'era tipico di quegli anni, ma bisogna sottolineare che mancano le forzature di altre esperienze italiane, in favore d'una ispirazione sempre fresca e misurata: le liriche del gruppo, anzi, si sposano perfettamente alle atmosfere evocative della musica, e dunque sottolineano con felice alternanza di toni questa ricerca di senso all'interno d'una realtà sfuggente e ostile, come in "Immagini sfocate", con un solo di chitarra a scandire questa aggressività del mondo esterno. In altri momenti, invece, le due anime del disco danno vita a vivaci cambi di tempo (la batteria di Patrick Traina e il basso di Romualdo Coletta) e improvvise aperture sul flauto e il violino, soprattutto in "Verso la locanda", con un bel fraseggio di piano e basso in stile jazz, e stacchi di sintetizzatore. Davvero un esordio notevole, insomma, nonostante qualche ingenuità giovanile, che impone subito il nome del gruppo tra i più meritevoli.

    L'attesa prova seconda si fa aspettare però due anni. Oltre al cambio di etichetta, con un nuovo contratto per la RCA, bisogna registrare due avvicendamenti nell'organico: il violinista Lax e Coletta sono rilevati rispettivamente da Claudio Filice e Massimo Giorgi, lasciando comunque inalterata la strumentazione della band. "Il tempo della gioia" (1974, a fianco) è sicuramente uno dei migliori album del progressive italiano di sempre, anche se non ha mai ricevuto la giusta considerazione, in un periodo che già vede la discografia italiana, fin lì molto aperta alle novità, ripensare le sue strategie. In questo contesto il disco dimostra la crescita e la maturità di tutto il gruppo, che approfondisce e allarga i suoi orizzonti abbracciando oltre all'amata tradizione classica anche un certo jazz, e in breve acquistando maggiore coscienza dei propri mezzi. Se a questo si aggiunge una ricerca davvero meritoria sul ruolo dei testi, sempre più legati al tessuto musicale, si ha per risultato una scaletta piena di idee e soluzioni originali, tra sperimentazione e recupero di tutta la tradizione classica. Dopo l'omaggio, poeticamente trasfigurato, al festival che li vide esordire (appunto "Villa Doria Pamphili"), con uno squisito e languido alternarsi di pianoforte e violino, e la parentesi di "A forma di...", un crescendo verticale di tutti gli strumenti (clavicembalo, flauto e archi) con l'aggiunta di voci corali, i QVL danno il meglio nei restanti tre pezzi.

    L'episodio che intitola il disco, "Il tempo della gioia", mostra subito l'affascinante convivenza di pregevoli liriche con un tessuto musicale variegato e fitto di spezzature ritmiche. Una funzione tutt'altro che secondaria hanno le parti cantate, e il tentativo di adeguarle alla linea ondivaga e irregolare della musica, si nota pure nella più lunga "Un giorno, un amico" che segue: aperta a suggestioni diverse, col violino che frattura e ricompone virtuosisticamente il filo di tante anime e quindi introduce un canto assorto e insieme splendidamente teso, che sale e scende assecondato dalla chitarra elettrica prima dell'ultima fuga sul piano, con una coda magnifica di sax soprano (l'ospite Rodolfo Bianchi). Una composizione intensa e sofisticata. Come pure il brano posto in chiusura, "E' accaduto una notte", introdotto da note di flauto e chitarra acustica, che si evolve poi in un clima d'intrigante mistero. Le liriche sembrano descrivere (in una sorta di ralenty esasperato), e con il controcanto di una voce femminile, un tragico incidente: così la musica, splendidamente sinuosa, si ramifica come sospesa sull'orlo di questo finale già scritto e rivissuto, col piano e i fiati, di concerto con le percussioni, a scandire fino all'ultimo tonfo il volo che suggella anche il disco.

    Un epilogo sordo che ha quasi il senso d'una porta chiusa in faccia, e sul più bello, a questo gruppo senza fortuna del migliore progressive italiano.

    Dischi consigliati:

  • "Il tempo della gioia" (1974)

    · Pagina su MySpace          Ascolta "E' accaduto una notte"



    STORMY SIX

    Nati a Milano nel 1965, gli Stormy Six non sono un gruppo tipicamente Prog, avendo attraversato fasi stilisticamente molto diverse, ma il loro nome rimane imprescindibile per la musica italiana più alternativa. Sempre apertamente schierati, e identificati a lungo con la canzone politica, nel tempo hanno saputo anche rinnovarsi firmando dischi di grande interesse, sicuramente meritevoli di un recupero.

    Gli esordi sono nel solco del Beat, con il 45 giri del 1966 "Oggi piango" (cover degli Small Faces), seguito poi da "Lui verrà"/"L'amico e il fico", che fa guadagnare loro il ruolo di gruppo-spalla nel primo tour italiano dei Rolling Stones (Aprile 1967). Nel 1969 viene finalmente pubblicato il primo album del gruppo: "Le idee di oggi per la musica di domani". Accanto ai membri storici Franco Fabbri, Luca Piscicelli e Antonio Zanuso, entra in organico anche Claudio Rocchi al basso e proprio dalla sua voce intimista vengono gli spunti migliori di una sequenza discontinua, piena di spunti contraddittori: soprattutto la finale e rarefatta "Sotto i portici di marmo", con violino e violoncello sotto il canto introspettivo. Il resto è fatto essenzialmente di canzoni improntate a un timido flower-power ("Fiori per sempre" o "Monna Cristina"), con la vistosa eccezione dello strumentale "Shallplattengesellschaftmbh", un rock chitarristico crudo come il suo titolo, e della psichedelia esotica di "Ramo", con tanto di sitar in bella evidenza.
    Dopo l'uscita di Rocchi per divergenze con i suoi compagni (che gli dedicheranno la perfida "Fratello" nel disco successivo), e l'ingresso di Massimo Villa al basso, il gruppo vira verso la canzone politica con
    "L'Unità" (1972), raccolta di momenti e personaggi chiave del processo unitario nazionale: dalla lunga "Suite per F. & F." alla più incisiva "Ponte Landolfo", con la chitarra elettrica di Fabbri in evidenza, come pure in "La manifestazione", tra i momenti migliori. Nonostante i contenuti spesso drammatici ("Tre fratelli contadini di Venosa"), la musica ammicca al folk-rock e al pop americano ("Garibaldi"), con le voci corali spesso protagoniste, e accanto alle chitarre si ascoltano anche il sax e il clarinetto, ad esempio in "Sciopero!".
    Subito popolari nel circuito della sinistra giovanile e del Movimento studentesco, gli Stormy Six confermano la nuova vocazione folk-politica con il successivo
    "Guarda giù dalla pianura" (1974). Umberto Fiori è adesso stabilmente inserito tra le voci di una sequenza che mette insieme dieci canti popolari e rivoluzionari di varie parti del mondo, dall'Europa a Cuba ("Cuba sì, yanquis no") e alle Americhe. Le voci sono quasi sempre corali, col violino di Tommaso Leddi sugli scudi insieme a fiati, chitarre e mandolino, il tutto rigorosamente acustico. Oltre a due brani di Whoody Guthrie ("Union Maid" ad esempio), si segnalano "Otan xtupesis duo fores" di Mikis Theodorakis e la struggente "Leaving Belfast Town", fino a "Per i morti di Reggio Emilia" di Fausto Amodei.

    Con l'album "Un biglietto del tram" (1975) il gruppo milanese sembra fare un primo salto di qualità: senza cedere alle formule rock più in voga, la musica si fa comunque più intensa e mossa, condizionata dal contenuto lirico che ricorda figure e momenti della Resistenza. Violino e chitarre segnano un po' tutti i brani, sorretti da uno sguardo tanto amaro quanto lucido: "Dante di Nanni" è uno dei picchi assoluti del repertorio, col violino dolente e le immagini evocative, al pari di "Stalingrado", uno dei pezzi più popolari del gruppo, ma sono belle anche "8 Settembre", segnata dal ritmo incalzante, e "La fabbrica", fino a "La sepoltura dei morti", articolata su armonie vocali di grande presa. Il disco esce sotto l'etichetta de l'Orchestra, una cooperativa che stamperà in seguito non solo gli album di Fabbri e compagni, ma di altri artisti, come gli inglesi Henry Cow: nasce da qui la prima scintilla che porterà gli Stormy Six nel movimento transnazionale Rock In Opposition (RIO), comprendente altre bands di mezza Europa (Uk, Francia, Belgio, Svezia) che rifiutano la logica della discografia ufficiale.
    Nel 1976, il gruppo spiazza il pubblico con
    "Cliché", raccolta di musiche per il teatro: in gran parte per il "Tito Andronico" di Shakespeare messo in scena al Teatro Uomo (regia di Raffaele Maiello), oltre a "1789", composto per lo spettacolo omonimo di Ariane Mnouchkine, realizzato da Gabriele Salvatores per il Teatro dell'Elfo. Musica strumentale, quindi, che offre al gruppo l'occasione di mettersi alla prova su nuovi orizzonti sonori: accanto al violino di Carlo De Martini, alle chitarre di Fabbri e Fiori, c'è da notare la fattiva collaborazione di musicisti come Guido Mazzon (tromba e piano elettrico) e del batterista Tony Rusconi, che soppianta in quasi tutti i brani Antonio Zanuso, in procinto di lasciare il gruppo. Brani come "Dibattito" e "Banchetto e rissa", ma anche brevi inserti come "L'escluso", fino alla più corposa "Inchiesta TV", costruita sul basso di Luca Piscicelli e la tromba, mostrano un suono più variegato, tra jazz, avanguardia e folk, che amplia la tavolozza strumentale in vista delle prove successive.

    La prima è "L'apprendista", pubblicato nel 1977, che non solo è il disco più vicino al movimento prog, ma in generale tra i più interessanti esempi di musica in grado di restituire i chiaroscuri della società italiana. Anche se il sestetto di base, con l'aggiunta del batterista Salvatore Garau, ruota sempre intorno alle voci di Fabbri e più spesso di Fiori, diversi ospiti arricchiscono il suono con tastiere, fiati e percussioni aggiunte: lo si vede fin dall'attacco di "Buon lavoro!", ironico ritratto di risveglio urbano scandito da percussioni varie e violino. Tra gli otto brani, tutti notevoli, spiccano episodi che danno la misura del perfetto equilibrio raggiunto dalla formazione. Bellissima è "Carmine", uno dei ritratti umani più vitali della sequenza, ben delineato dalla voce di Umberto Fiori s'un tappeto di pianoforte e vibrafono, con rotture ritmiche e preziosi inserti di sax e violino nelle riprese. Quindi "Il barbiere", col il ritmo che incalza liriche sempre incisive, ancora con lunghi interludi strumentali che tra sincopi percussive trascinanti esaltano il basso di Pino Martini e il vibrafono di Fabbri. L'apice è forse "Il labirinto", cantato a due voci su una base strumentale ricca di sfumature, dominata da un riff inconfondibile di chitarra, sax e violino, sullo sfondo di piano e organo: anche qui ci sono rotture imprevedibili, come il curioso funky che fotografa il discutibile giovanilismo imposto dai media, poi riassorbito dal tema portante che chiude il pezzo. Una critica feroce a modelli grotteschi sorregge il testo, che trasmette lo smarrimento e l'oppressione di una vita prigioniera di stereotipi culturali. La title-track è invece il ritratto disilluso di chi deve sempre trasformarsi per sopravvivere, mentre "Cuore", col basso e il vibrafono ancora protagonisti in crescendo intorno al canto sinuoso di Fiori, prende atto che certi caratteri legati al famoso testo di De Amicis tornano sempre a galla. Chiuso s'una nota di ragionato ottimismo ("Niente resta uguale a se stesso") da un vivace episodio come "L'orchestra dei fischietti", con i fiati in grande spolvero, "L'apprendista" è un album davvero mirabile per la qualità dei suoni, delle liriche e delle voci.

    Prima del disco successivo, la band milanese si cimenta di nuovo col Teatro, collaborando al musical "Pinocchio Bazaar" di Gabriele Salvatores (i brani verranno abbinati alla ristampa in CD di "Cliché") e ormai parte integrante del movimento RIO seguita a suonare intensamente in molti paesi europei, dove la loro musica è più conosciuta e apprezzata che in Italia. Non è un caso che l'album "Macchina maccheronica", pubblicato nel 1980, venga premiato in Germania come disco dell'anno, precedendo nientemeno che i Police. E' un disco ancora più radicale del precedente, specie nelle soluzioni strumentali che si fanno a tratti molto ostiche, atonali e impegnative per l'ascoltatore. Tredici episodi di Avant-Prog tenuti insieme dalle riprese stravolte del tradizionale "Madonina" del maestro D'Anzi, mentre i testi, pervasi di un'ironia a doppio fondo, sfidano il senso comune non meno della parte sonora: citazioni, neologismi e allegorie s'incastrano in uno schema sempre mobile sui fiati di Leonardo Schiavone e le percussioni, balbettante e ricco di svolte inattese che spiazzano, fino al divertimento non-sense di "Enzo", registrata dal vivo. "Le lucciole" riecheggia vecchie filastrocche infantili, tra nostalgia e inquietudine; "Megafono" e "Pianeta" trasudano incertezza di fronte a una realtà che mescola alto e basso; "Verbale", sorretta dal clarinetto e dal ritmo irregolare della batteria di Garau, conferma la vana ricerca di senso in versi volutamente oscuri, così come le domande petulanti di "Somario" affogano in musichette circensi.

    Sempre più stimati all'estero, i nuovi Stormy Six faticano invece a catturare il pubblico italiano. Neppure il successivo "Al volo" (1982) ottiene una risposta adeguata: eppure è uno degli album più accessibili del gruppo, ora schierato a cinque senza un fiatista di ruolo, all'insegna di un pop-rock dinamico, fitto di belle soluzioni strumentali. Non è certo un disco accomodante, tutt'altro, ma ora l'inquietudine serpeggia in testi più diretti e in forme strumentali più sintetiche, raffinate quanto accattivanti. Stavolta, invece del violino sono le chitarre di Fabbri e le tastiere di Tommaso Leddi a occupare la scena, fin dallo splendido attacco di "Non si sa dove stare", e nella più articolata "Reparto novità", che coglie benissimo lo spaesamento di fronte ad un consumismo quasi compulsivo. In realtà le nove tracce si susseguono senza mai sciogliere la tensione, anche nei momenti più rarefatti ("Ragionamenti") ed è complicato indicare i momenti migliori in una scaletta di altissimo livello. Molto bella anche "Piazza degli Affari", tempo da perdere e parole in un giorno qualunque, con un bel gioco tra le voci, il ritmo avvolgente che si frantuma e ricompone ad arte, e la chitarra elettrica in evidenza. C'è un senso diffuso di straniamento e insoddisfazione, nella torbida "Parole grosse", o anche in "Denti" ("Quanti denti! Che sorrisi grandi! Che smalto bianco e lucido!"), fino al trascinante rock finale di "Cosa danno", che cattura la passività delle serate televisive.

    Il gruppo si scioglie poco dopo il tour promozionale, anche se negli anni non sono mancate periodiche reunions dal vivo, a volte finite su disco: ad esempio "Un concerto", uscito nel 1995. Del 2013 è invece la pubblicazione del CD-DVD "Benvenuti nel ghetto", dedicato alla rivolta nel ghetto di Varsavia, che coinvolge come voce narrante anche Moni Ovadia. Tra i membri del gruppo, Franco Fabbri si è poi distinto come raffinato studioso e divulgatore della musica popolare, ed è autore di diversi libri sul tema, come "Il suono in cui viviamo" (1996), mentre "Album Bianco" (2001) ripercorre, tra le altre cose, anche la lunga storia di questa importante formazione italiana.

          Dischi consigliati:

  • "L'apprendista" (1977)
  • "Al volo" (1982)

    Sito Ufficiale di Franco Fabbri       Leggi i testi de "L'apprendista"        Ascolta "Carmine"



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