BUON LAVORO!
Ogni mattina l'orchestra radiofonica
se la spassa e ti dà di gomito;
la tromba strepita un ritornello magico
mentre i violini salutano.
La folla scatta, sorpassa gli orologi,
lascia partire le raffiche
dei suoi passetti precisi in bianco e nero
che si sgranano sotto i semafori.
"Buon lavoro!", il cielo è nero,
il giorno nasce in città.
"Buon lavoro!", cantano i muri,
"ognuno avrà quel che dà."
Lungo la fabbrica continua lo spettacolo
dei giorni che si rincorrono:
in sei nel cerchio galoppano per mordere
la coda della domenica.
Hanno le orbite quadrate come scatole,
quando non li vedi ti guardano.
Hanno tre bocche e trentatrè nastri magnetici
e mentre corrono cantano:
"Buon lavoro!"...
Quando sui viali la pioggia resta sola
la luce dell'ora elettrica
misura il sonno di piombo della gente
che vende la vita per vivere.
"Buon lavoro!"...
L'APPRENDISTA
Nell'anno della truffa
sotto una stella grama
veniva al mondo urlando
come se fosse il primo
e invece risultava
dai timbri e dalle carte
l'ultimo della lista:
non l'Uomo, l'apprendista.
Le scarpe belle lustre,
la giacca ereditata
e dentro la cartella
il pane e la frittata,
compiuti tredici anni
svezzato e vaccinato
entrava nella pista
(non l'Uomo, l'apprendista).
E corri, corri, corri,
è subito arrivato:
lavora il ferro al tornio
in un seminterrato.
Così si chiude il cerchio,
gli mettono il coperchio,
la vita l'ha già vista,
(non l'Uomo, l'apprendista).
Piazza, bella piazza,
passa la lepre pazza:
se l'indice la vede
il pollice l' ammazza.
Il mignolo col medio
si aggiustano il colletto,
gli gridano teppista
all'uomo, all'apprendista.
CARMINE
Carmine, lui faceva il barbiere,
il muratore, il contrabbandiere.
Lunedì era senza lavoro,
venerdì steso sotto una gru,
la domenica con un mazzo di rose all'angolo.
Carmine, lui sapeva cantare:
per un po' si faceva pregare,
quando poi la chitarra attaccava
lui si voltava a prendere il LA,
poi cantava e di nuovo noi eravamo un popolo.
Carmine inventava parole
lucide come trottole al sole.
Quando tu non riuscivi a capire
lui ti portava a bere un caffé,
ti spingeva, ti stuzzicava per farti ridere.
Parlami, attraverso quel muro:
ti riconosco in mezzo al rumore.
Ora che siamo insieme a lottare
posso parlarti chiaro, perché
mentre Carmine canta noi siamo ancora un popolo.
ROSSO
Guarda sull'Unità:
stanotte è morto Mao Tse-Tung,
e io mi sento scricchiolare dentro
il mio nome, la mia età:
anni - non so per te -
che un clackson secco dietro un tram
era una tromba dell'apocalisse,
un segnale di pietà,
anni di polizia,
mesate di macelleria.
Le sentivamo dure sulla testa,
libertà e democrazia.
C'era la gioventù
sul marciapiede a faccia in giù,
sotto una pioggia fitta, sassaiola,
i tamburi, la tribù.
Anni che erano miei,
e ne ha vissuti la metà,
tanto che non so più se sto parlando
o se parla la città,
ma qui, nella città
che non è né tua né mia
(nemmeno un posto, ma una foto storta
senza la didascalia)
cerco la tua allegria,
colore della compagnia,
con la canzone che non ti consola,
senza ritmo né armonia.

Retro di copertina de "L'apprendista"
(dettaglio)
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IL BARBIERE
Elementare misura d'igiene,
norma di disciplina:
sotto il bavaglio mi tengo le mani,
cerco la cartolina
mentre il barbiere, baffetti e basette,
racconta quattro barzellette
unte di brillantina.
Mentre il barbiere ripassa il rasoio
sulla striscia di cuoio
stringo più forte il cavallo argentato,
il mio cranio rasato
moltiplicato per mille, stasera,
dal collo in su nella specchiera,
mezzo ghigliottinato.
"Sotto a chi tocca, il signore è servito!"
e il pennello si inzuppa.
Compiuto il rito, io sono sparito:
militare di truppa
in un' Italia scassata e feroce
senza più forma e senza voce
tiro su la mia zuppa.
Mentre l'Italia si gratta la scabbia,
urla in sette dialetti,
noi dividiamo il silenzio e la rabbia,
il leninismo e i fumetti,
tutti a cantare tra il muro e le brande,
quaranta metri, piume e mutande
dentro la stessa gabbia.
Tre per politica sono a Gaeta,
quattro han preso la tisi,
cinque un rimorchio a settembre li ha uccisi,
e un sardo, un analfabeta,
duro di testa e pesante di mano,
ha ringraziato il capitano
con due pugni precisi.
Elementare misura d'igiene:
dormire per non pensare.
Solo qualcuno si taglia le vene,
gli altri sanno aspettare.
Dodici mesi: tutti presenti,
fermi, coprirsi, stringere i denti,
capirsi senza parlare.
CUORE
Patria delle vedette, dei tamburini
sardi, calabresini, ciechini e zoppi,
nel tuo salotto buono c'erano troppi
galantuomini, fabbri, muratorini:
affogarti era, in fondo, un gioco truccato,
lo sapevo che un giorno tornavi a galla
(ho sentito il tuo fiato sulla mia spalla
ogni volta che ho detto "proletariato").
Eravamo già pronti, i tuoi tenentini
con le tue maestrine di penna rossa,
quando da chissà dove arriva la scossa,
e noi giù a quattro zampe come bambini;
e la testa sprizzava come una miccia,
e la lingua gridava la vita dura,
ma di letteratura in letteratura
tornavamo al tuo cuore di pappa e ciccia.
"Forse per noi ci vuole almeno la fame,
non un brodo così, né carne né pesce:
masticando acqua fresca forse ci riesce
di rifare il sorriso di quell'infame".
(Mentre parli ai comizi più edificanti
te lo leggo negli occhi che non sai dire
né a te stesso né a chi ti resta a sentire
se noi siamo gli Enrichi o se siamo i Franti).
IL LABIRINTO
D'estate, lungo l'autostrada,
sotto le tettoie che scottano
ci fermiamo un attimo
mentre i camion vanno verso il Sud:
la campagna è un nome sotto il sole,
la campagna è la campagna, è logico,
segna il doppio limite
di questa striscia di città.
Sei come un topo nella ruota
nel percorso profumato di plastica
dei prodotti rustici murati dentro l'Autogrill,
e sbagli strada e perdi il filo,
e ti senti come uno svizzero:
ti butti nei vicoli
e ti resta in tasca un souvenir.
(La palla di vetro si rovescia,
sul golfo di Napoli nevica.
Metti un po' di musica
e fili leggero dentro il film).
Verso la terra di nessuno
il cervello comincia a friggere,
la tua lingua zoppica,
non ti ricordi più chi sei,
e sbagli strada e perdi il filo,
ti ritrovi a urlare GERONIMO
dentro il campo profughi-
acchiappacitrulli-kinderheim.
D'estate, lungo l'autostrada
siamo soli e siamo un esercito,
seduti allo svincolo,
ognuno in petto la sua star,
sopravvissuti alle stagioni,
ogni anno sempre più giovani,
(Forse non ci siamo più,
forse non ci siamo stati mai).
L'ORCHESTRA DEI FISCHIETTI
Quando meno te lo aspetti
è scoppiata la realtà:
è l'orchestra dei fischietti che
dà la sveglia alla città.
Dà la sveglia coi tamburi
e nessuno dormirà,
scrive rosso sopra i muri,
e spacca il mondo in due metà.
Non è un coro di cherubini sul tapis roulant:
salta e fischia
con la forza del sogno
e con la semplicità del bisogno.
Niente resta uguale a se stesso,
la contraddizione muove tutto.
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