· "In guerra per amore" di Pif (Italia, 2016)
Dopo il felice esordio di "La mafia uccide solo d'estate" nel 2013, Pierfrancesco Diliberto in arte Pif ci riprova e fa di nuovo centro, nonostante, com'è risaputo, la seconda prova sia spesso la più difficile. Pubblico e critica ormai ti hanno identificato col primo film, e quindi puoi sbagliare in due modi opposti: o perché scegli di fare un film troppo diverso ("chi si crede di essere?"), oppure perché ne fai uno troppo uguale ("ha già finito la benzina"). Ebbene, a me pare che il regista nato a suo tempo come stralunato inviato televisivo, abbia saputo scansare entrambi i rischi. È vero infatti che anche stavolta si parla di mafia, e che perfino i nomi dei due fidanzati sono gli stessi del film precedente, però non si può negare che in questo caso l'angolazione del racconto e la confezione stessa siano più calibrate rispetto all'esordio.
Arturo è un ragazzo di origine italiana che in America fa il lavapiatti in un ristorante e ama la bella Flora (Miriam Leone): lo zio della fanciulla però l'ha promessa in sposa al figlio del braccio destro di Lucky Luciano, temibile e influente uomo d'onore anche in carcere, come la storia ha dimostrato: quel che si dice un ottimo investimento in una certa logica dell'ambiente italo-americano, sempre attento a saldare alleanze strategiche. Siamo nel 1943 e Arturo, più che mai innamorato, accetta di rivolgersi direttamente al padre di Flora, che vive ancora in Sicilia, per chiedergli direttamente la sua mano e scavalcare così l'odioso rivale. Come arrivare però nella lontana terra-madre, senza soldi per il viaggio e soprattutto in piena seconda guerra mondiale? Dilaniato dai dubbi, alla fine Arturo non trova migliore occasione che arruolarsi nell'esercito americano ormai in procinto di intraprendere lo sbarco decisivo sull'isola. Qui, tra buffe peripezie e incontri di vario genere, riesce infine a rintracciare il padre morente di Flora e strappargli il sospirato assenso alle nozze, ma intanto è testimone diretto di qualcosa che lo sconvolge, soprattutto dopo la morte del luogotenente e amico Philip Catelli, che in qualche modo gli apre gli occhi sul vergognoso patto firmato dagli americani con la mafia locale.
Il registro dominante è sempre quello della commedia, intendiamoci: il protagonista interpretato dallo stesso Pif, che non a caso si chiama sempre Arturo, non è diverso dal ragazzone imbranato ma perbene del film precedente, e non sono pochi i momenti che il suo modo di fare candido, quasi disarmante, strappa risate, come del resto i primi e faticosi approcci tra gli alleati e la gente siciliana. Tuttavia, un occhio attento coglie fin dall'inizio, disseminati qua e là con leggerezza sapiente, i segnali di una visione più matura e consapevole, costruita con maggiore attenzione a quei dettagli che, dietro il sorriso, preparano la sorprendente ultima parte del film. In particolare, la sequenza dell'uccisione di Catelli, con la fuga del bambino montata in parallelo con la supplica di Arturo al padre di Flora, ammantata di comiche esitazioni, risulta davvero congegnata ad arte, così come il comizio del neosindaco, sciaguratamente incoronato dagli americani sotto il vessillo scudocrociato, nel suo crescendo di sfacciata retorica mette i brividi per come lascia intuire ciò che sarà: una terra sempre più avvelenata da un potere mafioso strettamente intrecciato a quello politico.
Alla fine, ce n'è abbastanza per dire che Pif è cresciuto e ha trovato il modo di rispolverare un pezzo di storia tristemente vera senza tradire il suo stile, né il personaggio che si porta dietro fin dagli inizi. Bravissimo, il regista, anche nella scelta dei suoi attori: a parte un sobrio ma intenso Andrea di Stefano, nei panni del tenente Catelli, sia la coppia disgraziata dello zoppo e del cieco (Maurizio Bologna e Sergio Vespertino rispettivamente), che il grottesco Don Calò di Maurizio Marchetti, sembrano incarnazioni dolenti, tra degrado, solitudine e arrivismo rapace, di un momento storico che ha lasciato cicatrici profonde nel corpo sociale dell'isola. "In guerra per amore" è un film che pur divertendo nei toni alla lunga fa riflettere sul lascito di quell'incontro tra interessi speculari, in un riuscito concentrato di ironia, amaro disincanto e indignazione: davvero sulle orme della più nobile commedia italiana del tempo che fu, insomma, impersonata tra gli altri da quell'Ettore Scola cui, non per caso, il film è dedicato.
· "45 anni" di Andrew Haigh (Inghilterra, 2015)
È singolare come gli anziani stiano guadagnando sempre più spazio al cinema: ma se oltreoceano si mette in scena, un po' furbescamente, la terza età come l'inizio di una nuova vita o l'occasione per godersi quanto si è sprecato in passato, in Europa la si guarda invece con maggiore attenzione e sensibilità. Si pensi ad "Amour" di Haneke, ma anche al recente "Youth" del nostro Sorrentino.
Questa nouvelle vague europea sul mondo degli anziani è confermata in pieno da "45 anni", terzo lungometraggio del regista inglese Andrew Haigh. Colpisce anche il fatto che si tratti di un cineasta molto giovane (classe 1987), ma evidentemente dotato della giusta capacità di osservazione e finezza psicologica per accostare certe tematiche senza cadere negli stereotipi: lo dimostra la bella sceneggiatura da lui firmata insieme a David Constantine. Si racconta di una coppia di vecchi coniugi senza figli, i Mercer, che vivono serenamente nelle campagne inglesi: qualche passeggiata con il cane, piccole incombenze domestiche e incontri con gli amici di sempre, scandiscono i loro giorni non troppo eccitanti, forse, ma nel complesso privi di grosse preoccupazioni. Nell'avvicinarsi dei 45 anni di matrimonio, oltretutto, Kate è molto presa dall'organizzazione della festa nella quale saranno celebrati da tutti i loro amici, giovani e vecchi. Giusto una settimana prima dell'evento, però, Geoff riceve una lettera dalla Svizzera. Viene così a sapere che un ghiacciaio alpino ha conservato per cinquant'anni, e ora restituito, il corpo della sua vecchia fidanzata, che morì appunto precipitando in un crepaccio.
La notizia coglie entrambi di sorpresa, ma se Kate cerca subito di riportare il marito al presente per risospingere quel fantasma nel passato, Geoff si mostra turbato più del dovuto, come se anche nella sua routine coniugale si fosse aperto un crepaccio fatale. I giorni che precedono la festa scorrono così in un saliscendi di sospetti e tacite incomprensioni, di domande senza risposta, mentre Kate scopre che quell'antico legame era per Geoff qualcosa di più serio, forse, di una semplice cotta giovanile. Al punto da rendere quasi imbarazzante, e tutt'altro che rassicurante, la stessa celebrazione dell'anniversario.
Quello di Haigh è un film che sceglie tonalità sommesse, quasi uniformate al clima stabilmente uggioso che domina la campagna britannica, ben fotografato, ma proprio per questo arriva a bersaglio, senza dover ricorrere a scene madri e dialoghi sopra le righe. Intonatissima, e davvero molto inglese, risulta la stessa recitazione dei due protagonisti, l'ex giovane arrabbiato del cinema inglese Tom Courtenay (Geoff) e la grande Charlotte Rampling (Kate), che sanno aderire allo spartito con magistrale sobrietà espressiva, e lasciano decantare per sottrazione l'abisso e i dubbi che minano il loro menage alla radice, proprio quando sta per ricevere la sua consacrazione. L'Orso d'argento toccato a entrambi nell'ultimo festival di Berlino appare meritatissimo.
Lontano dalle scorciatoie di tanto cinema consolatorio, che scade facilmente nel grottesco, il film di Haigh colpisce per l'esemplare lucidità dello sguardo: il dramma in atto viene osservato da una distanza che non esclude partecipazione emotiva, ma preferisce esprimerla attraverso gesti quotidiani e silenzi che parlano da soli, mentre il sospetto di aver vissuto un legame inautentico affiora crudelmente in superficie, proprio come quel corpo di donna nel ghiacciaio. Un film calibratissimo e profondo: da vedere.
· "Samba" di Eric Toledano, Olivier Nakache (Francia, 2015)
Il cinema di oggi è stranamente affollato da coppie di registi. Perlopiù si tratta di fratelli, come i Coen, i Dardenne, o i nostri inossidabili Taviani. Eric Toledano e Olivier Nakache, invece, non sono fratelli, ma di sicuro una coppia ormai ben oliata, che non a caso ha già ottenuto un grande successo internazionale come "Quasi amici". Ecco perchè c'era molta curiosità intorno a questo loro nuovo progetto.
"Samba" è una commedia che, almeno a grandi linee, rispetta la formula già premiata: cioè un racconto di realtà problematiche svolto senza far mancare il sorriso, ma in generale lo sguardo dei due registi appare più pensoso e meno tranciante, senza cercare di esorcizzare nella battuta a tutti i costi i lati più spigolosi della vicenda che mettono in scena. In questo senso la coppia sembra evolversi gradualmente verso un cinema sociale che a tratti può richiamare quello più dichiaratamente schierato di Ken Loach, ad esempio. La profonda differenza è che Toledano e Nakache, indubbiamente, vengono dalla commedia di caratteri, e certe forzature drammatiche del regista britannico non rientrano nel loro dna di cineasti. E non è detto che questo sia un limite. Anzi.
Il senegalese Samba (il bravo Omar Sy, attore feticcio del duo registico) fa il lavapiatti, sempre a caccia di stabilità in terra francese, e s'imbatte nella misteriosa Alice (Charlotte Gainsbourg), una parigina che dopo un esaurimento nervoso ha scelto di rimettersi in gioco come volontaria nel mondo dell'associazionismo che si occupa dei migranti. A prima vista, sono davvero due personaggi opposti: lui un migrante grande e grosso dai modi schietti, lei una borghese parigina piena di chiaroscuri. Infatti, dopo il primo incontro, i loro percorsi si separano e s'incrociano più volte, senza vera continuità, ognuno alle prese con i suoi problemi. Eppure Alice è attratta da Samba, così diverso dagli uomini che frequenta, e lui si aggrappa a lei per sentirsi meno solo, e riuscire finalmente a mettersi in regola, ma ogni volta qualcosa li tiene a distanza, scongiurando un vero coinvolgimento. Pregiudizi incrociati o paura di scontrarsi con la cruda verità, probabilmente. Sia lui che lei, è un fatto, vengono ammoniti da amici e colleghi a non farsi illusioni e restare coi piedi per terra. Quando poi l'amore si manifesta davvero, forse, è tardi. O forse no...
In realtà è un film a più strati, dietro l'apparente semplicità del racconto. Si ride, certo, ma più attraverso i personaggi comprimari che nel caso dei due protagonisti. Fa ridere il finto brasiliano Wilson, migrante algerino che ostenta modi scanzonati per tenersi a galla tra i pregiudizi, così come divertono gli equivoci linguistici durante i colloqui burocratici dei migranti, ma la temperatura tra Alice e Samba, invece, è un'altalena di caldo e di freddo, che procede tra lunghe pause e incomprensioni. È in queste pieghe del racconto che emergono senza veli le dure problematiche dell'integrazione, da un lato, e le nevrosi sempre in agguato dall'altro. Quasi che il filo che lega, in fondo, i due protagonisti sia proprio il loro precariato esistenziale: quando Alice sta per rientrare in ufficio si blocca e chiama Samba per darsi coraggio, e quando lui sta per arrendersi e tornare a casa è lei che va ad offrirgli un'altra occasione per restare. Tutto si tiene e si consolida proprio nel reciproco bisogno: la morale del film è questa.
"Samba" è una commedia intrisa di ambiguità, sviluppata attraverso caratteri e sentimenti che non procedono per assoluti, ma risentono dei contraccolpi seminati dalla morale corrente: sospetti, timori, luoghi comuni. Anche dietro il sorriso si avverte, per contrasto, la difficile arte della convivenza, che vuol dire confrontarsi non solo con l'altro, ma con i propri fantasmi e le delusioni del passato. Mettere insieme la speranza e la coscienza di sè richiede fatica: ma forse, a volte, ne vale la pena. Una commedia dove si ride in agrodolce, senz'altro consigliata.
· "Il giovane favoloso" di Mario Martone (Italia, 2014)
Non è certo impresa da poco, neppure per un valido cineasta come Mario Martone, mettere in scena una figura come Giacomo Leopardi. Il poeta di Recanati è infatti uno dei monumenti della cultura nazionale che in ognuno di noi si lega al periodo scolastico, con tutti gli annosi eppure ingombranti limiti di prospettiva che questo significa: e forse proprio per sottrarlo a quel ritratto ormai ingiallito, il regista partenopeo ha voluto e girato quest'ultimo film, proseguendo così un suo personale itinerario nell'Ottocento italiano iniziato con il precedente "Noi credevamo."
Il film segue le tappe salienti della vita del poeta, suddivisa dalla sceneggiatura in tre periodi fondamentali: quello recanatese, quello fiorentino e l'ultimo, trascorso nella Napoli dell'amico fraterno Antonio Ranieri. Senza inventare quasi nulla della materia biografica, il regista ha saputo fare una cosa ancora più difficile: intrecciare con grande accuratezza gli inserti lirici più celebri con le fasi psicologiche del grande marchigiano, senza limitarsi cioè a quella piatta raccolta di "figurine" che avrebbe fatto felice il pubblico più pigro. Il risultato è importante, perché l'uomo Leopardi ne esce vivificato, restituito insomma alla sua straordinaria esperienza di artista e intellettuale, molto più vitale e irrequieto di come una tradizione ormai imbolsita ha voluto tramandarlo a intere generazioni. Il desiderio di gloria, di conoscenza e amore del giovane adolescente, ingabbiato tra le mura della villa di famiglia sotto lo sguardo del padre Monaldo, capace almeno di qualche umano gesto d'affetto dietro la sua maschera severa, al contrario di una madre algida e distante, si alimenta all'inizio attraverso la corrispondenza con Pietro Giordani, il primo a intuire il talento del giovane, e a dargli il coraggio necessario per uscire dal guscio.
Il periodo fiorentino, già condiviso con il fido Ranieri, è quello in cui il giovane Leopardi può finalmente misurarsi con altri letterati e intellettuali del tempo, spesso trovando solo indulgenza, o anche amicizia, ma raramente vera comprensione. I suoi scritti, poetici e in prosa, non ottengono mai il giusto riconoscimento: il suo ragionato e appassionato argomentare sull'infelice destino umano, infatti, suona in netta controtendenza rispetto ai nuovi fermenti romantici, e non fa breccia. Di fronte a letterati sprezzanti come il Tommaseo, però, il recanatese tiene il punto e ribadisce le sue tesi, basate sulla propria esperienza e la sue sensibilissime antenne. Non va meglio nei rapporti con le donne, che provano per lui solo una simpatia non esente da una punta di pietà, come accade con la nobildonna Fanny Targioni Tozzetti (Anna Mouglalis). La sofferenza di fronte al rifiuto, espressa in una sequenza anche visivamente struggente, sta proprio qui: nel non venire mai considerato per ciò che egli è davvero, un uomo appassionato e curioso che non cerca pietà, ma amore ed entusiasmo, ogni volta mortificato dall'incomprensione degli altri.
Gli anni napoletani sono quelli più ricchi di contrasti, stretti tra l'aggravarsi delle sue condizioni fisiche e l'osservazione attenta della natura esuberante e solare che la città, incluso il suo popolo, gli sa offrire. In sequenze perfino sorprendenti, vediamo il conte Giacomo mescolarsi divertito alla gente dei bassi napoletani, senza nessuna affettazione, mentre lo spettacolo di un'eruzione del Vesuvio alimenta l'ultima grande creazione poetica, "La ginestra", dove il suo pensiero sulla natura matrigna è grandiosamente messo a fuoco per sempre.
Va detto a questo punto che Elio Germano è strepitoso nei panni del poeta, e della sua capacità mimetica, fisica e psicologica, il film si giova enormemente. E convincenti sono pure, per ricchezza di sfumature, Massimo Popolizio (Monaldo) e Michele Riondino (Ranieri), fino a Edoardo Natoli e Isabella Ragonese, cioè i fratelli Carlo e Paolina, affettuose presenze che confortano l'adolescente Giacomo nel claustrofobico "borgo selvaggio". Quello che fa del "Giovane favoloso" un grande film, però, è soprattutto l'impostazione che Martone ha dato al progetto: senza pretendere di raccontare cose nuove, e romanzando davvero al minimo sindacale, il regista napoletano ha saputo però ricollocare Leopardi nel suo tempo, focalizzando abilmente quei momenti che hanno forgiato un temperamento davvero unico, capace di "sentire" e "capire" al tempo stesso, così da scavalcare il clima ingenuamente retorico del primo Ottocento italiano. In questo modo il film riesce nell'impresa di tenere insieme lo scandaglio razionale di un'anima in divenire con il pathos delle sequenze più emozionanti, e sono molte, senza creare fratture nel dipanarsi del racconto. Spiazzante, ma sicuramente funzionale in questa direzione, anche la coesistenza di musiche ottocentesche ed elettroniche nella colonna sonora.
Non sono neppure molte, a ben vedere, le poesie recitate nel corso del film, ma lasciano il segno proprio per questo intelligente lavoro di sceneggiatura: mentre echeggiano i versi de "L'infinito", de "La sera del dì di festa" e quindi de "La ginestra", il polveroso santino del gobbetto lacrimoso viene spazzato via dal ritratto appassionato di un uomo che s'interroga e soffre sul destino suo e dei propri simili. In questo senso la lunga sequenza finale, con lo sguardo febbrile del poeta immerso nel mistero del cielo notturno e della natura, sembra racchiudere l'essenza del film e dello stesso Leopardi, figura del nostro pantheon letterario che come nessun'altra, forse, meritava questa vitale riscoperta. Un film impegnativo, ma costruito con raro equilibrio, e spesso toccante.
· "Il capitale umano" di Paolo Virzì (Italia, 2014)
L'ultimo film diretto da Paolo Virzì è stato subito accompagnato da un coro di polemiche localistiche, e addirittura prima della sua uscita in sala, badate bene: un motivo più che sufficiente, secondo me, per glissare e concentrarci sul merito dello spettacolo. Si potrebbe definirlo il film della svolta, nella già ricca parabola del regista livornese, ma forse questa prima impressione necessita di approfondimento, per evitare malintesi.
Non voglio certo dire che "Il capitale umano", film bellissimo e sorprendente, debba riscattare le sorti di un autore che, al contrario, si è imposto negli anni come l'ultimo, e forse il più lucido, tra gli eredi della grande commedia italiana: quella che abbinava il riso a uno sguardo disincantato sulle storture della società, per capirci. I precedenti erano, e restano, film di buona fattura, sia pure con qualche momento minore qua e là. Il fatto è che in questo caso Virzì cambia registro, e la storia che racconta palesa subito uno spessore più maturo, anche nei toni, forse perché la splendida sceneggiatura (firmata insieme a Francesco Piccolo e Francesco Bruni) rimaneggia un romanzo dell'americano Stephen Amidon ("Human Capital"), ambientato nel Connecticut: spostandolo molto accortamente nella ricca Brianza italiana, il regista ha saputo personalizzare il plot in maniera attualissima, catturando così uno spirito, anzi una logica, eletta ormai a sistema dominante, e di certo non solo in quella regione, con buona pace di qualche permaloso assessore leghista. Potremmo definirla, molto sinteticamente, la logica del profitto.
Il piccolo immobiliarista Dino Ossola, con la scusa che la figlia si è fidanzata con il rampollo dei ricchi Bernaschi, quelli con la villona da sogno che fanno affari milionari in borsa, medita il grande salto di qualità e tramite un rischioso prestito bancario trova i soldi necessari a entrare nell'affare del momento. Fa male i calcoli, ovviamente, e riesce a salvarsi dalla catastrofe solo in modo rocambolesco, speculando sul giallo che coinvolge proprio il figlio del Bernaschi, accusato di aver investito con l'auto un uomo in bici che poi muore. Thriller e umori sulfurei convivono dunque nel film messo in piedi da Virzì, grazie a una struttura elegante e polifonica: la vicenda, infatti, è articolata per capitoli dal punto di vista soggettivo di alcuni personaggi, componendo un compiuto ritratto di gente alla deriva, infarcito di pungenti osservazioni caratteriali e ambientali che, va detto, non risparmiano quasi nessuno e spesso, genialmente, sanno capovolgere certi stereotipi abusati.
A ben vedere, infatti, in questo affresco di provincia al vetriolo si salvano davvero in pochi, sia tra i benestanti che tra gli altri: non certo la ricca Carla Bernaschi, moglie e madre relegata in un ruolo ormai decorativo che inseguendo l'idea di restituire un teatro dismesso alla comunità riesce solo a complicarsi la vita con una tresca maldestra di cui si pente subito; non suo marito Giovanni, un uomo che ragiona solo per cifre e neppure per sbaglio si accorge di quanta infelicità lo circondi; né, tantomeno, il piccolo immobiliarista Dino, forse anzi il peggiore della schiera, che accecato dalle sue ambizioni economiche rischia di gettare sul lastrico la sua famiglia, e non esita a servirsi del più squallido espediente per rifarsi. Lo stesso discorso vale per i più giovani, viziati o irresponsabili di volta in volta, con l'unica scusante dell'esempio che hanno in casa propria: è il caso di Luca, un ragazzo segnato da un passato difficile, che è cinicamente sfruttato da uno zio davvero orribile. Il "capitale umano" è davvero una parata di mostri grandi e piccoli, inquietante istantanea di un humus e una mentalità che, al di là dell'ambientazione brianzola, suona sempre più familiare perché ha messo solide radici dappertutto.
Stilisticamente, il nuovo Virzì accantona in parte lo sberleffo bonario che lo ha reso un autore di successo, preferendo semmai la smorfia grottesca al culmine del pathos (esemplare la scena del ricatto in chiesa), ma continua imperterrito a graffiare la superficie del paese reale con impietosa lucidità. La confezione è curatissima, dalla fotografia plumbea e funzionale al montaggio, per finire, soprattutto, con un cast veramente impeccabile che fa scintille: in un gioco di squadra formidabile anche nei ruoli di contorno, si segnalano Fabrizio Bentivoglio (Dino) e Valeria Bruni Tedeschi (Carla), passando per Fabrizio Gifuni (Giovanni) e Valeria Golino (la moglie di Dino), oltre ai più giovani Giovanni Anzaldo e Matilde Gioli, tutti perfettamente in parte. Il film, poche storie, è assolutamente da non perdere e segna l'ennesimo punto a favore del cinema italiano di oggi: a proposito, ma non era in crisi?
·"L'intrepido" di Gianni Amelio (Italia, 2013)
Ci sono films che deludono, o spiazzano, perché se ne parla troppo prima che escano in sala, e magari a sproposito. Quest'ultimo lavoro firmato da Gianni Amelio era stato presentato, ad esempio, come la prima volta del regista calabrese nei territori della commedia, per lui finora vergini, ma è proprio così? Direi di no, nonostante la presenza di un attore duttile, e spesso comico, come Antonio Albanese. "L'intrepido", titolo che cita anche l'omonimo giornalino famosissimo fino agli anni Settanta, è piuttosto un film volutamente paradossale e anomalo, che sconta nei risultati una scelta rischiosa, quasi una sfida di tono e registro ad un certo realismo ansiogeno che domina spesso l'ultimo cinema italiano.
Antonio Pane è un quasi cinquantenne milanese che vive solo: ha un figlio ormai grande che fa il musicista, mentre la moglie lo ha lasciato da tempo. Nonostante tutto è il classico tipo che non si dà mai per vinto. Non ha un lavoro fisso, ma si è inventato il ruolo del "rimpiazzo": ogni volta che c'è da sostituire un titolare, per un'ora o un giorno intero, lui arriva e si mette all'opera adattandosi a tutto. Lo vediamo consegnare pizze a domicilio, lavorare da muratore nei cantieri, ripulire lo stadio o sistemare il pesce ai mercati generali: sempre con lo stesso spirito positivo, ottimistico e fiducioso, che lo rende cordiale con il prossimo e pronto a dare una mano a chi ne ha bisogno. Infatti a un certo punto prende a cuore la giovane Lucia (Livia Rossi), conosciuta durante un concorso, e prigioniera di un lucido pessimismo che le impedisce di nutrire la sua stessa fiducia. La notizia del suicidio della ragazza è un duro colpo, come la scoperta che l'uomo che gli procura queste occasioni lavorative si muove in territori loschi e per lui inaccettabili, che lo spingono a ricominciare da zero. Tutto a questo punto si fa più difficile, e il proverbiale ottimismo di Antonio è messo a dura prova: alla fine, dopo un penoso incontro con la moglie mentre cerca di vendere rose in un ristorante, e altre piccole amarezze, è costretto perfino a emigrare in Albania per sopravvivere.
L'andamento del film è disuguale. Se infatti nella prima parte il tourbillon lavorativo e frenetico di Antonio strappa più di un sorriso, evocando tracce di Chaplin e di un certo neorealismo favolistico ("Miracolo a Milano" ad esempio), nella seconda parte il film sembra precipitare per slittamenti di tono verso un'atmosfera cupa e depressa, che si riflette anche nella fotografia sempre intonata di Luca Bigazzi e sgombra del tutto il campo da ogni residua vis comica. Al tempo stesso, però, mette in luce qualche discrepanza nello sviluppo della sceneggiatura, come se la sfida favolistica e poetica del protagonista alla schiacciante crudezza della realtà si fosse arresa all'evidenza senza neppure combattere. Salvo poi, con un colpo di coda piuttosto efficace, resuscitare e trasmettere il giusto coraggio del "fare" al figlio Ivo (Gabriele Rendina), sassofonista dotato eppure incapace di affrontare la prova del pubblico nei suoi concerti.
Il film di Amelio, diciamolo, pur spiazzando le attese non è affatto un film da buttare. Tutt'altro, a ben vedere. Ha sicuramente dei difetti, come nel tratteggio un po' sommario di qualche personaggio, ma ha pure il merito di volare alto e battere vie inconsuete nei toni e nel ritratto del suo protagonista. La sfida era quella di proporre un personaggio quasi fuori dal mondo, per il candore e l'ottimismo testardo che lo connotano in un contesto cronicamente disperante come il mondo del lavoro in Italia: una scommessa non del tutto vinta, forse, ma che al tempo stesso non lascia indifferenti. "L'intrepido", per parlar chiaro, deluderà di certo i paladini del realismo a senso unico, di quel pessimismo della ragione che non ammette consolazioni di sorta: ma è proprio questo, invece, che il cinema può e deve offrire al pubblico, massimamente nei momenti più avari di prospettive, e Amelio ha senz'altro ragione a rivendicarlo. E alla fine il personaggio di Antonio, che Albanese indossa con la generosa naturalezza che gli è propria, lascia balenare un'idea di intima resistenza al cinismo che può naturalmente sconcertare, eppure fa pensare e lascia comunque il segno. Non è certo una novità che siano proprio i film imperfetti come questo, nati più sull'onda emotiva che attraverso il bilancino del realismo militante, a raccontare meglio il mondo altrettanto imperfetto che abbiamo intorno.
·"La migliore offerta" di Giuseppe Tornatore (Italia, 2013)
Il cinema di Tornatore oscilla regolarmente tra due poli espressivi molto distanti: uno è quello più solare e mediterraneo, opulento anche nella messa in scena, da "Malena" a "Baaria"; l'altro sceglie invece uno stile quasi gotico, introspettivo e spesso metafisico, da "Una pura formalità" fino a quest'ultimo progetto.
Qui tutto rimanda ad un'idea di cinema raffreddata nei tratti esteriori quanto potenzialmente esplosiva nella lacerata psicologia dei personaggi, a cominciare da Virgil Oldman (un nome che è tutto un programma): banditore d'aste internazionalmente noto, e accanito collezionista lui stesso, vive in un mondo difeso con cura da ogni intrusione e senza concessioni al mondo degli altri, meno che mai alle relazioni sentimentali. Di fronte alle donne, infatti, volge prudentemente lo sguardo altrove, mostrando un contegno di ostentato distacco dietro i modi impeccabili da gentiluomo. Le uniche donne che ama e guarda davvero sono i ritratti femminili collezionati con tenacia per tutta una vita, grazie anche al vecchio amico Billy, che durante le aste acquista per lui i pezzi più pregiati, secondo un oliato meccanismo di complicità.
Tutto funziona, finché nella vita di Virgil irrompe la misteriosa Claire, giovane donna che vuole vendere mobili e dipinti della sua antica villa, dopo la morte dei genitori. Il guaio è che soffre di un'estrema forma di agorafobia che le impedisce anche solo di uscire di casa e mostrarsi agli estranei: una vita reclusa nei suoi sontuosi confini. Prima irritato, poi affascinato dalla misteriosa creatura, Virgil si confessa col giovane Robert, abile artigiano al quale affida sia i suoi sentimenti per l'ineffabile ragazza, sia la ricostruzione di un automa settecentesco i cui pezzi rinviene via via proprio nella villa che sta inventariando. La costruzione dell'automa, lenta e laboriosa, cattura perfettamente l'ansia di rimettere a posto i pezzi della sua vita solitaria e dare un nome finalmente all'ossessione per la bella Claire. Come in un gioco di specchi, aiutando la donna a uscire dal suo isolamento, il banditore sente di recuperare anche una vita perduta nella finzione artistica, priva di reale rispondenza emotiva. Alla fine, tutto sembra andare per il verso giusto: Claire si fida di lui, l'amore tra loro trionfa e lui decide di abbandonare il suo lavoro per dedicarsi a una nuova vita con la donna. Peccato solo che sia tutto una colossale trappola ai suoi danni...
Votato da sempre alla finzione, Virgil scopre che anche lui ne è stato crudelmente vittima: fidandosi della più dolce apparenza, ha perduto tutto quello che aveva costruito per anni al primo vero confronto con la realtà dei sentimenti. Magnificamente interpretato da Geoffrey Rush, questo personaggio tormentato e fondamentalmente ingenuo, appena esula dai suoi confini professionali, rimarrà probabilmente uno dei più emblematici personaggi di Tornatore, per come incarna la serrata dialettica tra verità e illusione, bellezza e menzogna. Complice anche una sceneggiatura ben articolata, a parte qualche eccesso didascalico qua e là, e un'eleganza visiva perfettamente adeguata all'atmosfera psicologica del film, "La migliore offerta" è insomma l'ennesima conferma del talento vero del regista: ormai sicuro dei suoi mezzi espressivi e con le idee sempre molto chiare, anche quando, periodicamente, si allontana dalle sue radici siciliane. Consigliato.
·"Bella addormentata" di Marco Bellocchio (Italia, 2012)
E' una fortuna che il cinema italiano, nella sua cronica altalena tra conferme e delusioni, possa ancora fregiarsi di autori come Marco Bellocchio: uno dei pochi registi che sembra in grado di leggere con intelligenza lo stato delle cose, ogni volta proponendone un punto di vista personale che, condiviso o meno, è sempre capace di far riflettere e illuminare zone d'ombra del nostro tempo. Accade anche in quest'ultimo film, presentato in concorso all'ultimo Festival di Venezia. Il caso di Eluana Englaro è in realtà più lo sfondo funzionale che il centro vero del plot, frastagliato in una serie di vicende parallele, e la scelta di questa prospettiva ha il merito di aprire il racconto ad una dimensione corale che dalla cronaca pura di quell'evento spreme fecondamente il vissuto di personaggi costretti a interrogarsi.
Attraverso un montaggio agile quanto armonico (Francesca Calvelli), seguiamo dunque i diversi percorsi collegati alla vicenda di Eluana. Un senatore di centro-destra, che dovrebbe votare secondo la linea decisa dal partito, vive un profondo travaglio perché, scopriamo ad un certo punto, ha sperimentato già nella sua vita un caso di eutanasia. Sua figlia, sulle prime fermamente contraria a una scelta del genere, scopre dopo un fulmineo innamoramento di aver giudicato il padre, e il problema, in maniera troppo astratta. Una famosa attrice ha gettato alle ortiche la sua carriera e ogni ambizione personale per votarsi in maniera esclusiva alla figlia in coma da tempo, anche a costo di perdere di vista il resto della sua famiglia. Infine c'è la storia che sembra meno collegata al resto: un giovane medico che si prende cura ostinatamente, e contro lo scetticismo dei colleghi, di una ragazza tossica con pulsioni suicide ricorrenti.
Si nota subito che Bellocchio, in altri casi più sferzante e provocatorio nelle sue prese di posizione, ha voluto un film aperto e dialettico tra le diverse sensibilità in campo. Detto questo, è fondamentalmente sbagliato parlare di una sceneggiatura che non si schiera: più giusto sottolineare, invece, che il regista (con i cosceneggiatori Stefano Rulli e Veronica Raimo) ha scelto questa volta non la tesi unilaterale, quanto il singolo personaggio e la sua capacità di confrontarsi intimamente con un problema tanto delicato. Il suo film, quindi, scava un solco non tanto tra l'una o l'altra delle posizioni che si sono confrontate rumorosamente e spesso in maniera propagandistica nei giorni finali di Eluana, ma piuttosto tra chi ha saputo interrogare davvero la propria coscienza e chi, invece, ha fatto del caso un uso meramente politico e strumentale. Qui, a ben vedere, il suo giudizio è netto e severo.
Il dubbio umanissimo che si palesa nel tormentato percorso del senatore, il sincero ripensamento stesso di sua figlia, così come l'abnegazione dell'attrice verso la figlia e del medico che si fa carico in prima persona della tossicodipendente, si saldano allora in un blocco unico, al di là delle apparenti divergenze. In questi personaggi c'è coscienza del dolore, presente e passato, e c'è anche un'etica di fondo che sembra nascere dall'esperienza: non arrendersi al cinismo imperante, quello dei medici che scommettono perfino sulla morte di Eluana ad esempio, o alle aride logiche di partito tradotte nelle sciagurate dichiarazioni attorno al letto di morte di Eluana. E Bellocchio sta con loro, scavalcando ogni divisione ideologica.
Ecco, se "Bella addormentata" ci restituisce un ritratto impietoso dell'Italia, specie nei primi minuti del film, quando ognuno dei personaggi sembra inchiodato allo schermo televisivo e ipnotizzato dal chiasso mediatico che sovrasta ogni riflessione, sembra pure indicare nel coraggio della scelta individuale, nell'onestà del proprio sentire al di là di ogni tornaconto, la sola possibile risposta a questo stato di cose.
Alla rappresentazione scenica del regista, visivamente elegante grazie anche alla fotografia efficacissima di Daniele Ciprì, porta alimento un cast davvero intonato: Toni Servillo (il senatore) non è certo una novità nel suo maturo eclettismo, ma è bravissima anche Alba Rohrwacher (sua figlia), come molto generosa è la prova della diva Isabelle Huppert. Sono loro, con i loro personaggi, a illuminare di sequenze toccanti un racconto cupo e spesso sconsolato di fronte al paese che mette in scena, con le sue miserie umane e i lampi di volgarità che fanno osceno spettacolo anche della morte. Un film sicuramente amaro, ma ricco e articolato, che alla fine sa emozionare e lasciare il segno.
·"Paradiso amaro" di Alexander Payne (USA, 2011)
E' possibile che un film con tutti gli ingredienti di genere codificati e già visti possa alla fine non deludere del tutto, e lasciare dentro, magari, qualche utile riflessione? Sicuramente sì, perchè anche il film meno riuscito offre spunti interessanti, a patto, ovviamente, di saper vedere dietro l'apparenza.
Il paradiso del titolo italiano sono le Hawaii, dove l'avvocato Matt King vive con la sua famiglia: un paradiso naturale che diventa improvvisamente amaro quando la moglie, dopo un incidente in mare, è ridotta in fin di vita. L'avvocato si trova così a fronteggiare, oltre al dolore, una serie di problemi nuovi per lui, a cominciare dal rapporto con le due figlie, Alexandra e Scottie, che come tutti gli uomini in carriera ha spesso trascurato. Nello stesso tempo, come se non bastasse, deve anche curare nel modo più vantaggioso la cessione della sterminata proprietà di famiglia, per mettere d'accordo tutto il folto parentado.
La situazione peggiora quando, poco dopo aver saputo dai medici che il destino della moglie è ormai irreversibile, e si consumerà nel giro di pochi giorni, l'avvocato apprende proprio dalla figlia più grande che la donna lo tradiva. Una scoperta che lo sconvolge e lo spinge a voler conoscere i dettagli di questa relazione segreta. Insieme alle due figlie, con la scusa di una breve vacanza, si mette alla ricerca dell'amante di sua moglie: è un modo forse per soffocare il rancore che di colpo prova verso una donna morente e che ha sempre considerato al di sopra di ogni sospetto. Un viaggio doloroso, ma non inutile, che gli aprirà anche la strada per una rapporto migliore con le due figlie.
Raccontato così, il film di Alexander Payne, ormai noto autore di alcune sapide commedie (da "A proposito di Schmidt" a "Sideways") somiglia a una vicenda dalle tinte cupe e dai toni ricattatori di molte produzioni americane. Se non è proprio così, invece, lo si deve al dosaggio accorto degli elementi immancabili in storie del genere. Che non mancano del tutto neppure qui, intendiamoci, ma non diventano mai stucchevoli e lasciano invece emergere sapori più compositi, così che il film si lascia vedere fino in fondo. Molto funzionale, per cominciare, l'ambientazione hawaiana: una serie di paesaggi mozzafiato tra le spiagge assolate di una festa perenne, e una natura rigogliosa, quasi sfacciata, che sembra l'esatto contraltare della malinconia che domina i protagonisti, e sottolinea abilmente come la vita di tutti proceda per contrasti e paradossi, in un mix talvolta crudele di bellezza e tragedia. Ma non è l'unico aspetto che salva il film di Payne.
Piace anche, nel complesso, la scelta di far convivere personaggi eterogenei tra loro, col risultato che la sceneggiatura procede in maniera tutt'altro che uniforme e canonica, quanto invece a sbalzi, con piccole sfasature interne al plot che finiscono per sottrarlo a certi stereotipi. Basti citare i dialoghi "ruvidi" tra King e il suocero (l'ottimo Robert Forster), o anche la figura dell'adolescente Syd, amico della figlia maggiore, che sembra l'incarnazione perfetta del giovanottone del tutto privo del minimo tatto. In questo contesto, meno ortodosso del solito, che riesce a inserire stranianti toni da commedia nel dramma in atto, si muove il personaggio centrale intepretato da un George Clooney insolito anche lui rispetto ai suoi ruoli più famosi, e tuttavia molto credibile nei panni di quest'uomo medio in tutto, nel dolore e nello spaesamento davanti a situazioni che lo portano dal dolore all'odio, fino al recupero finale di una sua identità sentimentale che travalica il cinico affarismo di sempre, anche a costo di deludere le attese degli avidi familiari. Come a dire che proprio nella sofferenza si può imparare qualcosa su di sé e cambiare atteggiamento, magari in meglio.
Insomma, non resterà forse il film più memorabile di Payne, ma "Paradiso amaro" ha il merito di aver sfidato tutte le convenzioni più trite sempre annidate nel genere "melò" riuscendo, almeno in parte, a trovare un'angolazione interessante alla vicenda di morte e dolore che mette in scena. Per questo motivo, a mio parere, merita senz'altro la visione.
·"Ruggine" di Daniele Gaglianone (Italia, 2011)
Nel panorama del cinema italiano si aprono ormai sempre più spesso squarci di rinnovamento piuttosto espliciti, che svelano una generazione di autori dal passo molto personale. E' questo anche il caso di Daniele Gaglianone (classe 1966), nato come documentarista e oggi regista da seguire con interesse.
"Ruggine" è tratto dal romanzo omonimo di Stefano Massaron, e racconta l'incontro tra l'infanzia e il male attraverso scelte espressive decisamente originali. In una periferia del nord fatiscente e proletaria degli anni Settanta, si muovono tra gli altri tre bambini come Carmine, il più aggressivo, il più timido Sandro e Cinzia. Nel quartiere arriva il dottor Boldrini, che dietro i tratti cordiali e signorili nasconde un'anima nera, svelata da improvvisi lapsus che i suoi clienti non sempre riescono a inquadrare. I bambini hanno però una sensibilità più acuta, e quando cominciano a susseguirsi i ritrovamenti di loro coetanei uccisi e violentati, oscuramente capiscono che il responsabile è proprio il medico.
La verità resta però all'interno del gruppo, nel timore di non essere creduti, e questo, oltre a cementare dolorosamente l'amicizia tra loro, origina una ferita profonda che segnerà la loro vita futura, seppure in modi diversi. Cinzia, divenuta insegnante, sviluppa una sensibilità spiccata per cogliere i segnali del disagio tra i suoi studenti, mentre Sandro sarà un padre particolarmente affettuoso e complice. Il solo Carmine (Valerio Mastandrea), adulto polemico e frustrato, vivrà senza riscatto quel trauma, sommandolo al senso di colpa tutto personale per la reazione violenta che l'episodio scatenò in lui.
Il racconto è strutturato tramite lunghi flash-back che legano i personaggi adulti alla loro infanzia, ma Gaglianone lavora soprattutto sulle modalità ambientali della messa in scena, decisiva per entrare nel mondo interiore dei suoi personaggi. Il regista adotta uno stile ellittico che lascia sempre fuori quadro la violenza, magari dilatando ad arte la cornice e i dettagli marginali, mentre sfocature e inquadrature irregolari restituiscono la dimensione ambigua del ricordo infantile, che procede tra enfatizzazioni e stupori, s'uno sfondo di degrado sociale tenuto sempre in primo piano. Quanto alla recitazione è davvero magistrale, in un cast molto intonato, la prova di Filippo Timi, che presta al medico pedofilo una maschera contraddittoria e sfuggente, alla fine davvero perturbante perché niente affatto lineare.
C'è probabilmente qualche lungaggine di troppo nel segmento di Sandro adulto (Stefano Accorsi), mentre assai polemico, e forse un po' didascalico, è il ritratto del corpo insegnante che emerge nel segmento che riguarda Cinzia (Valeria Solarino) durante un movimentato consiglio scolastico. Sbavature che non mutano il giudizio sostanzialmente positivo sul film di Gaglianone: percorsi stilistici come il suo, fuori dal coro e da facili scorciatoie espressive, vanno comunque sottolineati con favore. Film da vedere.
·"Sorelle Mai" di Marco Bellocchio (Italia, 2010)
Il cinema di Marco Bellocchio non è mai stato accomodante, o di facile approccio. Nelle sue varie fasi, il regista si è sempre distinto per uno sguardo problematico, se non apertamente polemico, verso le realtà di volta in volta indagate dalla sua cinepresa: è anche per questo modo di fare cinema, originale anche negli episodi meno riusciti, che possiamo considerarlo uno dei pochi maestri ancora in circolazione.
Non sfugge alla regola neppure quest'ultimo suo lavoro, che ha una genesi particolare. In pratica il film si è costruito nel tempo, per l'esattezza in sei diversi momenti nel periodo 1999-2008, ognuno dei quali rappresenta uno sviluppo della vicenda ambientata sempre nel luogo natale di Bellocchio, vale a dire il paese di Bobbio (Piacenza). Qui, il regista ha raccolto alcuni dei suoi veri familiari, in quello che alla fine suona come un recupero, pacificato, di quelle radici un tempo rinnegate: parlo ovviamente del celebre film d'esordio, "I pugni in tasca" (1965), che sparava a zero proprio sulla famiglia intesa come il vero centro nevralgico e simbolico di quelle istituzioni che si volevano mettere in discussione.
Il tempo trascorso ha donato a Bellocchio, come a molti della sua generazione, uno sguardo più indulgente e comprensivo. Così, sullo sfondo della stessa casa che ospitava la rabbiosa ribellione del suo primo film, vediamo i figli e i nipoti di quel momento storico ancora cercare rifugio o aiuto presso le vecchie zie che l'abitano da sempre. Da una parte c'è Giorgio (cioè Pier Giorgio Bellocchio), pieno di ambizioni frustrate, che ci torna spesso per cercare aiuto finanziario e prendersi cura della nipote Elena, figlia della sorella Sara (Donatella Finocchiaro), che fa l'attrice di teatro e ha delegato alle due zie il compito di crescerla. Lì c'è anche Gianni Schicchi, melomane e amico di famiglia, che sa curare con sollecitudine gli affari del clan e raccogliere le confessioni dei giovani. C'è insomma un ambiente che pare immobile nel tempo, e dopo tanti anni e mutamenti epocali sembra ancora il posto ideale dove leccarsi le ferite o chiudere i conti con il passato.
In ognuno dei sei episodi vediamo che il tempo scorre sui visi dei protagonisti, a cominciare dalla piccola Elena, prima bambina un po' confusa da una sistemazione poco ortodossa, seppure accogliente, e poi, via via, giovane ragazza sempre più sicura che trova i suoi primi corteggiatori. Gli altri invece, tra alti e bassi, sembrano avere nella sola Bobbio l'unico punto fermo: Giorgio ad esempio è inseguito dai creditori, i suoi disegni falliscono, le fidanzate presentate alle zie lo lasciano. Sara sembra affermarsi come attrice, ma è sempre assillata da dubbi pratici ed economici. Nel mezzo stanne le vecchie zie, così fragili all'apparenza, eppure ancora disposte a dare una mano, accudire, offrire asilo senza niente chiedere in cambio. Quasi i numi tutelari di un microcosmo che pure sta per estinguersi. Lo dimostra anche la fine, da beffardo melodramma iscenato sulle note di "Vecchio frac" di Modugno, del fidato Gianni Schicchi (attore feticcio di Bellocchio), che si lascia portare via dalle acque del Trebbia: silenziosamente e col sorriso sulle labbra, come si conviene ad un piccolo mondo consapevole del suo tramonto.
Un film, insomma, dove Bellocchio ha voluto davvero rendere omaggio alla terra che lo ha visto nascere, e con la quale tanto ha polemizzato in gioventù. Il suo film, a volte volutamente amatoriale e umile nel suo snodarsi, tra domestici interni in penombra e rari esterni, procede a strappi, a volte per ellissi che possono disorientare all'inizio, ma trova poi una sua musica dimessa e avvolgente da diario intimo, che regala suggestioni e momenti di commozione. Pur con momenti disuguali, si può dire alla fine che la sua scommessa è vinta: non resterà probabilmente il suo film più bello, ma ne conferma il talento e la personalità indiscussa, anche in un contesto così dichiaratamente intimo e privato, messo in scena peraltro con un disadorno realismo a suo modo molto coerente. Da vedere.
·"Hereafter" di Clint Eastwood (USA, 2010)
Com'è avvenuta la metamorfosi artistica di Clint Eastwood? Cosa ha trasformato un bel giorno l'attore dalle due sole espressioni fondamentali a detta di Sergio Leone ("col cappello e senza cappello") e il regista di polizieschi e western di onesta fattura, nell'autore di film bellissimi e spesso sorprendenti? Viene da chiederselo ogni volta che esce un suo nuovo lavoro, ormai da quasi vent'anni e ultimamente con una puntualità invidiabile per un regista ottantenne, e senza trovare una risposta ci si arrende al fascino del suo cinema.
Il tema scelto stavolta dal regista è particolarmente delicato: la morte e la sua frontiera, quella che alcuni arrivano a varcare per pochi istanti o minuti serbandone poi, a quanto pare, una memoria indelebile. La letteratura in proposito è ormai sterminata e molto spesso si tratta di ciarpame dove verità e suggestione si confondono tra loro. Per aggirare il pericolo, il regista americano ha spostato il tiro: il suo film indaga non tanto cosa c'è davvero oltre la morte, ma soprattutto l'effetto psicologico di certe esperienze sui protagonisti. Un'angolazione indovinata, che permette alla sceneggiatura di sollevarsi fecondamente dalle insidie annidate in certo facile effettismo.
Il plot di "Hereafter" si ramifica lungo tre percorsi diversi che solo nel finale convergono per una serie di casualità. A Londra un ragazzino muore travolto da un'auto lasciando il suo gemello Marcus, timido e taciturno, improvvisamente solo e alle prese con una madre difficile. A San Francisco un giovane uomo con il dono di saper mettere in contatto i vivi con i morti, George Lonegan, cerca in ogni modo di uscire da quella che ritiene una condanna e vivere una vita "normale". Marie, una giornalista televisiva francese, rischia di morire durante lo tsunami asiatico del 2004 e vive la classica esperienza di "quasi morte" che lascia in lei una scia capace di incidere negli affetti e nel lavoro.
Con eleganza visiva pari alla sobrietà stilistica che gli è consueta, Eastwood ha messo in piedi un affresco potente eppure calibratissimo sull'argomento tabù per eccellenza della nostra civiltà: la morte, appunto, e quello che c'è dopo. Con delicatezza di tocco e felicità nei dialoghi di Peter Morgan, il tema si dipana nelle vite parallele dei tre protagonisti, in qualche modo condannati a sentirsi "fuori" dal coro, e a fare i conti con la scabrosità della loro esperienza. Che si tratti di aiutare gli altri a sfidare il buio, come per Lonegan, o di se stessi, come avviene a Marie, o anche di un parente così intimo come può essere solo un gemello, nel caso di Marcus, la morte li tiene esattamente sospesi s'una frontiera invisibile agli altri, che promette di spezzarli oppure di arricchirli con tutta la forza oscura del mistero più grande di tutti.
Dell'aldilà, alla fine, non vediamo che poche immagini sfocate, perché a Eastwood interessa ben altro: seguire i suoi personaggi in questa sfida profonda all'incredulità altrui, in cerca di una risposta o della dannazione perpetua all'infelicità. Il fascino del film sta nel dosaggio perfetto degli ingredienti, nella grande resa degli attori (Matt Damon, Cécile de France e il piccolo Frankie McLaren), nella messa in scena spoglia di ogni virtuosismo o patetismo, che mette i personaggi sempre al centro della scena, con le loro fragilità al cospetto di questo buco nero che è la morte.
Pazienza, poi, se il finale cerca un ideale punto d'incontro tra le tre storie che sa di consolazione: non è che una piccola luce accesa al termine di un film introspettivo e dolente, invaso dal buio di chi rimane e di chi non c'è più. Consigliatissimo.
·"Potiche - La bella statuina" di François Ozon (Francia, 2010)
Quando si dice un film inconfondibilmente francese: quest'ultima commedia firmata da Ozon reca davvero l'impronta del cinema transalpino, in ogni senso.
La storia è quella di Suzanne, benestante signora figlia d'industriali che dopo il matrimonio si è adagiata, con apparente soddisfazione, in una dimensione domestica di moglie e madre. Il marito Robert, che ha ereditato la fabbrica del suocero, la considera alla stregua di un grazioso soprammobile: ogni volta però che c'è un problema serio, naturalmente, l'opinione della consorte non vale niente. Per consolarsi lei scrive poesiole romantiche, fa lunghe passeggiate nei boschi e si occupa amorevolmente della casa: nelle prime sequenze lo fa con tale immedesimazione da risultare esilarante.
Ozon gioca volutamente con i toni frivoli di tanto cinema passato, ricreato anche nella scelta delle musiche e nei dialoghi tra i personaggi. La vicenda, ambientata nel 1977, risente anche dei problemi del periodo: così gli operai della fabbrica scendono in sciopero contro la direzione "padronale" del signor Pujol il quale, dopo una colluttazione e un breve sequestro da parte dei suoi dipendenti, è costretto a prendersi un periodo di riposo. Qualcuno deve sostituirlo e alla fine la scelta cade su Potiche: in fondo è una di famiglia, e per un periodo breve non potrà fare troppi danni, pensa il marito.
Invece a sorpresa, la bella statuina sfodera un pragmatismo vincente: accontenta le richieste più ragionevoli degli operai, ma nel contempo rilancia anche l'azienda con nuovi investimenti. Al ritorno, suo marito è costretto a prendere atto che la moglie ha fatto miracoli, e gode della simpatia generale, degli operai e dei due figli che lavorano con lei. Con un voltafaccia a sorpresa della figlia maggiore, però, Pujol riesce a tornare in sella e Potiche rientra nell'ombra. Fino a quando, poco dopo, non decide addirittura di scendere in politica.
Il film di Ozon somiglia a una sorta di favola: è vero che le tematiche non sono affatto banali, perché nella trama affiorano spunti variegati, dal femminismo allo scontro di classe, ma tutto è condito con uno spirito frizzante e dialoghi sorridenti, con gli attori che si divertono a calarsi spesso in quest'atmosfera quasi naif. E' il caso di Catherine Deneuve, brava e spiritosa nel dare corpo alla metamorfosi del suo personaggio, da casalinga in bigodini a manager, e dello stesso Gerard Depardieu nei panni del sindaco Babin, comunista tutto d'un pezzo che asseconda la protesta operaia, ma che in passato ha avuto una fugace avventura con la bella signora Pujol.
Insomma, tra nostalgie sentimentali, lotta di classe, paternità dubbie e spunti femministi, il film scorre piacevolmente dall'inizio alla fine, anche se non tutti forse apprezzeranno una tale contaminazione di toni e argomenti: dalle rivendicazioni operaie agli equivoci pruriginosi alla Feydau, per capirci, e non per caso il film è tratto da una pièce teatrale di Barillet e Grédy. Una bella insalata di audaci accostamenti, che forse solo lo stile brioso e spumeggiante così tipico della commedia francese poteva trasformare, al di là di altre considerazioni, in uno spettacolo indubbiamente divertente.
·"La Passione" di Carlo Mazzacurati (Italia, 2010)
I film di Carlo Mazzacurati tracciano come un diagramma di crescita sulla mappa del cinema italiano degli ultimi vent'anni. Tra punte di grande rilievo ("Un'altra vita" o "La giusta distanza") e qualche pagina interlocutoria, il regista padovano ha scandito col suo cinema l'ondivaga crescita di una generazione nuova, che ha saputo rinnovare formule narrative di solida tradizione, come la commedia italiana del periodo d'oro, sintonizzandosi con lodevole coerenza e partecipazione sulle frequenze disturbate, e disturbanti, dell'Italia odierna, soprattutto quella della provincia profonda.
Nello stesso solco di questa fedele ricognizione umana deve iscriversi anche "La Passione", che il regista ha portato all'ultimo Festival di Venezia. L'andamento della vicenda assume come già in passato toni quasi farseschi, per svelare un fondo agrodolce molto più corposo. Il cinquantenne regista Gianni Dubois è in pieno blocco creativo: non realizza un film da cinque anni, e il suo produttore lo incalza quotidianamente con la richiesta di un 'idea nuova da cucire addosso all'attrice del momento, star della fiction televisiva. Come non bastasse, il povero Dubois deve correre in Toscana dove lo avvertono che la sua casa sta andando in malora: una perdita d'acqua ha gravemente intaccato il pregiato affresco di una chiesetta sottostante. Messolo di fronte al grave danno arrecato, il sindaco e l'assessore del piccolo comune, scaltri come il gatto e la volpe, gli offrono una sola scappatoia per evitare la denuncia alle Belle Arti: dirigere la rappresentazione della Sacra Passione che, dopo anni di letargo, hanno deciso di rilanciare. Messo alle strette, il regista deve accettare.
Senza alcun entusiasmo, e cercando di tenere in piedi anche a distanza il legame col suo produttore inviperito, Dubois si mette all'opera. Seguono imprevisti e situazioni d'ogni tipo, come da copione: tra ex galeotti volenterosi ma pasticcioni e attori da operetta che si credono stelle di prima grandezza, le avversità non mancano di certo. Ma mentre il rapporto col cinema romano va a rotoli, specie dopo l'incontro disastroso con l'attrice rampante (una Cristiana Capotondi molto in parte), proprio il rapporto diretto instaurato con la gente del borgo durante l'allestimento della Passione, mostra al regista disilluso un'occasione diversa, insperata, di ritrovare il senso profondo e più vero del proprio lavoro.
Forse "La Passione" non rimarrà il film più riuscito di Mazzacurati, ma si ride molto, grazie soprattutto all'esilarante Corrado Guzzanti (l'attore cane) e al generoso Giuseppe Battiston (l'ex galeotto), che con Stefania Sandrelli e Marco Messeri (sindaco e assessore del borgo) oltre a Kasia Smutniak, fanno da sapido contraltare alla bella prova di Silvio Orlando, sempre più a suo agio nei panni dell'intellettuale in credito con la sorte.
E' anche vero che l'idea di partenza, con il blocco creativo del protagonista, non è nuovissima, e che qualche spunto resta solo accennato: siccome al cinema, però, quello che conta è "come" far risuonare certe corde, quali che siano, bisogna dare atto a Mazzacurati di aver messo in piedi, sulla base di un'esperienza reale, una storia che non solo diverte, ma racconta a suo modo anche l'Italia di oggi. La stanchezza creativa e la tendenza al compromesso, la furbizia e la mediocrità spalmati lungo tutto il film, dipingono un'istantanea piuttosto mordace, dietro le cadenze comiche, del tempo in atto: un quadro molto grigio, dove solo la catastrofe imminente sembra risvegliare in extremis energie sopite e la necessaria impennata d'orgoglio che porta al riscatto. Vecchia storia, forse, ma vera.
·"La nostra vita" di Daniele Luchetti (Italia, 2010)
E' passato molto tempo da film come "Il portaborse", nel quale Daniele Luchetti nei primi anni Novanta metteva in scena l'Italia del rampantismo socialista. Il regista di oggi, dopo escursioni nella commedia di costume ("La scuola", 1995) e incisivi ritratti degli anni Settanta ("Mio fratello è figlio unico", 2007), sembra aver raggiunto una nuova maturità, anche a livello espressivo.
"La nostra vita", che ha piacevolmente sorpreso la giuria di Cannes, guadagnando anche il premio di miglior attore a Elio Germano (ex aequo con Bardem), mostra un salto in avanti proprio sul piano degli strumenti d'indagine: camera a spalla immersa nel cuore dell'azione, pedinamento degli attori, assoluto realismo di ambienti, situazioni e dialoghi, fanno del film di Luchetti un esempio abbastanza raro nel cinema italiano di oggi. Anche perché la scelta stilistica è perfettamente funzionale a una sceneggiatura che racconta dal di dentro un paese stanco e stressato, dominato da compromessi e storture ormai promosse a sistema, tra lavoro nero e cinico affarismo. Lo sperimenta in prima persona Claudio, un trentenne operaio edile dell'hinterland romano che al principio della storia sembra aver raggiunto un moderato equilibrio tra lavoro e affetti. A far saltare il quadro è la morte di sua moglie Elena, nel dare alla luce il terzo figlio.
A questo punto, dopo un breve sbandamento, Claudio reagisce a modo suo, buttandosi cioè a corpo morto nel lavoro. Ottiene in subappalto una palazzina da ultimare e consegnare entro termini improrogabili, e si dedica all'impresa quasi partendo da zero: quasi una sfida per riscattarsi dal dolore e dare ai suoi figli qualcosa di più. Nonostante l'entusiasmo e la voglia di fare, però, finisce presto sommerso dai debiti e solo l'aiuto della famiglia lo risolleva dai guai, riportandolo al punto di partenza, con tre figli da crescere senza illusioni.
Quello che colpisce del film è appunto l'occhio dinamico della cinepresa, che lavora a livello fisico dei personaggi, in una sorta di docu-fiction febbrile e naturalissima che impasta a dovere umori, incontri e parole: la classica regia (apparentemente) invisibile che abbiamo imparato a conoscere nei cineasti più coraggiosi degli ultimi anni. Luchetti fa propria questa lezione senza peraltro aver l'aria di fare una furbata, perché si è completamente risucchiati dal ritmo di una storia che a tratti prende alla gola, e dal magnifico gioco degli attori. A parte un Germano protagonista di ammirevole verità nel suo vitalismo disperato e cieco, vanno ricordati anche un Raul Bova di sobria efficacia, e poi Giorgio Colangeli, Stefania Montorsi, Isabella Ragonese, fino al giovane Marius Ignat: un cast che sa aderire allo spirito del plot senza sbavature.
"La nostra vita" è un esempio di cinema italiano che sa guardare senza paraocchi consolatori il paese profondo, e nella sua amarezza di fondo illustra più di tante analisi sociologiche lo stato vero delle cose: precarietà diffusa, valori equivoci, familismo amorale e totale sfiducia verso lo stato e i suoi interpreti. Che poi certa classe dirigente se la prenda con i nostri cineasti perchè, semplicemente, sanno farci vedere tutto questo, suona a questo punto talmente risibile da evocare quel famoso aforisma: quando il dito indica la luna l’imbecille guarda il dito.
·"Agora" di Alejandro Amenábar (Spagna, 2010)
Alejandro Amenábar non ha certo paura delle sfide: questo regista cileno di nascita ma cresciuto in Spagna, ha sempre scelto soggetti problematici per dare corpo alle sue visioni. E' anche il caso di questo film, che ha suscitato polemiche e valutazioni contrastanti.
Nel quarto secolo dopo Cristo, Alessandria d'Egitto, ricostruita mirabilmente dal regista, è una città crogiuolo di fedi diverse: ebrei e pagani vedono diffondersi in fretta il cristianesimo dei "parabalani" (non "parabolani" come nel doppiaggio), monaci e infermieri che poco a poco hanno fatto presa tra la gente con un proselitismo colorito e molto aggressivo. Negli ambienti colti domina invece la singolare figura di Ipazia (interpretata dalla brava Rachel Weisz), unica donna capace di creare una scuola filosofica di grande rilievo, assorbita in particolare dagli studi astronomici. Tra i suoi allievi c'è chi è innamorato di lei (Oreste) e chi invece porta avanti le sue istanze religiose (Sinesio), mentre lo schiavo di casa, Davo, pur invaghito della "signora" mostra un'intelligenza più ricettiva di tanti studenti, ma viene presto sviato dal proselitismo cristiano. Intanto però le dispute religiose arrivano al culmine quando i cristiani, dopo una provocazione delle autorità pagane, si sollevano e distruggono la storica biblioteca della città, costringendo alla fuga anche Ipazia.
Quando poi il cristianesimo diventa dominante, mettendo ebrei e pagani in minoranza, lo stesso potere romano è costretto ad allinearsi per ragioni di opportunità: Oreste, divenuto governatore imperiale della città, lo fa a denti stretti, e chiede a Ipazia di fare lo stesso, ma la studiosa neo-platonica è più che mai intenta a far quadrare le diverse teorie astronomiche in un solo sistema, e rimane impermeabile a certe logiche. Nonostante le insistenze del governatore e dello stesso Sinesio, a sua volta divenuto vescovo, rifiuta di convertirsi e nel clima di terrore creato dal patriarca Cirillo, la violenza fanatica dei cristiani si appunta proprio su di lei, colpevole anche di essere troppo vicina al governatore. Questo decreta la sua fine violenta per mano dei parabalani.
Crocevia di tanti film possibili, dal classico "peplum" al film biografico, "Agora" tradisce fin dal titolo la sua vera vocazione: Amenábar non ricostruisce tanto la vita della studiosa alessandrina (sulla quale peraltro abbiamo scarse notizie) quanto l'impossibile incontro tra scienza e fede, tra libero pensiero e giochi di potere. Nel luogo simbolo della vita sociale nella Grecia classica, il regista vede Ipazia come la vittima designata di un mondo dominato dall'ambizione personale e dal dogma, a cui la severa studiosa che ama la libertà e la verità non può allinearsi, per istinto e per convinzione.
Il film riesce nell'impresa di tenere i piani distinti eppure legati tra loro con un meritorio lavoro di sceneggiatura che mescola il crudo realismo della cronaca (gli scontri violenti tra le fazioni e l'assalto alla biblioteca) alla differenza "colpevole" della studiosa che vive soltanto per capire il moto della terra e degli astri: Ipazia è infatti colpevole per i fanatici sia in quanto donna indipendente, sia in quanto palesemente disprezza i bassi intrighi in atto. Vittima designata, appunto, perché anche gli allievi e sodali di un tempo (Oreste e Sinesio) obbediscono ormai a una diversa logica, che non tiene conto del singolo e della sua libertà, lasciandola inerme di fronte ai carnefici armati da Cirillo. Che la Chiesa abbia storto la bocca di fronte a questo film, si può capire: è davvero raro vedere sullo schermo i cristiani come dei "talebani" senza scrupoli, mordaci e crudeli come li mostra Amenábar, ma anche questa è storia.
Le critiche si sono appuntate sull'ardita sintesi e su qualche disinvoltura storica che non manca, senza cogliere il coraggio del disegno e la nobiltà implicita del messaggio: il fascino superiore di una mente libera e disinteressata che trascende ogni cupidigia di potere, qualunque colore abbia. Amenábar riesce a farcelo sentire senza retorica, senza paura di uscire dal coro, con la sobria bellezza della sua regia: ad esempio quando la camera stacca a sorpresa per mostrarci, in lente zoomate all'indietro, quell'agitarsi convulso ridotto a un formicaio impazzito, e la terra sempre più piccola sospesa tra le stelle. Un'armonia cosmica che contrasta con tanto cieco furore, e aspetta solo una mente libera che la percepisca nella sua bellezza. Un film inconsueto, da non perdere, il cui nucleo profondo sta tutto nella frase rivolta da Ipazia a chi le chiede conto della sua "diversità":"Voi non potete mettere in discussione quello in cui credete, io devo."
·"Basilicata Coast to Coast" di Rocco Papaleo (Italia, 2010)
Esordisce dietro la macchina da presa anche Rocco Papaleo, attore lucano che proprio alla sua terra, decisamente negletta dal cinema italiano, ha scelto di dedicare il suo primo atto registico.
La trama del film, in effetti, sembra soprattutto un pretesto per lasciar parlare le immagini e instaurare una complicità sottile con il pubblico. Quattro musicisti per hobby, dunque appassionati come solo i dilettanti sanno essere, vengono accettati contro ogni previsione al festival musicale di Scanzano Jonico, e hanno l'idea di arrivarci a piedi in un viaggio, appunto, dalla costa tirrenica a quella jonica della loro regione. Un azzardo logistico che rappresenta poi il fulcro del film.
A riprendere il viaggio-evento è una tivù locale della parrocchia, tramite una giornalista piuttosto svogliata e un operatore che a un certo punto si defila per altri impegni. Da questa serie di circostanze, buffe e imprevedibili, si dipana il pellegrinaggio del gruppo musicale meno affidabile che possiate immaginare, provvisorio fin dal nome (Le Pale Eoliche), per quanto animato da genuina buona volontà. Tra una sosta e l'altra, in località bellissime e selvagge, citazioni e malinconie, nascono incontri di vario tipo, amori e amicizie, ed è proprio in questo intreccio casuale che i singoli personaggi vengono messi a fuoco dall'occhio ironico e attento di Papaleo.
C'è ad esempio lo studente di medicina dirottato da un amore infelice (Paolo Briguglia), il professore sposato ma insofferente (lo stesso Papaleo), il cugino romano a caccia di una fama qualsiasi (Alessandro Gassman) e infine il contrabbassista che dopo un tragica perdita ha deciso di chiudersi nel silenzio (il vero musicista Max Gazzè). Tra loro la giornalista (Giovanna Mezzogiorno) che a un passo dalla fama su scala nazionale si è dovuta ricalare nella provincia che odia, ma che dopo un pessimo inizio verrà risucchiata come gli altri nell'avventura e nei sentimenti che aveva dimenticato.
Alla fine qualcosa va storto, è vero, ma forse la vera meta, scoprono i nostri eroi, era proprio nel viaggio che hanno intrapreso con coraggio, per aprirsi all'ignoto e uscire dalla routine di sempre. Una morale da condividere con Papaleo e la sua banda. Il film fa simpatia, irretisce nella sua dimensione picaresca ricca di imprevisti e piccole verità umane, e alla fine conquista per la bellezza dei paesaggi, fotografati al meglio da Fabio Olmi, il respiro di libertà che inspira e anche per le belle musiche di Rita Marcotulli che segnano il viaggio.
Insomma, "Basilicata Coast to Coast" è una commedia italiana recitata e scritta come si deve, intelligente e mai volgare: al giorno d'oggi è davvero merce rara.
·"Il concerto" di Radu Mihaileanu (Francia/Romania/Belgio/Italia, 2010)
Può un film viziato da almeno un paio di piccoli-grandi difetti riuscire comunque a soddisfare, se non a commuovere addirittura? L'ultimo film del regista romeno risponde di sì, ed è giusto prenderne atto.
Come nel suo titolo più noto, "Train de vie", Mihaileanu immagina una storia che sa di burla, riuscendo nell'impresa di renderla credibile in virtù di interpreti eccellenti e di alcune trovate registiche indubbiamente geniali. In sintesi, Andreï Filipov (Alexeï Guskov) è un ex direttore d'orchestra russo che all'apogeo della sua fama è condannato all'inattività per aver favorito alcuni musicisti ebrei: da venticinque anni vive facendo le pulizie nello stesso teatro del Bolshoi che vide i suoi trionfi. Come lui, si arrangiano i suoi ex sodali, costretti a reinventarsi un'esistenza assai grigia in una Russia spietata, tra le volgarità dei nuovi arricchiti e la miseria dei più.
L'occasione per il riscatto è un fax che Andreï intercetta per caso, durante le sue umili mansioni: l'invito all'orchestra del Bolshoi di tenere un concerto a Parigi. L'idea di riunire i vecchi orchestrali per una rentrée clamorosa, e truffaldina, è troppo bella per lasciarsela scappare, e così si mette in moto la macchina di questa folle avventura. Organizzata la beffa, con l'aiuto insperato dello stesso comunista zelante che provocò lo scandalo e il licenziamento di Andreï, l'orchestra che fu, più qualche new entry, parte per Parigi dove si compirà la rivincita, ovviamente con parecchie traversie di mezzo.
Su questa vicenda, che ha i tratti della farsa più esilarante, il regista sa però innestare una seconda storia più accorata e dolente, che unisce al passato più tragico la giovane violinista francese, del tutto ignara, che suonerà Ciajkovskij con l'orchestra russa. E' proprio questa componente dolorosa che fa salire la tensione, e tutto il film, fino alla sublimazione nella sera dello spettacolo: quando, non si sa come, senza prove e nella più totale improvvisazione, la rinata orchestra e la virtuosa Anne-Marie Jacquet (la brava Mélanie Laurent), trionferanno in un'esecuzione che dissolve nell'armonia della musica i misteri del passato e i dolori del presente.
La seconda parte del film è un crescendo organizzato con rara perizia: la lunga sequenza del concerto, in particolare, trascina nel suo vortice con una serie di effetti strepitosi, a cominciare da un montaggio davvero virtuoso congegnato ad arte dal regista. La tensione evapora sulle note superbe di Ciajkovskij e si dimenticano d'incanto anche quei difetti di cui parlavo in apertura. Ad esempio:perchè far parlare i russi con quella cadenza che sa tanto di barzelletta dall'inizio alla fine? Che sia una trovata del doppiaggio italiano, o dell'edizione originale, è un effetto onestamente inspiegabile, e inutile, come qualche stereotipo fin troppo insistito sulle differenze tra popoli (i russi chiassosi e inaffidabili, i francesi perbenino ma un po' grigi) che rischia nella prima parte di rovinare la resa del film. Che poi trova il modo di sollevarsi da solo, per fortuna, in un finale davvero travolgente, e allora va bene anche così. Si ride, si riflette, e da ultimo ci si commuove: uno spettacolo vero, insomma, da non perdere.
·"Gli abbracci spezzati" di Pedro Almodovar (Spagna, 2009)
Il cinema di Pedro Almodovar è cresciuto e si è modificato molto nel corso del tempo, soprattutto alla fine degli anni Novanta, quando uscì il celebrato "Tutto su mia madre".
Oggi il suo stile si è come prosciugato, eliminando quell'eccesso di grottesco che prevaleva all'inizio, in favore di uno sguardo più ponderato, a volte dolente, nel quale seguitano però a brillare lampi d'ironia luciferina e un'intelligenza superiore.Lo conferma quest'ultimo progetto del regista manchego, dove mette in scena la vita di alcuni personaggi tenuti insieme da un destino beffardo.
Il regista Mateo Blanco, dopo aver perso la vista, scrive soggetti e sceneggiature sotto pseudonimo con il giovane Diego, figlio di Judith, una donna che da anni gli è vicina e collabora con lui. Un giorno un uomo viene a chiedergli di girare un film sulla vita del padre, ma lui rifiuta. In realtà lo ha riconosciuto, e la sua memoria si rimette in moto: veniamo così a scoprire la storia di un amore contrastato del regista con Lena, la bella moglie di un ricco imprenditore (e padre del misterioso visitatore) che per accontentarla decide di produrre un film di Blanco dove lei è la protagonista. Tra i due si accende subito la passione, che però, una volta svelata, sarà gravida di conseguenze per entrambi.
Raccontato così, "Gli abbracci spezzati" non sembra quel che realmente è: un compiuto manifesto del nuovo cinema almodovariano, impeccabile nella scrittura quanto ingegnoso nei suoi percorsi sviluppati su piani diversi, che prima spiazzano e poi conquistano. Un film girato e recitato con indubbia maestria, ma raffreddando ad arte i momenti topici in una narrazione che a volte sfiora, consapevolmente, l'inverosimiglianza, prima di sorprendere per la lucidissima costruzione a mosaico dove alla fine tutto torna e niente appare gratuito.
Come sempre, il regista spagnolo attinge a diversi registri (melodramma, noir, comico) con la padronanza stilistica di un vero maestro, che semina i suoi pensieri più profondi tra le pieghe di uno spartito ricco di flash-back e citazioni (l'omaggio a Rossellini) che sembra continuamente spostare il tiro prima di arrivare infallibilmente a bersaglio. Qui, in fondo, l'amore che trionfa, a dispetto del triste destino degli amanti, è proprio quello per il cinema, formidabile veicolo di storie e sentimenti: unico luogo, purtroppo e per fortuna, dove anche il dolore trova una sua credibile collocazione e almeno in parte riscatta, sublimandola nel racconto, l'amarezza del ricordo.
Eccellenti e funzionali al progetto tutti gli attori, da Penelope Cruz (Lena) a Lluís Homar (Blanco), registra di teatro che Almodovar aveva già voluto in "La mala educacion". Un film raccomandato.
·"Segreti di famiglia" di Francis Ford Coppola (USA-Argentina-Spagna-Italia, 2009)
Nella sua nuova vita di regista che si esprime nella più totale libertà, lontano dalle logiche delle majors, Coppola firma un film ambiguo, dove pure sembrano ritornare i temi forti del suo cinema.
Il giovane Benjamin, non ancora diciottenne cameriere a bordo di una nave, decide di approfittare di una sosta forzata per rivedere il fratello maggiore che vive a Buenos Aires, e che da tempo ha voluto rompere i ponti con la sua famiglia. Vive con la bella Miranda, e si fa chiamare Tetro.
Benjamin vorrebbe sapere da lui tante cose: perché è sparito, perché non è più tornato a prenderlo come aveva promesso, perché odia tanto suo padre. In realtà suo fratello non vuole neppure ricordare, e così, per farsi un'idea, Benjamin comincia a frugare di nascosto tra le carte di Tetro, che aveva iniziato un romanzo poi abbandonato. Lo trova, ma quando il fratello se ne accorge la tensione sale e i due si separano. Finisce che Benjamin rimette insieme i pezzi del romanzo, lo finisce e ne ricava un dramma teatrale che finisce candidato a un importante premio letterario argentino. Tetro lo scopre a cose fatte, e si lascia convincere a seguire il fratello e la compagnia teatrale che lo ha messo in scena fino alla località dove avverrà la proclamazione del testo vincitore. Qui però, verranno fuori insospettabili verità famigliari che lasciano il segno.
Girato in un rigoroso bianco e nero, che cede il passo al colore solo nei frammenti del passato, il film di Coppola parte quasi su toni minimalisti. Intrigante l'ambientazione nel quartiere storico della Boca, dove i due fratelli riprendono i contatti: c'è un'atmosfera che sembra riavvicinarli, fatta di personaggi e sapori piuttosto positivi. Poi, quando emergono i veri nodi da sciogliere, il film slitta verso una sorta di melodramma a tinte forti, e soprattutto la seconda parte eccede in effetti di scrittura e di regia fin troppo ridondanti.
Si ha l'impressione che Coppola abbia voluto inserire troppa carne al fuoco, quasi forzando le tematiche predilette dentro una ricetta già abbastanza forte, e questo rischia di appesantire un film che pure ha i suoi meriti. La struttura è ingegnosa come la regia elegante, le citazioni abbondano e gli attori sono bravi, ma il dosaggio non appare sempre quello giusto, con un finale da squassante resa dei conti che lascia un po' perplessi.
L'ultima notazione riguarda la chiusura del film: dopo averne viste di tutti i colori (sopraffazioni, menzogne e violenze) suona alquanto curioso rimarcare che, dopotutto, la famiglia è la famiglia...Anche no, viene da dire, o meglio: dipende.
·"Alza la testa" di Alessandro Angelini (Italia, 2009)
Questa seconda prova di Angelini, dopo il promettente esordio di "L'aria salata", ci consegna un autore ormai maturo su cui puntare, con una sua poetica ben definita.
Anche qui c'è un padre difficile, però stavolta perfino troppo presente: operaio in un cantiere navale a Fiucimicino, Antonio Mero tiene suo figlio sotto ferreo controllo per farne un pugile professionista. Poiché la madre albanese si è separata dal padre, il giovane Gabriele si affida tutto all'ambizioso genitore, finché non entra in scena una giovane romena: in seguito a una discussione accesa col padre, che vorrebbe impedirgli di frequentarla, il ragazzo muore in un incidente. Dopo aver autorizzato l'espianto d'organi, Antonio riesce a sapere a chi è stato trapiantato il cuore del figlio, e per lui è un secondo shock...
Angelini prosegue dunque il suo percorso all'insegna del difficile rapporto tra le generazioni, guardando in faccia la realtà delle cose. Lo fa con una regia duttile, asciutta e nervosa, specie nella prima parte, che fotografa con bella fedeltà la vivace provincia del litorale romano. In questo quadro mosso e frastagliato, la dialettica padre-figlio esplode come da copione quando il giovane cerca di ritagliarsi una sua indipendenza affettiva.
Lo scontro lascia il segno, ed è a questo punto che il film viene preso per mano da Sergio Castellitto: nei panni di Antonio, l'attore fornisce l'ennesima dimostrazione d'un talento sempre più versatile, che sa sfruttare sempre nuove sfide attoriali anziché riposare sulla rendita acquisita di una carriera già esemplare. Grazie anche a lui, il film si mantiene vivo e imprevedibile fino in fondo, lasciando il senso di una bella scommessa vinta: quando tutto sembra travolto dal dolore, la vita può ancora dimostrarsi imprevedibile.
Colpisce soprattutto la struttura rigorosa eppure aperta del progetto, i caratteri umani incisi con bella naturalezza, senza eccessivi psicologismi, e con un occhio penetrante rivolto al contesto sociale. Un film realistico, che getta una luce originale sull'Italia profonda, lontana dai riflettori, e sulla complessa dinamica degli affetti in una realtà che ridisegna in fretta la sua geografia di valori e sentimenti.
·"Il nastro bianco" di Michael Haneke (Austria-Francia-Germania, 2009)
Chi va a vedere un film di Haneke sa già cosa aspettarsi: il regista tedesco appartiene a quella schiera d'autori che riescono sempre a soprendere, ma soprattutto restano ancorati a una loro cifra stilistica che si lega a soggetti ostici e provocatori.
Qui addirittura, Haneke sceglie il bianco e nero per catturare al meglio l'atmosfera rigida e remota del film. Siamo in un piccolo villaggio della Germania protestante, negli anni che precedono la prima guerra mondiale, dove a turbare la quiete sonnolenta degli abitanti è una serie di strani incidenti. Dapprima è colpito il medico del villaggio, che cade da cavallo inciampando in una corda che qualcuno ha teso davanti casa sua. Nessuno sa spiegarsi chi possa averlo fatto.
Mentre conosciamo le figure del borgo, a cominciare dal severo pastore che dispensa i suoi valori religiosi ogni domenica, e punisce con rigida fermezza i suoi stessi figli appuntando loro il nastro bianco del titolo (la purezza che secondo lui hanno tradito), gli episodi si susseguono portando un clima di sospetto nella comunità.
Non tutti, intanto, sono d'accordo sui metodi del barone, ricco proprietario che dà lavoro ai contadini, e questo spiegherebbe forse anche l'incendio notturno nella tenuta. Le famiglie stesse sono attraversate da tensioni, riemergono vecchie ruggini, mentre qualcuno brutalizza il più piccolo dei figli del barone e quindi anche il bambino ritardato della levatrice: una violenza sotterranea sembra liberarsi nel villaggio, quasi a fare da contraltare al rigido sistema educativo che regola la vita dei suoi abitanti, tutti schiacciati in qualche modo da un rispetto opprimente per le differenze sociali e da un astratto senso della disciplina. E' appunto su questo fanatismo morale che Haneke pone l'accento, quasi volesse rintracciarvi il seme malato che porterà la società tedesca alle tragedie future, culminate nel nazismo.
Immaginato come il racconto in flash-back del maestro del villaggio, la cui delicata storia d'amore con una servetta arrivata da fuori come lui sembra l'unica nota pulita in un contesto così torbido, "Il nastro bianco" è un film di straordinario rigore. Facendo perfino a meno della musica, Haneke dipinge una comunità immobile e chiusa che preferisce nascondere i problemi sotto un tappeto di logore convenzioni e di una facciata irreprensibile, senza voler guardare in faccia la verità. Per questo, forse, il film si chiude s'una nota di consapevole ambiguità circa i colpevoli delle violenze.
Un calibrato gioco di attori e la consueta sobrietà dello stile registico, ben intonato al senso del racconto, compongono uno dei più lucidi e impietosi ritratti del male che alligna proprio dove il culto della forma esteriore e delle gerarchie finisce per imprigionare la stessa libertà degli individui. Un film a suo modo esemplare.
·"Lo spazio bianco" di Francesca Comencini (Italia, 2009)
Le buone notizie del cinema italiano, anche quando non incassa cifre da record o non vince l'Oscar, sono proprio film come questo. Il resto sono chiacchiere.
Maria è una donna ormai di mezza età, che vive da sola a Napoli e poco a poco si è conquistata i suoi spazi, anche se tra lei e la gente c'è come un vetro sottile ma resistente. Insegna in una scuola serale, ha pochi amici fidati, frequenta i cinema e si concede ogni tanto fugaci rapporti amorosi, senza volersi impegnare più di tanto. Un giorno però rimane incinta di un uomo incontrato proprio in un cinema, che poi si defila lasciandola sola.
Quasi d'istinto, più per le circostanze che per convinzione, Maria partorisce una bimba nata prematura di sei mesi, che chiama Irene. Proprio lei che ormai si è abituata a non dipendere da nessuno, si ritrova improvvisamente aggrappata all'incubatrice della sua bambina: nell'attesa snervante lascia la scuola, mentre si fa mille domande che la consumano. Sarà capace di essere una buona madre o ha fatto la scelta sbagliata? Intorno una città come sempre scoperta e contraddittoria, che sembra spingerla verso la decisione più naturale con totale disincanto.
Margherita Buy, nei panni di Maria, sembra nata per questo personaggio, cui dona la sua maturità di donna e di attrice: la riuscita del film deve moltissimo alla sua intensità. Dal canto suo, la sapiente regia della Comencini ha l'intelligenza e l'umiltà di starle sempre addosso, costruendo per il resto un film di contrasti, nervoso e mai scontato, che tiene lo spettatore incollato alle domande stesse della protagonista.
Davvero un bell'esempio di cinema italiano di oggi, nato in simbiosi col romanzo omonimo di Valeria Parrella: un progetto tutto al femminile ma senza proclami femministi, va detto, asciutto e realista quanto basta per colpire al cuore senza nessuna retorica. Consigliato.
·"Lebanon" di Samuel Maoz (Israele-Germania-Francia, 2009)
Il film ha trionfato all'ultimo Festival di Venezia, e vedendolo si capisce perché. Quando si dice "un pugno nello stomaco", per capirci.
La guerra del Libano (1982) vista dall'interno di un carro armato israeliano non è la guerra che il cinema spesso propone: non è insomma uno sguardo esterno alla guerra, ma "interno" alla guerra stessa, e questo fa la differenza nel film di Maoz. Il regista è un esordiente ormai maturo, che ha scelto per la sua opera prima di portare sullo schermo la sua esperienza biografica di soldato israeliano spedito al fronte nella più totale impreparazione emotiva.
Shmuel, l'artigliere ultimo arrivato nel carro, dichiara subito il suo disorientamento di fronte alla realtà bellica, che non è mai come appare da fuori. Nel suo mirino passa molto più che semplici obiettivi nemici: animali sventrati, donne in lacrime, bambini in fuga, macerie e dolore, inquadrate con chirurgica esattezza un attimo prima che arrivi l'ordine di sparare.
Subito l'atmosfera claustrofobica che i soldati respirano nel carro si comunica allo spettatore, e il coinvolgimento è totale. L'ansia e la paura di un nemico invisibile rendono ogni momento del film un'esperienza di rara intensità, che fa riflettere e mette in moto un inevitabile atto d'accusa contro ogni conflitto, ben al di là, per una volta, delle ragioni e dei torti.
Teso e scandito da piccole crisi dei carristi, travolti dall'orrore e dal dubbio, il film trova i suoi rari momenti di sollievo proprio nel gesto più inopinato e prosaico: quando Shmuel, esattamente all'acme della tensione, si china sul prigioniero siriano e lo aiuta a orinare, si ha l'impressione, paradossale, che non tutto sia perduto. Nonostante l'orrore e il sangue, la pietà non è morta.
"Lebanon" si guarda dal principio alla fine senza un attimo di noia: bravi gli attori, compatta e priva di sbavature la sceneggiatura. Insomma, nel ferreo rispetto dell'unità spaziale del dramma, e con ammirevole economia di mezzi, Maoz ha saputo fornire un altro contributo, lucidissimo, alla causa pacifista. Il suo è un film prezioso, tutto da vedere: per sentire, capire e riflettere.
·"Bastardi senza gloria" di Quentin Tarantino (USA, 2009)
Personalmente sono tutt'altro che un devoto ammiratore di Tarantino: certi suoi film, anzi, come la prima parte di "Kill Bill", mi hanno lasciato interdetto. Qui però, devo ammettere che c'è spettacolo vero e un film di tutto rispetto.
In piena seconda guerra mondiale, il regista immagina che un manipolo di soldati statunitensi d'origine ebraica venga spedito nella Francia in mano ai nazisti per ucciderne quanti più è possibile: una missione di disarmante semplicità e crudezza, e non particolarmente verosimile, ma in una chiave perfettamente tarantiniana.
Contemporaneamente, la premiere cinematografica organizzata in un teatro parigino offre all'ebrea Shosanna, proprietaria del locale e a suo tempo scampata all'eccidio della sua famiglia, l'occasione insperata di vendicarsi sui nazisti. Mentre anche gli inglesi muovono in segreto le loro pedine. Insomma, il film è in pratica la lunga preparazione di una vendetta incrociata che la storia reale non ha mai davvero celebrato sui fanatici del Terzo Reich di Adolf Hitler: e che avrà luogo, tramite un incendio devastante, proprio in una sala cinematografica. Dove non solo il Fuhrer, ma l'intero stato maggiore tedesco, da Joseph Goebbels in giù, troverà la fine.
Con un plot del genere, ci si potrebbe immaginare una grandinata di brutalità ed effettacci, ma è appunto qui che il regista americano dimostra la sua qualità più vera: una formidabile capacità di creare suspense, rallentando ad arte i dialoghi e le scene interlocutorie fino all'esplosione finale della violenza. Valga per tutte la magnifica sequenza iniziale, cioè la strage degli ebrei francesi nascosti in una casa colonica: cinema di classe purissima, come del resto la scena della taverna tra finti e veri nazisti.
Sono questi i vertici di un film a suo modo sorprendente, nel quale si segnala anche un cast ben assortito: più che Brad Pitt, però, a rubare la scena è lo straordinario Christoph Waltz, l'attore austriaco nei panni del subdolo ufficiale cacciatore di ebrei.
Insomma: se accettate l'idea che la storia possa trasformarsi in uno spartito tutto da riscrivere per gioco, e non vi offende troppo la libertà espressiva di un iconoclasta come Tarantino, "Bastardi senza gloria" è senz'altro un film da vedere. Perché intrattiene e diverte, fitto com'è di citazioni cinefile, da Sergio Leone a tutto il nostro cinema di genere, e oltre, intessuto di belle invenzioni visive e ingegnose trovate narrative. Consigliato.
·"Motel Woodstock" di Ang Lee (USA, 2009)
Il nome di Woodstock evoca un'epoca per molti struggente: la celebre tre giorni di amore, pace e musica, che ha immortalato un'intera generazione proprio allo scadere degli anni Sessanta. Che a dirigere un film su quell'evento storico sia un regista come Ang Lee, autore di un cinema raffinato e spesso molto classico, provocava una certa curiosità.
L'angolazione scelta dal regista, che si appoggia al libro "Taking Woodstock-A True Story of a Riot, A Concert and a Life" scritto da Tom Monte ed Elliot Tiber, è quella più soggettiva e meno epica possibile, così da evitare la retorica celebrativa più scontata. La nostalgia, però, fa capolino spesso.
Per Elliot Theichberg (il bravo Demetri Martin), che da New York dove fa l'arredatore è tornato nel villaggio dove i suoi gestiscono uno sperduto motel per dar loro una mano, quello che sarà l'evento simbolo di un'epoca all'inizio è solo l'occasione di un business per risollevare la situazione finanziaria di famiglia. Saputo che il vicino villaggio ha rifiutato di ospitare un concerto rock, si fa avanti per offrire gli spazi del piccolo comune dove si occupa anche di organizzare spettacoli culturali.
Quando si sparge la voce che un esercito di capelloni, drogati e vagabondi sta per irrompere nella quiete del paesino, Elliot si vede ricoprire di insulti dai suoi concittadini, ma tira dritto, cercando di convincere i genitori, diffidenti ma attirati dagli introiti, a mettere a disposizione degli organizzatori il piccolo motel.
Michael Lang, generoso finanziatore dall'aria trasognata e quasi mistica, mette a tacere funzionari troppo zelanti e proprietari sospettosi, finché l'evento ha inizio tra problemi logistici d'ogni tipo e un generale scompiglio. Perché invece che poche migliaia di giovani nella piccola località comincia a riversarsi una moltitudine umana impressionante: hippies, alternativi, mistici visionari, predicatori e sognatori d'ogni tipo invadono i verdi campi del festival, mentre Elliot, tra problemi di gestione e incontri davvero "stupefacenti", riuscirà a vivere solo l'atmosfera magica dell'evento.
La scelta di Ang Lee di non far vedere neppure un attimo del concerto andato in scena a Woodstock alla fine si rivela felice: a trionfare nel film è così la cornice, cioè la varia umanità che a ben pensarci fu la vera protagonista, al di là degli artisti rock di prima grandezza che parteciparono.
Ben interpretato e diretto, il film sembra radunare gli umori più tipici di quel periodo con divertito didascalismo: le sbornie psichedeliche e il pacifismo, il femminismo e l'amore libero, i sogni e le speranze di un'epoca vengono riproposti con un sorriso, ma non senza un tocco di amarezza distillato qua e là. Ad esempio quando, a festival appena chiuso, Lang (Jonathan Groff) annuncia a Elliot con aria ispirata che sta già preparando un nuovo evento con gli Stones di Mick Jagger come protagonisti: l'allusione è al festival di Altamont, pochi mesi più tardi, dove durante il concerto un ragazzo nero fu picchiato a morte dai famigerati Hell's Angels, e si contarono altri tre morti. Come a dire che Woodstock è stato il culmine, ma anche l'ultimo atto, di un sogno generazionale targato "peace and love" ormai sul punto di perdere la sua innocenza.
·"The Informant!" di Steven Soderbergh (USA, 2009)
Soderbergh è uno dei grandi autori del cinema americano recente, e come molti della sua generazione (1963) si è cimentato in generi diversi, quasi sempre con una certa personalità. Ricordiamo titoli come "Erin Bronckovich", "Traffic" e anche "Ocean's Twelve" tra gli altri.
In questo caso sceglie una commedia piuttosto nera, tratto dall'omonimo libro di Kurt Eichenwald che riprende a sua volta una storia vera: quella di Mark Whitakre, un oscuro biochimico d'una multinazionale del settore agroalimentare, la ADM, che comunica all'FBI di avere le prove di un controllo illegale dei prezzi da parte dei suoi dirigenti.
L'FBI, dapprima titubante, finisce per dargli credito e in breve Mark viene fornito di microfoni e microcamere nascoste per registrare gli incontri ai vertici che provino relamente la frode. Effettivamente sembra tutto vero, e comincia a mettersi in moto la macchina giudiziaria. Finché, quando il marcio di un intero sistema è già emerso copioso, ci si accorge che qualcosa non torna: forse anche Whitakre ha fatto il furbo, seminando false prove per tenere in piedi il castello probatorio che lui stesso ha rivelato.
Il film si giova d'un Matt Damon piuttosto inedito nei panni del protagonista: panciuto e apparentemente candido, il suo personaggio, che alla fine resta intrappolato nel suo ruolo di informatore, è la carta migliore del progetto di Soderbergh. La fusione dei toni da commedia con quelli più neri del fatto di cronaca, con i suoi risvolti patologici, non sempre invece funziona a dovere. Quasi mancasse di vera partecipazione nella denuncia, la sceneggiatura si accontenta di esporre i fatti con un ingegnoso disincanto, venato di sfumature grottesche, che sconfina a tratti nella freddezza del teorema.
E' pericoloso entrare troppo nel ruolo di paladini della verità senza averne lo spessore, sembra dire "The Informant!" in buona sostanza: d'accordo, ma alla fine non ci si appassiona più di tanto.
·"Baarìa" di Giuseppe Tornatore (Italia, 2009)
Quando c'è di mezzo la sua Sicilia, il cinema di Tornatore acquista un'impronta epica e grandiosa che se da un lato fa la sua fortuna, gli procura anche molte critiche. Succederà, fatalmente, anche per "Baarìa".
Fin dalle prime sequenze, si ha subito l'impressione di un progetto accarezzato per anni, fortemente segnato dalla memoria e dall'esperienza biografica. Lo sguardo dei bambini, che apre e chiude il film, è forse la chiave migliore per entrare nell'universo espressivo del regista: la sua storia somiglia, o meglio, ha la forza dei sogni e uno spessore fantastico che illumina (altri diranno limita) l'essenza del racconto, rendendolo visionario e ineffabile anche quando si sofferma sulla realtà più cruda.
"Baarìa" (il nome fenicio di Bagheria) è la storia di una famiglia attraverso tre generazioni, dalla povertà più nera degli anni del fascismo, fino ai generosi fermenti del dopoguerra, con le sue lotte politiche nel segno del comunismo, e al disincanto degli anni più recenti, quando l'unico sogno dei più giovani è, ancora una volta, andarsene via per un futuro migliore. Pieno di volti, aneddoti sorridenti ma quasi sempre rivelatori d'un contesto umano e sociale, di speranze, amori e miserie trasfigurati dall'irrompere folgorante dell'elemento onirico e fantastico, il film avvince per la rara capacità di tenere insieme la storia minuta dei singoli con quella più grande, in una sorta di puzzle elegante e a suo modo molto classico.
Accanto all'impatto visivo, a tratti trascinante come le suggestive musiche di Ennio Morricone, rimane soprattutto l'idea che ognuno deve costruirsi il destino con le sue mani, senza rassegnarsi: ecco perchè il vecchio padre morente, sul letto di morte, ripeterà come un mantra che "la politica è bella." Un messaggio forte, questo, e per niente scontato.
Perfetti i due attori protagonisti, Francesco Scianna (Peppino) e Margareth Madè (Mannina), entrambi siciliani e relativamente sconosciuti al grande pubblico, che il regista ha saputo scegliere con un certo coraggio. Ma se c'è un film veramente corale è proprio questo: accanto a Lina Sastri, Nicole Grimaudo e Angela Molina, che hanno ruoli più corposi, sfilano così, in apparizioni brevi o anche brevissime ma sempre intonate all'insieme, moltissimi attori tra i quali vanno segnalati almeno Salvatore Ficarra, Enrico Lo Verso, Leo Gullotta e Nino Frassica.
·"Tris di donne & abiti nuziali" di Vincenzo Terracciano (Italia, 2009)
Questo film si può apprezzare per almeno due ragioni: anzitutto per la sfaccettata ambientazione napoletana, e poi, soprattutto, per ammirare Sergio Castellitto, un attore che ormai raramente delude.
In questo caso è Franco, un padre di famiglia andato precocemente in pensione che non ha mai saputo rinunciare al demone del gioco: sua figlia sta per sposarsi, ma lui continua a giocare a poker, ai cavalli, e così via. Ovviamente perde, s'indebita, non sa dove sbattere la testa.
L'escalation è dipinta con un sapore variegato: all'inizio le musiche ammiccanti di Piovani accompagnano il protagonista tra buffe peripezie per scansare creditori e la disperata ricerca di fondi per giocare e "rifarsi", con un gusto insistito per il tipico colore partenopeo.
Poi il film cresce d'intensità e vira al dramma: Martina Gedeck (già con Castellitto in "Ricette d'amore") è la moglie tedesca che sgobba e si fa in quattro per assicurare almeno un abito nuziale alla figlia Luisa (Raffaella Rea), la quale ama il genitore al di là dei suoi mille difetti, dedicandogli la celebre poesia di Camillo Sbarbaro ("Padre, se anche tu non fossi...") proprio mentre la situazione precipita. Questo intangibile rapporto padre-figlia, che sembra scivolare con superiore grazia sulle difficoltà economiche e il disastro imminente, è forse la cosa più commovente del film.
La Napoli scoppiettante della prima parte svela intanto un colore plumbeo e pensoso, e Franco, solo e rassegnato, trova l'unico riscatto nell'affrontare impavido il suo destino, come il viandante affacciato sull'abisso del celebre dipinto di David Friedrich, conosciuto proprio grazie a Luisa.
Allo stesso modo il terzo film di Terracciano, metà commedia e metà tragedia, riscatta qualche momento disuguale grazie all'intensa prova di un Castellitto in stato di grazia: non poteva esserci interprete migliore per un personaggio capace di restare coerente fino in fondo e non pentirsi mai, nonostante tutto, di aver preso la vita come una scommessa.
·"Il grande sogno" di Michele Placido (Italia, 2009)
Mica facile fare un altro film sul Sessantotto, dopo Bernardo Bertolucci e gli altri che ci hanno provato in tempi recenti. Michele Placido ci si è messo facendo valere la sua esperienza personale, e questa scelta condiziona il film nel bene e nel male.
Giovane pugliese che arriva a Roma col sogno di fare l'attore, Nicola (Riccardo Scamarcio) entra in polizia per mantenersi, e viene scelto come infiltrato nell'Università occupata. Qui conosce Laura (Jasmine Trinca), studentessa cattolica che aderisce alla protesta, e il giovane leader Libero (Luca Argentero), di cui la ragazza è innamorata. Il triangolo sentimentale e politico risente di tutte le tensioni e le emozioni del periodo, tra scontri di piazza e fratture nel privato delle famiglie, oltre che dell'ambigua condizione di Nicola, combattuto tra le sue diverse ambizioni e un ingrato doppio ruolo.
Proprio la storia del poliziotto meridionale che perviene lentamente a una sua coscienza politica, tra sentimenti contrastati e scoperte imprevedibili, si rivela comunque la parte più vitale e riuscita del progetto di Placido: il resto, con qualche rigidezza, cerca soprattutto di mostrare la spaccatura profonda che il movimento sessantottino provocò nelle famiglie italiane. In questo è particolarmente convincente la prova di Jasmine Trinca, lacerata tra affetti privati e un radicale bisogno di verità che la porta a varcare, con sofferenza, molti limiti che le sono imposti dalla sua educazione borghese.
Il film non resterà forse tra i migliori firmati da Placido, ma piace comunque per la vibrante messa in scena dei suoi personaggi e delle loro vicende, specialmente sul versante sentimentale.
·"Questione di cuore" di Francesca Archibugi (Italia, 2009)
Il cuore del titolo non è solo una metafora: entrambi ricoverati per disturbi cardiaci, Angelo e Alberto si conoscono proprio in ospedale.
Il primo è un carrozziere solidamente piazzato in un quartiere popolare di Roma, mentre il secondo uno sceneggiatore del nord, genialoide ma irrequieto, che da anni vive nella capitale per lavoro. All'apparenza i due non potrebbero essere più diversi, ma il comune problema fa scattare una misteriosa alchimia che diventa subito amicizia vera, senza secondi fini. Tanto che quando Alberto è mollato dalla compagna, Angelo non ci pensa due volte a offrigli di vivere in casa sua.
Con la sua stralunata sensibilità, Alberto riesce presto a farsi accettare dalla moglie e i due figli dell'amico, le cui condizioni di salute però non sono buone come ha detto a tutti...
Ha avuto davvero occhio Francesca Archibugi nel mettere insieme due attori così diversi: Antonio Albanese (Alberto) e Kim Rossi Stuart (Angelo) trovano una sintonia tanto originale quanto credibile, mescolando con naturalezza commedia e dramma, ben affiancati da una Micaela Ramazzotti sempre più brava.
In questa storia di un'amicizia virile, senza retorica ma nutrita di forti sentimenti, la regista sottolinea quanto sia forte il bisogno di solidarietà in una società spietata come quella di oggi, che molto chiede e niente regala.
Un film italiano bello e importante, che fa sorridere e sa commuovere.
·"State of play" di Kevin MacDonald (USA, 2009)
Scozzese con una formazione da documentarista, il quarantaduenne MacDonald firma una pellicola che suona come un omaggio al giornalismo d'inchiesta americano ritratto in tanti film, a cominciare dal celebre "Tutti gli uomini del presidente" (Alan Pakula, 1976).
Sarà per questo che il protagonista, Cal McCaffrey, è uno di quei cronisti che ancora usa penna e taccuino, e che scarpina parecchio per cercare fonti e notizie. Il tema della penna opposta al mondo virtuale è uno dei tormentoni più azzeccati del film.
Dietro alcune morti collegate tra loro il giornalista ricostruisce uno scandalo sessuale che nasce negli ambienti della politica, finché scopre che vi è coinvolto anche il vecchio amico Stephen Collins, a capo di un comitato di controllo sulle spese della Difesa.
Quando il deputato bussa alla sua porta e gli chiede consiglio su come muoversi, Cal non si tira indietro, anche perché la moglie dell'amico, Anne, è stata anche una sua vecchia fiamma. A questo punto, tra il suo giornale e la polizia nascono contrasti, perché gli uni sospettano degli altri, e Cal cerca soprattutto di tutelare l'amico, nonostante le pressioni della sua direttrice ansiosa di sparare subito in prima pagina le sue notizie.
Ovviamente, niente è come sembra, e il bravo giornalista, che rischia anche la pelle con la sua giovane aiutante, inesperta "blogger" alfiera del giornalismo telematico, dovrà rivedere molte delle sue convinzioni iniziali.
Solido e ben orchestrato, il film di MacDonald rinverdisce una tradizione un po' sbiadita del cinema statunitense, ma lo fa azzeccando quasi tutti gli ingredienti, abilmente mescolati tra loro: il culto dell'amicizia e della lealtà, il cinismo dei media e della politica, l'etica professionale e l'arte di sopravvivere. Gli ottimi interpreti, a cominciare da un Russel Crowe decisamente "vintage" (capelli lunghi e unti, look casual e qualche chilo di troppo), ma anche Ben Affleck nei panni del politico rampante e Robin Wright Penn (sua moglie), aggiungono sapore a un plot avvincente dall'inizio alla fine. Da vedere.
·"Two Lovers" di James Gray (USA, 2008)
Un attore come Joaquin Phoenix è merce rara: in film come questo la sua recitazione sofferta, tra disillusione e spaesamento, vale da sola il prezzo del biglietto.
La storia è quella di un uomo ormai adulto, Leonard, che dopo una tormentata storia d'amore che si è tradotta in un'ossessione suicida ancora latente, è tornato a vivere dai genitori lavorando nell'azienda di casa. Quando conosce Sandra, figlia di alcuni amici di famiglia, tutto sembra congiurare perchè riesca a ritrovare con lei la serenità perduta, ma nel frattempo nella sua vita entra anche Michelle: è la classica ragazza bella e dannata che presto lo sceglie come il confidente prediletto delle sue intricate vicende amorose.
Lacerato tra il conforto di una relazione tranquilla e un amore grande e maledetto sin dalle premesse, Leonard deve nuovamente fare i conti con gli scherzi del destino, ovviamente imprevedibile per definizione.
La regia del quarantenne James Gray, che sceneggia il film con Ric Menello, ha l'umiltà di assecondare il meraviglioso gioco incrociato dei suoi attori, seguendoli da vicino senza cercare virtuosismi. Oltre a Phoenix, di una bravura inquietante nei panni del protagonista (c'è da fare gli scongiuri perché rinunci all'idea di lasciare il cinema), sono davvero da manuale le interpretazioni di Gwyneth Paltrow (Michelle) e anche di Vinessa Shaw (Sandra), ma non va neppure dimenticata la presenza di Isabella Rossellini che regala al personaggio della madre uno sguardo toccante.
"Two Lovers" è un film da non farsi sfuggire, perché di questa finezza in giro se ne vedono pochi.
·"Gli amici del Bar Margherita" di Pupi Avati (Italia, 2009)
L'ennesimo appuntamento col cinema di Avati ne conferma la sottile maestria anedottica e psicologica, immersa come sempre nel territorio della sua memoria personale.
L'adolescente Taddeo (Pierpaolo Zizzi), che vive solo con la madre e il nonno, guarda con ammirazione e invidia i variopinti frequentatori del bar "Margherita", dove presto prova a infilarsi. Una sera riesce a rendersi utile al mitico Al (Diego Abatantuono) offrendogli un passaggio sull'auto presa a noleggio, e così può finalmente avvicinare i diversi personaggi che accendono la sua fantasia.
C'è di tutto: dal siciliano vagamente folle che non prende niente sul serio, all'antennista che sogna di cantare a Sanremo, passando per l'ingenuo Bep (Neri Marcorè) prima abbindolato e poi salvato da un matrimonio infelice, e tante facce che da sole raccontano storie di un'Italia colorata e ancora ingenua, che vive intorno al biliardo e comincia appena a intravedere i primi effetti del prossimo boom economico.
Tra scherzi crudeli e tenerezze disarmanti, Avati sa parlare di tutto con l'aria di chi sfoglia solo il suo diario: in realtà dietro il velo ingannevole della nostalgia si racconta soprattutto l'anima di una certa provincia che forse è scomparsa per sempre, e un'età della vita che può ancora permettersi di sognare.
Da antologia alcune sequenze, valorizzate da uno stuolo di attori in gran forma, spesso in ruoli decisamente spiazzanti: su tutti spiccano Luigi Lo Cascio, esilarante nei panni dell'erotomane Manuelo, ma anche Luisa Ranieri, disinvolta insegnante di pianoforte, fino a Fabio De Luigi, il povero cantante preso in giro, e Gianni Cavina che interpreta il nonno del giovane protagonista. C'è da divertirsi, insomma, con un pizzico di commozione qua e là che non guasta.
·"Gran Torino" di Clint Eastwood (USA, 2008)
Il vecchio eroe degli spaghetti-western firmati Sergio Leone, diventato a sua volta regista di prima grandezza, continua a non sbagliare un colpo: film o pistole, evidentemente, per lui pari sono.
Qui Eastwood si cuce addosso i panni di un americano solitario, burbero e scontroso, critico contro la contaminazione razziale e le mode imperanti che invadono il suo mondo. E' così fuori tempo che tiene in garage una vecchia auto "Gran Torino", costruita quando ancora lavorava in fabbrica.
Accanto a lui vive una delle tante famiglie asiatiche del quartiere e, dopo l'iniziale gelo, gli capita di ingraziarsi i vicini solo per aver messo in fuga dei teppisti dal giardino confinante.
Sommerso di regali e inviti conviviali, secondo la tipica riconoscenza orientale, si lascia alla fine conquistare dal più giovane della famiglia, un ragazzo imbranato e sensibile, al quale cerca di infondere fiducia e un minimo di valori basilari.
I teppisti però se la la sono legata al dito e si vendicano con la sorella del ragazzo, innescando in lui un gesto di inopinata grandezza, ma senza ritorno.
Lineare e quasi schematico nella sua ossatura, il film conferma il talento indiscutibile di Eastwood per un cinema solido e privo di svolazzi, che scolpisce attraverso i suoi protagonisti un'idea tutta americana di virtù profonde quanto invisibili, annidate soprattutto in coloro che hanno sbagliato e sofferto, quasi aspettando un'ultima occasione di riscatto.
Davvero esemplare la recitazione del regista e degli altri, fedeli a uno spartito asciutto quanto pregnante. Da non perdere.
·"Diverso da chi?" di Umberto Carteni (Italia, 2009)
Da qualche tempo escono commedie italiane come questa, dove si riesce a ridere con leggerezza, e senza vergognarsi, di argomenti una volta confinati al pecoreccio.
In una città del nord, che poi è Trieste, il partito di opposizione è a caccia di un candidato sindaco, dopo la morte improvvisa del predestinato: per rispettare, seppure a malincuore, l'esito delle primarie, i dirigenti si vedono obbligati a investire il secondo più votato, cioè Piero, giovane gay di bell'aspetto, del quale poco si fidano. Per sicurezza gli affiancano allora come vice la giovane ma più "moderata" Adele, una centrista di valori tradizionali perfino troppo ostentati.
Tra i due all'inizio volano scintille su qualunque cosa, soprattutto su diritti civili e questioni etiche, ma inaspettatamente una sera scocca un'attrazione sessuale fuori da ogni logica. Spaventati dalle conseguenze pubbliche e private (Piero convive da tempo con il gelosissimo Remo), cercano di salvare il salvabile, ma la campagna elettorale riflette la loro confusione. Finchè, dopo essersi promessi di non cadere più in tentazione, Adele scopre di essere incinta, e i nodi vengono al pettine.
Non tutto è perfetto nel film di Carteni, ma bisogna riconoscere all'esordiente regista, e allo sceneggiatore Fabio Bonifacci, di aver trovato il giusto dosaggio per raccontare una vicenda del genere senza cadute di gusto e con un ritmo brioso, specie nella prima parte, che diverte anche per le sapide allusioni alla politica italiana odierna.
Se Luca Argentero (Piero) se la cava pur senza eccellere, è invece da applausi Claudia Gerini (Adele), sempre più duttile e spiritosa, mentre fanno un figurone anche Antonio Catania (uno dei dirigenti) e Filippo Nigro (Remo). Insomma, una commedia italiana fresca, ben scritta e recitata a dovere: avercene!
·"L'onda" di Denis Gansel (Germania, 2008)
Questo film pare fatto apposta per accendere dibattiti a non finire sullo spinosissimo argomento che affronta. Vale a dire: dittature orribili come furono nazismo e fascismo nel Novecento possono ancora nascere nel mondo occidentale diversi decenni dopo?
Pur prendendo le mosse dal vero esperimento di Ron Jones in un college californiano (1967), la scommessa di Gansel non è da poco: perché ambientare il suo film nella Germania di oggi, tutt'ora sensibilissima a ogni rigurgito di un passato incancellabile, mostra indubbiamente un coraggio non comune. Come se la cava il giovane regista tedesco (classe 1973) alle prese con una materia così scottante? Bene, direi.
Un insegnante liceale, seccato perchè il preside gli sottrae all'ultimo momento un seminario sull'Anarchia, ha l'idea di convincere i suoi studenti, scettici e annoiati, che la dittatura può ancora ricrearsi. Inventa coi ragazzi un saluto, una divisa comune che stimola lo spirito di corpo, imponendo una disciplina impensabile fino a quel momento, dato che lui stesso è un tipo informale che ascolta rock e a cui tutti danno del "tu".
L'esperimento, a prima vista azzardato, riesce anche troppo bene, al punto da sfociare in tragedia, e il professore non potrà affatto godersi la riuscita, inquietante, del suo seminario.
Gansel sfiora qua e là un certo didascalismo, forse inevitabile in un film a tesi, ma sa pure mettere in scena una certa dialettica tra gli stessi studenti, mostrando come siano gli individui a fare la differenza in certe situazioni. Apprezzabile il cast, ma soprattutto la scelta di un soggetto che fa pensare e conferma i segnali di un forte risveglio del cinema tedesco dopo anni di letargo. Da vedere.
·"Giulia non esce la sera" di Giuseppe Piccioni (Italia, 2008)
Ci sono registi che conservano sempre il loro passo, indifferenti alle mode e ai vezzi del loro ambiente. Piccioni è tra questi, e dopo diversi film memorabili, su tutti "Fuori dal mondo", lo conferma in quest'ultima opera.
Mette di fronte due personaggi prigionieri di un disagio, seppure con storie molto diverse: Guido è uno scrittore che spera, con un certo fatalismo, nella consacrazione di un importante premio letterario, e Giulia una donna sfuggente con un passato, e un presente, che vorrebbe cancellare. S'incontrano nella piscina dove lei fa lezioni di nuoto, ma solo il giorno: la sera infatti, come lui scopre dopo un po', deve rientrare in carcere.
Incuriosito e attratto da una donna così diversa, e forse anche perché giunto a un punto morto con la moglie, Guido entra comunque nella sua vita. La spinge a cercare un incontro con la figlia abbandonata anni prima, ma le cose non vanno bene, e la situazione precipita.
E' la storia di un amore mancato, o forse di un incontro vissuto solo a metà, sempre con la paura di perdere le pur piccole certezze di sempre: il tema del film sembra appunto ruotare intorno a questa sorta di insicurezza che blocca sul nascere le storie più belle. Ognuno rimane dov'era, ma a qualcuno non è rimasto più niente.
Film problematico e psicologico, "Giulia non esce la sera" ha il crepuscolare "appeal" di un manifesto fin troppo fedele all'Italia di oggi, così malinconica e disillusa da chiudersi nel proprio squallore per paura di osare. Magnifica Valeria Golino, che surclassa spesso un Mastandrea schiacciato dall'egoismo del suo personaggio.
·"Frost/Nixon" di Ron Howard (USA, 2008)
In questo genere di film gli americani sanno sempre il fatto loro. Il regista Ron Howard, che qualcuno ricorderà ancora come Ricky Cunningam nella serie televisiva "Happy Days", ha fatto un eccellente lavoro anche come produttore, lasciando la sceneggiatura a Peter Morgan.
La storia è quella di uno scoop epocale: siamo nel 1977, tre anni dopo lo scandalo del Watergate che ha costretto il presidente Nixon alle dimissioni. Nessuno è mai riuscito però a ottenere le sue scuse al popolo americano e una vera ammissione di colpa. L'idea di provarci è di un conduttore televisivo inglese, David Frost appunto, che lavora in Australia, ma cerca qualcosa di forte per tornare al successo. Tra l'incredulità di tutti, e mettendoci anche del suo, riesce a coinvolgere sponsor e qualche giornalista politico per mettere in piedi un lungo faccia a faccia.
Snobbato dal giornalismo ufficiale, e anche dalla corte di Nixon, il quale accetta solo per riabilitarsi davanti all'opinione pubblica, fidando sull'inesperienza del conduttore, Frost in effetti parte male, ma trova alla fine quel che cercava.
Il film di Howard ha la giusta tensione e attori di vaglia, capaci di dare lustro all'operazione: su tutti Frank Langella, che offre un ritratto memorabile del vecchio presidente costretto, quasi a malincuore, a riconoscere pubblicamente il suo tradimento. Da vedere.
·"The Reader" di Stephen Daldry (USA/Germania, 2008)
Una fortunata coproduzione che rievoca il passato nazista della Germania da un'angolazione molto soggettiva.
Nella Berlino degli anni Cinquanta, il quindicenne Michael, studente liceale di buona famiglia, incontra per caso una donna più grande di lui. Se ne innamora e scopre con lei il sesso. Hanna ha una curiosa predilezione: nei loro incontri, prima di concedersi, esige dal ragazzo che gli legga a voce alta qualche pagina dai classici che lui sta studiando. Un giorno però la donna scompare improvvisamente, senza lasciare traccia.
Dopo qualche anno, Michael si è iscritto all'Università, e il ricordo di quell'avventura finita nel nulla ha lasciato in lui un segno, tanto che fatica a vivere nuove relazioni con le sue coetanee.
Un giorno, recandosi al processo contro alcune donne sorveglianti nei campi di sterminio nazista, scopre con grandissima sorpresa che tra loro c'è proprio Hanna. Quando lei viene condannata, Michael troverà un modo originale di esserle vicino, ma quando cerca di occuparsi del suo futuro fuori dal carcere è troppo tardi.
Solleverà polemiche questo film che può sembrare, erroneamente, una sorta di atto d'indulgenza verso un personaggio indubbiamente colpevole, ma Daldry, sulla scorta del romanzo di Bernhard Schlink "A voce alta", ha fatto qualcos'altro. E' voluto entrare nel mondo di una donna coinvolta come tanti in una tragedia enorme, che forse ha capito troppo tardi, colpevole dunque per la limitatezza dei suoi orizzonti: in fondo è sempre vero che "il sonno della ragione genera mostri".
Bellissima prova di Kate Winslett nei panni di Hanna, Oscar più che meritato per una sofferta, e difficile, intepretazione. Consigliato, anche se forse nell'ultima parte il film perde qualche colpo.
·"Vuoti a rendere" di Jan Sverak (Repubblica Ceca/GB, 2007)
Arriva con circa due anni di ritardo nelle sale italiane questo film ceco di Sverak, noto da noi soprattutto per "Kolya" (1996), premiato anche con l'Oscar.
Qui il protagonista è un anziano professore, Joseph, che incapace di dialogare coi suoi studenti sceglie di anticipare la pensione. Non sa rassegnarsi però a non far nulla, e così, tra le perplessità di familiari e conoscenti, s'inventa prima un lavoro di corriere postale, troppo avventuroso però, prima di sistemarsi in un supermercato come addetto al ritiro dei vuoti. Questo spiega anche il titolo, che ovviamente gioca anche, metaforicamente, sul concetto dell'invecchiamento e le inevitabili crisi d'identità che l'accompagnano.
La sceneggiatura affronta il tema con sorridente umorismo, ma non risparmia qualche tocco di pungente amarezza e un pizzico di trasgressione senile: il vecchio Joseph è una sorta di filosofo, convinto che la vita debba riservare ad ognuno le sue piccole gioie, compresi l'amore e il sesso. Di qui situazioni divertenti ed equivoci in serie, in una commedia umana sapida e mai volgare, ben recitata, che lascia un'impressione positiva.
Da notare che, ancora una volta, il regista affida il ruolo principale a suo padre, l'attore e sceneggiatore Zdenek Sverak, sempre molto efficace.
·"Il dubbio" di John Patrick Shanley (USA, 2008)
Questo è un film che potrebbe essere stato girato anche trent'anni fa: ma, sia chiaro, si tratta di un apprezzamento.
Alla base della pellicola c'è il dramma che lo stesso regista aveva scritto per il teatro e che ora porta sul grande schermo. Questo spiega anche, in parte, la natura singolare di un film che ha suscitato opinioni discordi nel pubblico e nella critica.
In un collegio religioso del Bronx, nel 1964, la superiora dell'ordine, Suor Aloysius, domina con la sua ferrea disciplina la vita dell'istituto: i ragazzi la temono e lei non fa nulla per rendersi simpatica.
Nella parrocchia esercita anche Padre Flynn, che ha un approccio del tutto diverso coi ragazzi: è bonario e affettuoso, in particolare con il primo ragazzo di colore ammesso nell'istituto, Donald.
Un giorno, dopo aver raccolto la confidenza della giovane sorella James, suor Aloysius arriva però a sospettare che le attenzioni del parroco non siano così innocenti, ma nascondano invece un legame morboso.
I due si scontrano, prima in sottili schermaglie, poi sempre più duramente finché Padre Flynn accetta di dimettersi e trasferirsi altrove.
Recitato magnificamente da Meryl Streep (sorella Aloysius) e Philip Seymour Hoffman (padre Flynn), ma anche da Amy Adams nei panni di Sorella James, "Il dubbio" è un film che agita le coscienze anche se sceglie una chiave del tutto psicologica, senza cercare scorciatoie voyeuristiche: proprio questa opzione permette anzi alla pellicola di seminare fecondamente il dubbio, perfino dopo la parola fine. Chi è veramente colpevole dei due fieri protagonisti?
Con grande abilità, Shanley si diverte a spiazzare le attese del pubblico, dopo aver dipinto i due protagonisti a tinte esattamente opposte a quello che poi sembra emergere dal racconto: dietro la solidità dell'impianto drammaturgico, la forza dei dialoghi e le fini notazioni psicologiche, il film lascia in sospeso le domande e agita il fantasma di una verità inafferrabile, sempre sfuggente a ogni certezza.
Un grande film, assolutamente consigliato.
·"Sette anime" di Gabriele Muccino (USA, 2009)
Pochi registi oggi in Italia sono tanto avversati quanto Muccino: il successo da noi si perdona raramente, e forse non piace la sua disinvoltura stilistica che a taluni può apparire "furba". A parte tutto, dopo "La ricerca della felicità", il secondo film americano del regista romano è un'opera ambigua, seppure non priva d'interesse.
Ben, un uomo ossessionato dal senso di colpa, si fa passare per un agente del fisco in modo da poter beneficiare sette persone realmente bisognose scelte con grande cura. Una di queste, Emily, necessita di un trapianto cardiaco quanto prima, ed è appunto questa la molla decisiva che spinge Ben a mettere in atto il suo gesto più estremo.
Discutibile come messaggio, tutto basato com'è sul concetto di sacrificio di sé come espiazione, il film non manca di sequenze forti che giocano sui sentimenti, anche se non sempre calibrate. Tra gli attori, più di Will Smith (Ben) piace la prova di Rosario Dawson nei panni di Emily.
Una pellicola che coinvolge, insomma, ma non convince fino in fondo: gli manca probabilmente il senso della misura nel dosaggio delle emozioni, e soffre di uno schematismo eccessivo, privo di sfumature.
·"Milk" di Gus Van Sant (USA, 2009)
Di Van Sant si ricordano film belli e altri discutibili (ad esempio "Elephant"): con "Milk" il regista firma invece una pellicola intensa ma anche improntata al più classico "politically correct".
E' infatti la storia vera di Harvey Milk, che trasferitosi a San Francisco nei primi anni Settanta col suo compagno Scott, decide di candidarsi come consigliere comunale ed esponente della vasta comunità gay della baia. Sconfitto più volte, non demorde e prova con ogni mezzo a conquistare quello che ritiene un giusto riconoscimento sul piano dei diritti. Alla fine sembra spuntarla contro pregiudizi e ostacoli d'ogni tipo, che minano anche i suoi rapporti affettivi, ma qualcuno non gli perdonerà di averlo scalzato.
E' la tipica biografia da cinema, insomma, che deve molto all'attore protagonista: Milk è Sean Penn, davvero eccellente nel tratteggiare il suo personaggio senza stereotipi, credibile quanto misurato. Oltre ad un cast ottimo anche nei ruoli più defilati, il film si avvale di una bella ricostruzione ambientale che cattura il clima sociale e politico del tempo, compresa la colonna sonora.
Indubbiamente da vedere, perché ricorda un personaggio emblematico di certe conquiste, ma senza farne un santino.
·"Come dio comanda" di Gabriele Salvatores (Italia, 2008)
Non sempre l'incontro tra cinema e letteratura funziona...come dio comanda. Salvatores e Ammaniti avevano cominciato bene con "Io non ho paura", mentre stavolta i conti non tornano.
Il regista sfronda il romanzo originale e lo riduce al rapporto difficile tra un padre rissoso, con un'ideologia quasi nazista che ne governa i comportamenti, e un figlio adolescente che si modella a fatica su di lui. L'ambiente è una città del ricco nord-est appena accennata, ma i due, come l'amico ritardato che si portano dietro, ne vivono solo le briciole. Col terrore, oltretutto, che l'assistente sociale porti via il ragazzo a un genitore inadeguato, che ha perso anche il lavoro.
Sequenze ad effetto ben girate, e attori tutti intonati, specialmente Filippo Timi (il padre), non evitano che l'insieme risulti poco convincente: manca soprattutto il pathos che giustifichi anche gli scoppi di una violenza cieca che segna la vita dei protagonisti. Peccato.
·"L'ospite inatteso" di Thomas McCarthy (USA, 2008)
Il film di McCarthy, anche attore e alla seconda prova da regista, si segnala come un bell'esempio di cinema civile sotto le apparenze di un commedia psicologica.
E' la storia di Walter, un docente universitario già maturo e un po' spento, che per un caso torna nel suo appartamento di New York dopo anni e lo scopre occupato da un coppia di giovani clandestini.
Dopo lo sconcerto iniziale, l'uomo e il giovane siriano Tarek che suona nei locali solidarizzano anche in nome della musica, finché il ragazzo è arrestato. Nel frattempo il professore conosce la madre di lui, Mouna, l'assiste nel difficile momento, e tra i due nasce un'intesa molto forte che si spezza quando Tarek viene espulso e rispedito in patria.
E' un film di toni sommessi e delicate sfumature, servito da una sceneggiatura molto equilibrata. Essenziale l'alchimia tra due attori in gran forma come Richard Jenkins (Walter) e Haaz Sleiman (Mouna), già vista ne "Il giardino di limoni", capaci di illustrare magistralmente come la paura che segna l'america dopo l'11 settembre 2001 possa incidere, e pesantemente, anche negli affetti dei singoli. Da vedere.
·"Il giardino di limoni" di Eran Riklis (Israele/Francia, 2008)
Una vicenda che sarebbe d'attualità, se non fosse invece continuamente superata dalla tragedia mediorientale.
E' la storia di Salma, una donna palestinese con un figlio in America e un bel giardino di limoni ereditato dalla sua famiglia, che la sostenta e a cui è molto legata.
Quando esattamente di fronte a casa sua si stabilisce il ministro della difesa israeliano la sua vita cambia drasticamente: per motivi di sicurezza, le dicono, dovranno tagliare tutte le sue piante. Disperata, Salma si rivolge a un avvocato per difendere le sue ragioni, ma la faccenda sembra troppo più grande di lei.
L'unica persona che davvero riesce a capirla è proprio
la moglie del ministro, Mira, anche lei vittima a suo modo delle circostanze. Due donne sole su fronti diversi, accomunate dalla sofferenza e dalla solitudine.
Il film di Riklis, isareliano classe 1954, sembra cercare proprio nella sensibilità femminile l'unica prospettiva realmente capace, forse, di andare al nocciolo vero di un conflitto che schiaccia gli individui in nome di ragioni superiori ma non sempre irreprensibili. Straordinaria prova di Hiam Abbas nei panni di Salma, per un film che resta amaro anche in fondo, nonostante tutto: la stretta di mano della locandina, per inciso, nel film non c'è. Un presagio? Comunque da vedere.
·"Il passato è una terra straniera" di Daniele Vicari (Italia, 2008)
Ambientato in una Bari a due facce, quella della buona borghesia cittadina e l'altra sotterranea e notturna, dove prospera il gioco d'azzardo, la storia diretta da Vicari è nel complesso piuttosto attraente: è in fondo l'ennesima variazione sulla fascinazione del Male, con tutte le implicazioni del caso.
Il giovane Giorgio, benestante che studia da magistrato, s'imbatte per caso nel luciferino Francesco, abile giocoliere dei tavoli da poker col vizio di barare. Trascinato come complice nel gioco sporco dell'altro, Giorgio si mette contro tutti fino a sfiorare il baratro nell'ebbrezza dei soldi facili e di una vita che fa della trasgressione la sua norma, liberatoria ma anche infida.
Convincente per tensione e atmosfera, a parte qualche lungaggine nella seconda parte. Discreta l'ambientazione e la fotografia, e buone prove di Elio Germano e del meno noto Michele Riondino, qui davvero eccellente. Il nuovo cinema italiano, insomma, batte un altro colpo: da vedere.
·"Galantuomini" di Edoardo Winspeare (Italia, 2008)
Altro film italiano non banale, per quanto forse meno riuscito del precedente col quale condivide lo sfondo pugliese.
Un magistrato da anni al nord e una donna sua amica d'infanzia s'incontrano in difficili circostanze nel loro Salento: lui, Ignazio, indaga proprio sui traffici sporchi della Sacra Corona Unita della quale Lucia è scaltra protagonista dietro le apparenze di madre esemplare che alleva da sola il figlio.
Quando i nodi vengono al pettine, il magistrato deve scegliere tra un'amicizia che sfiora la passione, e la lealtà al suo ruolo.
La trama è corposa e ricca di chiaroscuri, ma il film deve molto all'ambientazione salentina e soprattutto al gioco attoriale: Donatella Finocchiaro interpreta con grande intensità una donna volitiva ma lacerata, spesso oscurando il pur bravo Fabrizio Gifuni (Ignazio). Nel cast anche Beppe Fiorello, ottimo in un ruolo più crudo del solito.
Film ambizioso e non sempre felice nei suoi equilibri, ma di sicuro interesse.
·
"The Burning Plain" di Guillermo Arriaga (USA, 2008) Il messicano Arriaga è noto soprattutto come sceneggiatore pluripremiato per Gonzalez Inarritu ("Babel" e "21 grammi" ad esempio), e con questo film esordisce dietro la macchina da presa.
Fedele a se stesso anche nel suo nuovo ruolo, il regista immagina una storia d'amore e morte guidata in pari misura dal caso e da passioni troppo forti che sfociano in tragedia. All'inizio c'è Sylvia, proprietaria di un ristorante di lusso affacciato sul mare di Portland: il suo contegno algido e severo nasconde in realtà un passato doloroso del quale restano vittime, oltre a lei, anche gli uomini che incontra, ai quali nega ostinatamente ogni vera intimità a parte il sesso, elargito invece con la massima noncuranza.
Un giorno un uomo dai tratti messicani che la segue da qualche tempo interviene nella sua vita, riportandole alla mente la verità sui fatti della sua adolescenza che ha cercato di dimenticare. In questo periodo della sua vita, Sylvia viveva con la sua famiglia nell'arido territorio del New Mexico, dove sua madre Gina intreccia una relazione adulterina con Nick. I due muoiono nell'incendio che distrugge la roulotte dove s'incontravano in segreto.
Poco tempo dopo, Mariana (questo era il suo vero nome) era stata avvicinata da Santiago, uno dei due figli di Nick, curioso di conoscere la storia segreta tra i loro genitori. I due finiscono per innamorarsi, ma quello che succede dopo è proprio quello che lei ha voluto lasciarsi alle spalle e che ora Carlos, il fratello di Santiago, viene a ricordarle: ha una figlia di nome Maria che non ha voluto più vedere dopo la nascita, ma ora che suo padre è morto forse ha bisogno di lei.
Il film di Arriaga, come detto, è molto coerente con il suo mestiere di sceneggiatore e organizza una vicenda a incastro ricca di flash-back e ambiguità depistanti, che si sviluppa in buona sostanza tra una serie di poli opposti, prima di svelare il suo cuore nero: il gelo della nuova vita di Mariana-Sylvia, incapace di legarsi a nessun uomo, non vuole fare i conti con il fuoco della passione che ha incendiato la sua adolescenza, e non solo in senso figurato, come si scoprirà a un certo punto. Un fuoco distruttivo nel suo ricordo pieno di sensi di colpa, ma che ora torna nelle vesti della piccola Maria come possibile elemento in grado di sciogliere il gelo esistenziale che le impedisce ogni vita affettiva.
Molto spesso, in film del genere, si è portati a criticare il gioco delle coincidenze come una forzatura, ma bisogna dire che Arriaga mostra una certa padronanza dei suoi mezzi espressivi, e il suo primo progetto da regista nel complesso convince. Sfiorando a volte il melodramma, come nel finale, quando Mariana e Maria si trovano di fronte, ma glissando con eleganza prima di cascare a piedi uniti nell'happy end che avrebbe sporcato il senso della storia.
Tra amore e rimorso, colpa e passione, la storia di Arriaga somiglia a un teorema sull'eredità incancellabile del passato, che prima o poi ti presenta il conto: ma con un'ultima possibilità di riscatto, comunque, se hai finalmente il coraggio di guardarlo in faccia.
Sul piano della recitazione, Charlize Theron è una Sylvia di grande forza, pienamente dentro le fragilità e i chiaroscuri del suo personaggio, così come Kim Basinger è apprezzabile nei panni della madre Gina, lacerata dall'ansia di venire smascherata. Due attrici di vaglia, ammirevoli per come sanno essere credibili in ruoli piuttosto lontani dal glamour divistico che appartiene loro.
·
"Si può fare" di Giulio Manfredonia (Italia, 2008) E' decisamente un'annata prolifica per il cinema italiano, tanto bistrattato e spesso inchiodato a valutazioni riduttive. Tra i molti film attualmente sugli schermi, quello diretto da Giulio Manfredonia si connota come una delle pellicole più riuscite di questa prima parte di stagione, sia per il soggetto che per il risultato finale.
Nella Milano dei primi anni Ottanta, tra riflusso e stanchezza ideologica, il sindacalista Nello (Claudio Bisio) risulta un po' scomodo con le sue idee, un misto di valori etici e nuove esigenze legate al mercato: per liberarsene viene spedito a occuparsi di alcuni malati di mente che dopo la legge Basaglia, la famigerata 180, sono usciti dai manicomi. L'impatto è difficile: i degenti, intorpiditi dai forti sedativi, sono lenti e chiusi nel loro mondo, e l'unica occupazione loro affidata è attaccare francobolli.
Nello, prendendo alla lettera l'idea di una cooperativa vera e propria, rimasta fin lì sulla carta, pensa di specializzare il gruppo in un lavoro più specifico come il montaggio del parquet, sia in abitazioni private che in locali e uffici pubblici. Per riuscire nell'impresa però deve superare resistenze di vario tipo: ad esempio convincere il medico responsabile (Giorgio Colangeli) a dimezzare le dosi di sedativi, perché i pazienti ritrovino la lucidità e la concentrazione necessarie al lavoro. Alla fine ci riesce, ma nel frattempo deve misurarsi con lo scetticismo di chi commissiona il lavoro, una volta chiarito che la cooperativa è composta di "matti".
Nel suo privato, poi, deve rubare tempo e attenzioni alla sua compagna Sara (Anita Caprioli), che si occupa di moda e vorrebbe sentirlo più partecipe dei suoi successi. In realtà, tra dubbi e difficoltà, il progetto della cooperativa assorbe Nello quasi completamente: piano piano, infatti, il lavoro dei suoi ragazzi comincia a conquistarsi stima e nuove commissioni, anche grazie alla fattiva collaborazione di un altro medico illuminato come Federico (Giuseppe Battiston). Qualcuno di loro però subisce dei contraccolpi emotivi forse inevitabili, dal momento che il nuovo status di lavoratore attivo risveglia anche un desiderio legittimo di "normalità". Accade così che uno dei più sensibili, innamoratosi di una ragazza durante un lavoro, si creda ricambiato, scoprendo poi di essere ancora considerato una persona da compatire: la delusione lo spinge al suicidio.
E' un duro colpo, sia all'idea della cooperativa che al morale di Nello: il ritorno al passato sembra a questo punto inevitabile, ma forse non è detta ancora l'ultima parola...
Il film di Manfredonia s'impone per una serie di fattori: il miracoloso equilibrio della sceneggiatura, ad esempio, capace di tenersi alla larga sia dal rischio di cadere nel patetismo ricattatorio, sia dalla compiaciuta esibizione del "diverso" in chiave morbosa. Al contrario si apprezza l'arte di conciliare i toni realistici suggeriti dal tema con azzeccate riflessioni più leggere, che fanno sorridere senza suonare mai fuori posto.
Il merito è ovviamente anche degli interpreti, tutti in stato di grazia a cominciare da Bisio, davvero convincente in uno dei ruoli più impegnativi affrontati finora al cinema. Da applausi comunque sono tutti gli attori che recitano nei panni dei "matti", talmente bravi da sembrarlo davvero, dal primo all'ultimo: citiamo per tutti Andrea Bosca nel ruolo di Gigio.
A conti fatti, Manfredonia trova il film della sua consacrazione, e s'inscrive a pieno titolo nel novero dei nuovi autori che possono contribuire a rivitalizzare il nostro cinema sul piano dei contenuti e del linguaggio. Un film da non perdere.
·
"L'uomo che ama" di Maria Sole Tognazzi (Italia, 2008) Il film in questione ha inaugurato l'ultimo festival del cinema di Roma: secondo alcuni indegnamente, ma entriamo subito nel merito.
La sceneggiatura, firmata dalla regista insieme a Ivan Cotroneo, racconta di un giovane medico, Roberto, che lavora in una farmacia a Torino e vive una relazione affettiva molto appagante con Sara, vicedirettrice di un albergo. La storia sembra ben avviata, ma dopo che Sara, di ritorno da un breve soggiorno a Milano, diventa di colpo introvabile e sfuggente, si capisce che qualcosa non va. Alla fine emerge la verità: Sara ha rivisto un uomo cui era legata in precedenza e ha riallacciato i rapporti con lui.
Per Roberto è un colpo durissimo, e se ne accorge anche la farmacista di cui è dipendente, una donna matura anche lei segnata da vecchie cicatrici sentimentali. La vita pare improvvisamente svuotata di senso, e Roberto finisce per invidiare la felicità, in apparenza perfetta, con la quale suo fratello Carlo vive il legame omosessuale col suo compagno.
In realtà, e qui la sceneggiatura fa un passo indietro, non tutto è come appare: scopriamo così che il fratello aveva allontanato il suo convivente in passato, solo quando si era accorto di essere malato di cancro, per evitargli un dolore eccessivo. Quella sofferenza, poi superata dopo un difficile intervento, lo aveva preparato al recupero pieno del suo rapporto. E proprio nelle parole di Carlo al fratello che soffre dopo la fine del rapporto con Sara, scopriamo che prima di lei Roberto aveva un'altra relazione importante con Alba. In questo caso, anzi, il rapporto era ormai indirizzato verso un matrimonio, e i due stavano già scegliendo la casa dove vivere insieme. L'incontro con Sara, poi, aveva convinto Roberto a lasciare Alba senza troppi scrupoli, come il fratello gli ricorda vedendolo soffrire.
Il film di Maria Sole Tognazzi vuole appunto indagare la sofferenza amorosa dal lato maschile, mettendo il protagonista tra due storie sentimentali di grande coinvolgimento, e studiando i meccanismi dell'attrazione e della ripulsa. Alba non era certo meno bella di Sara, ma forse la novità rappresentata da quest'ultima aveva scompaginato il futuro già pianificato insieme alla prima: forse si vuole ribadire che l'uomo è l'eterno farfallone che non sa mai rinunciare al richiamo di una nuova avventura? Direi di no.
Al contrario, lo sguardo della regista segue il suo personaggio con affettuosa partecipazione, in un percorso dove non manca la cura per i dettagli minimi e rivelatori del sentire più interiore. Paradossalmente, però, è appunto questa morbida rete che avvolge i personaggi a togliere forse mordente alla storia narrata, quasi che mancasse qua e là l'intenzione di esprimere giudizi netti sui singoli personaggi, Roberto in testa. Tognazzi gira con sapiente eleganza, senza scene madri o bruschi stacchi di montaggio che diano alla storia quel ritmo più secco che prevale nel cinema odierno: una scelta estetica rispettabile, anche se appesantisce a tratti il racconto dal punto di vista formale .
Rimane comunque interessante lo scandaglio sul tema dell'amore visto dalla parte del maschio, capace di soffrire certo, anche se spesso per le sue stesse ambiguità verso le donne. Il meglio, in questo senso, sta proprio nella recitazione intensa di Pierfrancesco Favino (Roberto), che presta al personaggio tutte le sue sfumature d'interprete ormai affermato, ma anche degli altri: Monica Bellucci (Alba), Ksenia Rappoport (Sara), Marisa Paredes (la dottoressa) fino a Michele Alaique (Carlo).
Il film non è pienamente convincente, insomma, ma non è affatto indegno: semplicemente, i suoi ingredienti andavano meglio dosati perché il piatto finale risultasse più saporito.
·
"La classe" di Laurent Cantet (Francia, 2008) Film discusso ma premiato a Cannes, "La classe" è un esempio di cinema trasversale, che gioca sul confine esiguo tra documentario e finzione.
Tratto dal romanzo omonimo di François Bégaudeau, che viene utilizzato dal regista come semplice base di partenza per la sua operazione, lo si può approcciare da molti e diversi punti di vista, ma l'intento dichiarato in partenza da Cantet era quello di fotografare la realtà della Francia odierna proprio attraverso l'esperienza di una classe scolastica.
Il professore protagonista, interpretato dallo stesso Bégaudeau, insegna in un istituto superiore della periferia parigina: una scuola certo non di elite, che proprio per questo però ben rappresenta la realtà francese. I venticinque alunni sono in gran parte di origini africane o asiatiche, pochi i bianchi autoctoni, e illustrano il melting pot di un paese che rispetto all'Italia, anche per la sua lunga storia coloniale, convive da molto tempo con una massiccia presenza multirazziale.
Girato interamente all'interno dell'edificio scolastico, senza digressioni o stacchi verso l'esterno, il film può apparire a una visione superficiale una lunga sequenza di battibecchi senza capo nè coda tra l'insegnante e i suoi studenti, anche vagamente claustrofobico. In realtà non è così, perché superata questa prima impressione il senso che emerge è appunto la difficoltà ma anche la necessità di cercare un filo rosso che tenga insieme, tra conflitti e differenze inevitabili, tante anime e caratteri. Quello che appunto dovrebbe essere, dovunque, la funzione della scuola pubblica.
Tra il professore e i venticinque ragazzi della sua classe la convivenza è complicata: non tanto per il loro atteggiamento, ma appunto perché spesso, come in ogni comunità, nascono equivoci e discussioni su qualunque cosa, a cominciare dal linguaggio, i pregiudizi latenti o espliciti, il sentimento d'inclusione o esclusione avvertiti soprattutto dai ragazzi neri.
A descrivere un'integrazione ancora imperfetta, e dunque il retroterra culturale degli immigrati, sono le scene degli incontri tra insegnanti e genitori. Spesso le madri dei ragazzi sono donne che non parlano il francese e ogni colloquio deve essere tradotto, rendendo tutto più lento e complicato. A fronte di queste difficoltà, l'insegnante mette in campo tutta la sua esperienza, ma anche le sue convinzioni personali e la sua umanità, il che non vuol dire che non commetta mai errori: a un certo punto gli capita di perdere la pazienza con due ragazze, il che gli costa qualche tensione anche con il preside.
Proprio questa verità imperfetta e appassionata giova al film: a differenza di molti film ambientati in una scuola, soprattutto americani, "La classe" rifugge da ogni intento salvifico e intenzionalmente apologetico verso l'istituzione-scuola o verso la figura del docente solo contro tutti col suo astratto sistema di valori. Al contrario, dal film di Cantet, dallo scambio dialettico costante tra insegnante e alunni viene fuori tutta la fatica di stare insieme e rispettare regole uguali per tutti, mettendo insieme storie umane così distanti tra loro.
Infatti, alla fine, non tutto torna come si vorrebbe: uno dei ragazzi più difficili, nonostante l'impegno del corpo insegnante e la buona volontà del suo professore, viene espulso dalla scuola per i suoi atteggiamenti violenti. Una decisione che il protagonista avverte come una sconfitta, ma che non pregiudica il lavoro e l'impegno necessario a tenere insieme tante altre situazioni simili. A questo impegno quotidiano, prezioso proprio perché tanto complesso, sembra dedicata l'ultima inquadratura del film: l'aula vuota dopo l'ultimo giorno di scuola, teatro di tensioni e apprendistato che prepara la convivenza nel sociale.
Il film è davvero intenso, e il sapore di verità che lascia dentro andrebbe preservato con cura, per la varietà di riflessioni che ingenera la sua visione in tempi di grande dibattito sulla centralità dell'istruzione pubblica: assolutamente consigliato.
·
"Lezione ventuno" di Alessandro Baricco (Italia, 2008) Un film sulla Nona Sinfonia di Beethoven. Anzi, contro la Nona Sinfonia, per molti monumento intoccabile della musica eropea. Decisamente Alessandro Baricco ha il gusto delle sfide impossibili, e per il suo esordio alla regia non è certo andato sul sicuro: di questo, almeno, gli va dato atto.
Il film è costruito su piani narrativi diversi, l'uno dentro l'altro, così che i primi minuti possono lasciare un po' disorientati. Come in un flash-back, alcuni studenti universitari rievocano la famosa lezione in cui il professor Mondrian Kilroy (John Hurt) volle sfatare l'idea che la sinfonia in questione sia un capolavoro immortale. Per farlo però si serve di un curioso racconto ottocentesco, che vede protagonista un violinista morto assiderato presso Vienna, ancora col suo violino in mano (Noah Taylor). E' proprio tramite questo personaggio che Kilroy vuol rappresentare la sua tesi audace sulla non-bellezza della Nona Sinfonia.
I piani del racconto filmico sono intrecciati come in un mosaico a volte faticoso, prima che emergano via via i legami metaforici che li tengono insieme: a questo punto possiamo apprezzare i dati salienti del progetto di Baricco, che sono molti e complessi.
Secondo il regista, intanto, quella prima esecuzione non fu affatto il trionfo che molte cronache hanno tramandato. Lo proverebbe la testimonianza di un viaggiatore dell'epoca, che di passaggio a Vienna, vi assistette: quella sera c'era poco pubblico, ha lasciato scritto il testimone, e qualcuno se ne andò anche prima della fine. Il presunto trionfo, insomma, sarebbe stata l'invenzione pietosa dei sodali del musicista, ormai sordo da anni e sempre più dimenticato dal pubblico dopo quasi dieci anni di silenzio artistico.
Il professor Kilroy, che la studentessa un giorno va a trovare, in realtà non ha niente contro Beethoven: nelle sue parole anzi c'è molta considerazione (e commozione) per un artista isolato e chiuso nel suo mondo, tra orgoglio e malinconia, che volle con l'ultima delle sue sinfonie lanciare la sua sfida estrema a quel pubblico ormai innamorato dei nuovi astri musicali, Rossini in testa, col loro universo tanto più colorato e melodico. In quella sfida disperata però, secondo il docente, c'è solo potenza, anche genio, ma non la vera bellezza: quella starebbe altrove, nelle opere precedenti o negli ultimi quartetti.
Punteggiato di commenti fuori testo, opera di apparizioni in costume che rappresentano i contemporanei del titano, e servono anche da ironico contrappunto al messaggio più tecnico e profondo del film, la lezione di Baricco mira molto in alto. Non è facile, com'è noto, portare la musica al cinema da protagonista: tantomeno se si tratta di musica classica. Eppure, con i suoi limiti narrativi e qualche scompenso tra le parti del racconto, l'autore torinese ha saputo costruire un'opera interessante nella sua anomalia, che fa proprio dei suoi aspetti più curiosi il suo punto di forza.
Il risultato è una sorta di film-saggio puntiglioso quanto impertinente nelle sue tesi, aperto a suggestioni diverse che hanno il merito di riaccendere l'interesse non tanto per la musica di Beethoven, ma per quello che sta alla sua base, e dietro ogni creazione. Poco per volta, infatti, specie nell'ultima parte, il film slitta verso una commossa rappresentazione della bellezza rivelata al musicista al termine di una lunga ricerca che può abbracciare una vita intera: è qui che la storia del violinista e di Beethoven sembrano saldarsi in una sequenza elegante e suggestiva.
Insomma, più che un film che vuol minare il mito di un'opera celeberrima, "Lezione Ventuno" somiglia alla fine a un'argomentazione sul rapporto tra il genio e il suo tempo, tra la musica e le mode: una riflessione ricca e mai banale sul senso dell'arte e della bellezza, dono inafferrabile che spesso passa inavvertito ai più. Come una musa capricciosa, o una fanciulla bellissima corteggiata sempre invano.
·
"Burn After Reading - A prova di spia" di E. e J. Coen (USA, 2008) I fratellini terribili del cinema a stelle e strisce colpiscono ancora: dopo "Non è un paese per vecchi", probabilmente uno dei loro film migliori, virano però verso la commedia. Il risultato è come al solito brillante, dato il talento della coppia, ma forse meno corposo del solito.
Il plot è presto detto. Un agente della CIA caduto in disgrazia perde accidentalmente un dischetto in una palestra, contenente una serie di informazioni che potrebbero essere scottanti. Dopo il ritrovamento due dipendenti della palestra pensano di sfruttarlo per raggiungere i propri scopi, ovviamente venali: soprattutto Linda, una donna di mezza età che sta cercando disperatamente i soldi per alcuni interventi di chirurgia plastica che, così spera, la renderanno più attraente per gli uomini che incontra da qualche tempo tramite internet. A tenerle bordone è il più giovane Chad, intrigato soprattutto dall'idea di stare vivendo una specie di avventurosa vicenda da film, e che infatti si comporterà di conseguenza, con esiti prevedibili.
Così la coppia contatta l'agente Cox nell'intento di ricattarlo, anche se la cosa si presenta subito meno facile del previsto. Cox infatti cerca di spaventarli, ma i due tengono duro e comincia un lungo braccio di ferro, alla fine del quale però, non avendo ricavato nulla, Linda e Chad pensano di trovare un altro aquirente interessato al prezioso dischetto e si rivolgono addirittura all'ambasciata russa.
Nel frattempo, Linda ha conosciuto Harry, uno sceriffo federale dalle molte avventure extraconiugali, che guarda caso è anche l'amante della moglie di Cox. Nel generale guazzabuglio di equivoci e coincidenze, Chad finisce per seguire quest'ultima convinto che la porti a casa del marito, ma qui trova proprio lo sceriffo dopo uno dei tanti convegni amorosi, e la storia ha una svolta fatale.
Come a volte succede in pellicole di questo tipo, la trama somiglia soprattutto a un pretesto per mettere in scena un'intera società e le sue degenerazioni: infatti il film dei Coen è una fotografia impietosa dell'America odierna, divisa tra l'ossessione per i soldi e le apparenze e un sottobosco sempre più improbabile di servizi segreti alla deriva.
Il tono scelto dai Coen è quasi farsesco, sia pure governato con stile sontuoso e un ingranaggio a prova di bomba, come già sperimentato nelle prove precedenti. Si ride e ci si diverte soprattutto a vedere abilmente mescolati il mondo delle spy-stories più classiche con la realtà comune dei due improbabili ricattatori, i quali si muovono ogni volta secondo quello che hanno visto al cinema e che ritengono del tutto verosimile. Questo corto circuito di cinismo e ingenuità è la cifra vincente del film.
In realtà, "Burn After Reading" non ha solo pregi: questa girandola di situazioni grottesche che fila via fin troppo liscia, nasconde una sorta di superiore distanza dai personaggi che sfiora a volte una palese freddezza da entomologo. Quello che manca davvero, in fondo, è il pathos che scaldi la storia che ci viene raccontata.
Se il film porta a casa comunque un risultato più che buono lo si deve all'istrionismo e all'umiltà degli attori coinvolti nel progetto: ottimi soprattutto Brad Pitt nei panni inconsueti del palestrato Chad un po' tonto, e Frances McDormand (già vista in "Fargo"), brillante come sempre nei panni della sfiorita Linda. Molto spiritosi sono lo stesso George Clooney (Harry) e John Malkovich (Cox), capaci entrambi di prestarsi con disinvoltura al gioco scenico dei due registi. Insomma, la commedia satirica dei Coen è congegnata al meglio e la si guarda con interesse e sano divertimento, anche se personalmente non credo che resterà tra gli esempi più alti del loro cinema: chi ha diretto a suo tempo "Barton Fink" può e deve fare di più.
·
"La terra degli uomini rossi-Birdwatchers" di Marco Bechis (Italia/Brasile, 2008) E' un film importante questo di Marco Bechis, un regista italo-argentino che nelle sue prove precedenti si era soffermato soprattutto sui drammi della recente e travagliata storia argentina, come in "Garage Olimpo" (1999). Qui invece sceglie di occuparsi della difficile lotta per la sopravvivenza di una tribù di Guarani Kaiowá, stanziata da secoli nel Mato Grosso brasiliano.
Stretta tra le mire sempre più espansionistiche dei fazendeiros brasiliani, che poco a poco occupano le loro terre, e un ambiente naturale che sempre meno garantisce loro il necessario sostentamento, la piccola tribù del film è guidata da Nadio. E' lui che a un certo punto si accorge che un cambiamento s'impone prima che sia tardi: i suicidi dei più giovani non si contano più, e gli altri tirano a campare alla giornata, mostrandosi ai turisti nei costumi tradizionali, lavorando come schiavi nelle piantagioni di canna da zucchero o facendo battute di caccia sempre meno fruttuose nei territori occupati dai fazendeiros.
Un giorno raccoglie uomini e donne che sono con lui e si stabilisce nel punto esatto dove vivevano i suoi antenati prima di essere cacciati: un pezzo di terra già recintato, ovviamente, dove cresce in pochi giorni una piccola comunità di altri Guarani dispersi. Il proprietario terriero, che vive nella zona con la sua famiglia, ovviamente non è contento del loro arrivo, ma Nadio e gli altri non vogliono andarsene.
Un guardiano del padrone si piazza accanto alla tribù in un camper, nell'intento di vigilare e magari spaventare la comunità, ma viene presto addomesticato: tutti lo ignorano o lo prendono in giro, e lui non sa come reagire, anche perché in fondo gli indios vivono una vita molto pacifica. Come al solito, quando gli adulti si fronteggiano su opposte fazioni, sono i giovani a mostrarsi più curiosi dell'altro, e infatti avviene che Osvaldo, il figlio maggiore di Nadio, che rivela doti precoci da sciamano, comincia a vedersi con la figlia del fazendeiro, mentre il più giovane accetta di lavorare nelle piantagioni per farsi accettare da una donna della sua tribù. Ripudiato dal padre al suo ritorno, finisce per suicidarsi, provocando la vera rivolta della comunità.
Il film di Bechis ha riscosso giustamente gli applausi convinti della mostra di Venezia: è un'opera affascinante, ma soprattutto incisiva nei contenuti che esprime e soprattutto per come li rappresenta. Calandosi con grande umiltà nel punto di vista degli indios, ma senza cedere mai alla retorica lamentosa degli ultimi per lasciare invece al pubblico una visione lucida e onesta del problema, ha comunque il merito di dare voce a un popolo schiacciato dagli interessi dei rapaci imprenditori brasiliani, che giorno dopo giorno, anche ai tempi del governo Lula, sottraggono agli indios spazio e risorse in nome del loro profitto.
La sceneggiatura illustra con ammirevole equilibrio lo stato delle cose, tra lo squallore e la precarietà quotidiana dei Guarani, e l'indifferenza ottusa dei proprietari terrieri di fronte al loro risorgente bisogno di identità. Ci sono sequenze simbolicamente magistrali ch'esprimono le ragioni del conflitto, e la naturalezza recitativa degli indios conferisce spessore e verità alla denuncia del film senza troppe inutili verbosità: quando Nadio mangia una manciata della "sua" terra di fronte al fazendeiro per rivendicarne il diritto, il senso profondo della sua lotta viene fuori con splendida efficacia.
Nel cast "professionista" si segnalano Chiara Caselli e Claudio Santamaria, ma per una volta la scena è tutta per gli indios, uomini e donne, giovani e anziani, che non recitano ma vivono il loro dramma vitale. Un film del genere, come avrete capito, è senz'altro da non perdere.
·
"Il matrimonio di Lorna" di Jean-Pierre e Luc Dardenne (Francia/Belgio, 2008) Ormai da anni sulla breccia, i fratelli Dardenne non smentiscono la loro fama di autori devoti a un'idea umanistica e sociale del cinema, senza concessioni commerciali, come ribadisce anche "Il matrimonio di Lorna".
La storia che si racconta nel film, ambientato a Liegi, è quella di una giovane donna albanese, Lorna appunto, che per ottenere la cittadinanza belga si è piegata a un odioso compromesso, del resto molto in voga dappertutto: ha sposato cioè un giovane belga tossicodipendente, Claudy, che poi verrà fatto sparire dalla banda di malavitosi guidata da Fabio, per preparare un nuovo finto matrimonio. Un meccanismo ormai ben oliato che permette alla banda di guadagnare illegalmente sulla pelle dei meno fortunati in una sorta di ciclo continuo, garantito dal fatto che sono sempre molti gli immigrati in cerca di cittadinanza.
Lorna, fidanzata col suo connazionale Sokol, che si sposta continuamente per lavoro, all'inizio è pienamente d'accordo con il progetto. Sogna soprattutto di sposare Sokol e poter aprire con lui un bar a Liegi: un sogno che per lei lega insieme amore e indipendenza economica. Per il momento si tiene ben stretto il lavoro in una lavanderia e mette da parte tutto quello che può in attesa che il sogno si realizzi.
La vita domestica con Claudy è però molto complicata: il ragazzo, nonostante la volontà di uscire finalmente dal giro della droga, ci ricade spesso e ha crisi frequenti. Più volte chiede a Lorna di chiuderlo a chiave quando esce al mattino, per non uscire a cercare gli spacciatori, finché una volta si sente male e lei è costretta ad accompagnarlo all'ospedale. Una volta, per impedirgli di cedere al bisogno di drogarsi, Lorna gli si concede sessualmente ed è forse il primo indizio che la sua visione delle cose è cambiata. Questo avrà però pesanti ricadute sui suoi rapporti con Fabio e lo stesso fidanzato, rischiando di sconvolgere tutti i progetti per il futuro, specialmente quando si convince di essere incinta.
La formula del film ricalca lo schema tipico dei Dardenne: un soggetto molto spinoso, che nasce dall'osservazione onesta e disincantata della società, e una sceneggiatura che segue da vicino i personaggi che vivono il dramma sulla propria pelle. Il linguaggio è sempre molto asciutto, depurato da ogni retorica e stereotipo, per lasciare emergere l'essenza nuda della realtà messa in scena. Rispetto ai film precedenti, comunque, si può osservare una partecipazione emotiva appena più marcata, come la pietà che lentamente fa breccia in Lorna di fronte alla disperazione di Claudy.
Il sentimento di pietà che s'insinua in lei è proprio ciò che i cinici criminali cui si è affidata non hanno previsto, occupati come sono a lucrare sulle disgrazie di quelli come Lorna: per loro eliminare il tossicodipendente per organizzare il successivo finto matrimonio con un russo che già scalpita è solo routine. Per Lorna invece no.
In un cinema di questo genere il contributo degli attori fa spesso la differenza, perché anche loro concorrono al tono del film: e anche in questo caso i Dardenne hanno saputo scegliere, dato che Arta Dobroshi (Lorna) e Jérémie Renier (Claudy) sembrano perfetti nei rispettivi ruoli, bravi soprattutto a tenere a freno la temperatura del dramma senza mai eccedere. Il risultato è dunque un altro esempio davvero notevole di cinema realistico che aiuta a cogliere quegli aspetti vergognosi e invisibili che sono annidati nel cuore delle società occidentali più ricche.
Al servizio di queste verità, troppo spesso taciute o rimosse, i due cineasti belgi aggiungono un altro tassello importante alla loro filmografia, meritandosi un posto di rilievo nell'elite del cinema di denuncia che mette l'uomo, con le sue fragilità e le sue speranze, al centro della propria ricerca. Da vedere.
·
"Il papà di Giovanna" di Pupi Avati (Italia, 2008) Di Avati e del suo cinema si sono scritte cose molto diverse: c'è chi lo considera un regista minore solo perchè tenacemente legato alle sue radici emiliane, e chi, pur apprezzandolo, esalta proprio questo suo lato facendone una sorta di epigono del cinema bozzettistico di una volta. Secondo me la verità è un'altra: Avati fa perno sul mondo che conosce, sulla propria esperienza biografica, perché ha intuito che solo nel particolare, paradossalmente, si trova l'universale.
Questo suo nuovo film, dopo gli applausi raccolti a Venezia, conferma appunto questa felice scommessa del regista e rischia seriamente di diventare uno dei suoi titoli più paradigmatici, forse il punto di arrivo del suo percorso registico.
La storia, ambientata a Bologna nel 1938, è quella di Michele Casali (Silvio Orlando), un professore di origine napoletana che vive con la bella moglie Delia (Francesca Neri) e la figlia Giovanna (Alba Rohrwacher): la sua vita scorre tranquilla, se non fosse per un cruccio che lo assilla e che riguarda proprio la figlia. Giovanna è un'adolescente introversa e bruttina, con evidenti problemi di socializzazione, e il padre fa di tutto per favorire la sua amicizia con i coetanei nel liceo dove anche lui insegna. Così, quando un giorno la vede parlare con un suo allievo, fa capire velatamente a quest'ultimo che la sua ammissione all'esame dipende anche dall'atteggiamento verso la figlia. Quando poco tempo dopo Giovanna è invitata alla festa di compleanno di una sua compagna, con tutta la sua classe, Michele è convinto che le cose comincino finalmente ad andare come ha sempre voluto.
A spegnere quest'illusione è un dramma improvviso: un giorno nella palestra della scuola viene ritrovato il corpo senza vita dell'amica di Giovanna, brutalmente uccisa. A sorpresa, durante un'interrogatorio della polizia, Giovanna si confessa colpevole del delitto, commesso per una patologica forma di gelosia. Lo sgomento del padre è totale, e al dolore si somma il licenziamento dalla scuola, che complica la vita della famiglia.
Grazie a un avvocato procurato da Sergio, il poliziotto fascista vicino di casa, alla figlia è risparmiato il carcere in quanto ritenuta inferma di mente. Inoltre Sergio trova a Delia, per la quale ha una simpatia solo platonica, un lavoro che consente ai vicini una vita meno precaria. Michele si accorge però che per Delia sua figlia non esiste più, e decide di andarsene di casa per avvicinarsi all'istituto psichiatrico che ospita Giovanna, anche perchè ha intuito che tra Delia e Sergio lui comincia a essere di troppo. Dopo qualche anno, finita la guerra, Giovanna è dimessa dall'istituto e padre e figlia si ritrovano a vivere soli nella vecchia casa bolognese, mentre di Delia si sono perse le tracce...
A parte qualche breve notazione sulla storia che scorre intorno, soprattutto nel finale, l'attenzione del regista è tutta focalizzata sul dramma privato che interessa Michele e sua figlia. Quest'atmosfera interiore, psicologicamente torbida dietro le apparenze di una placida vita borghese, è resa al meglio da una fotografia ricca di zone d'ombra, che privilegia gli interni domestici e le situazioni più prosaiche. Nel groviglio sentimentale tra Giovanna e i genitori, si lascia intuire che il ruolo della madre, emotivamente assente e forse infelice, ha inciso non poco sull'equilibrio della ragazza. Schiacciati tra la retorica altisonante del fascismo e il perbenismo opprimente del quotidiano, i personaggi sembrano impotenti a sciogliere certi nodi profondi, e subiscono il destino ognuno a modo suo: Michele con l'amore e il senso di colpa che lo attanaglia, Delia con il distacco da una figlia che sente estranea.
Davvero eccellente la prova di Silvio Orlando, come pure quella della brava Alba Rohrwacher, ma anche un personaggio "televisivo" come Ezio Greggio nel ruolo del poliziotto fascista se la cava più che bene. Il film è tutto all'insegna del classico "Avati-touch", insomma, e anche se probabilmente lascerà ancora interdetti i suoi detrattori, si segnala come la migliore conferma di un regista sempre fedele al suo cinema, così minimale nei toni quanto invece intenso e problematico nei contenuti.
·
"Il seme della discordia" di Pappi Corsicato (Italia, 2008) I percorsi registici di Pappi Corsicato non sono mai troppo ortodossi, sia nei contenuti che nella messa in scena del suo cinema: anche per questo ogni suo film merita comunque di essere visto, e non fa eccezione quest'ultimo, inserito in concorso all'ultima Mostra del Cinema di Venezia.
Ispirato addirittura alla celebre "Marchesa Von O" di Von Kleist, "Il seme della discordia" conferma più che mai lo sguardo personale dell'autore napoletano, anche al cospetto di un riferimento letterario così ingombrante.
Nella trasposizione filmica, che ambienta la vicenda in una Napoli moderna e stilizzata, Veronica è una giovane donna che gestisce un negozio d'abbigliamento, sposata a Mario, che vende fertilizzanti e spesso è fuori di casa per lavoro. Le sue giornate scorrono tra l'attività e la casa, tra progetti di rinnovamento e i piacevoli diversivi offerti dall'amica Monica, proprietaria di un bar, oltre al suo interesse per i mobili d'antiquariato. Unico cruccio, che viene fuori ogni tanto nelle conversazioni con sua madre, è la mancanza di figli, che forse potrebbe ridare un po' di smalto a un matrimonio che procede tranquillo, ma senza più slanci.
La situazione precipita di colpo quando Veronica scopre di essere incinta: siccome è convinta di non aver avuto rapporti recenti col marito non sa proprio come spiegare la cosa, e a peggiorare il quadro è il risultato del test di fertilità di Mario, che scopre con suo disappunto di essere sterile. Di chi è allora il figlio che lei aspetta?
Tra la gelosia e lo sconcerto di Mario, che lascia la casa, e l'incredulità delle amiche sul caso di un concepimento "immacolato", Veronica capisce che forse tutto è successo durante un'aggressione di cui è stata vittima tempo prima, e della quale non ha fatto parola a nessuno. Ma a questo punto le cose, invece di risolversi, si complicano anche di più.
L'aspetto che più colpisce del film di Corsicato, come sempre, non è la vicenda, tantomeno in questo caso, ma proprio la capacità di trattarla in una maniera assolutamente originale. La fotografia e la scelta scenografica, la stessa colonna sonora e la leggerezza inopinata dei toni, nonostante il soggetto stesso, sembrano volutamente sollevare il film in una dimensione quasi astratta, dove convivono felicemente il gusto della citazione e la disinvolta recitazione di un cast ben intonato all'atmosfera creata dal regista.
Tutto scorre come in una girandola di facce, corpi e situazioni all'insegna d'un superiore umorismo, venato di notazioni grottesche e dettagli bizzarri, che alla fine restituisce il senso d'un teatro dell'assurdo dove anche la scabrosità oggettiva della vicenda, invece che tinte grevi e carnali, trova una paradossale cifra estetica all'insegna di un cinema elegante, brioso e perfino astratto, che rimanda qua e là a Ophuls come al primo Almodovar. A questo gioco, abbastanza inedito per il cinema italiano, danno il loro essenziale contributo gli attori protagonisti e anche quelli di contorno (Martina Stella, Valeria Fabrizi, Isabella Ferrari), ma in particolare una splendida Caterina Murino (Veronica), corpo del desiderio e del mistero al tempo stesso, e Alessandro Gassman (Mario), più contenuto del solito in un ruolo dai risvolti non facili.
Dietro l'apparenza di una disinvolta futilità, il film di Corsicato ha il merito di giocare con le superfici offerte del plot senza essere davvero superficiale, ma scompaginando invece con puntigliosa intelligenza gli schemi consueti della rappresentazione: a suo modo, una lezione di stile, che potrà anche trovare reazioni contrastanti, ma a mio parere tutt'altro che banale. Da vedere.
·
"Un giorno perfetto" di Ferzan Ozpetek (Italia, 2008) Nella mia recensione di "Saturno contro", ultimo film di Ozpetek prima di "Un giorno perfetto", presentato a Venezia e ora nelle sale, avevo scritto che il regista turco dava l'impressione di appiattirsi fin troppo nella sua idea di una comunità autosufficiente (gli amici, gli affetti) in qualche modo chiusa, volutamente, alla dimensione sociale e pubblica. Con questo nuovo film, Ozpetek sembra invece aver voluto rimettersi in gioco: anzitutto scegliendo un testo letterario preesistente come il romanzo di Melania Mazzucco, attraverso il quale proprio questa idea viene messa in crisi, mandando in pezzi ogni certezza consolatoria.
La storia, che si svolge nell'arco delle ventiquattr'ore, è quella di Antonio, poliziotto di scorta a un importante uomo politico, ed Emma: da quando si sono separati, lui non sa darsi pace e cerca in ogni modo di convincere l'ex moglie a tornare insieme, con i due figli piccoli. Emma, già vittima in passato di una gelosia ai limiti del morboso del marito, cerca invece di costruirsi una vita nuova e indipendente, aggrappandosi con tutte le sue forze al lavoro in un call center.
Proprio il giorno in cui apprende di essere stata licenziata, Emma si trova davanti Antonio, che alla fine la convince a salire in macchina per parlare della loro situazione: in realtà, incapace di controllarsi, lui la tempesta di domande e insulti, fino a un tentativo di stupro dal quale entrambi escono segnati. Sembra la fine di tutto, ma nella mente offuscata di Antonio scatta un'ultima scintilla di violenza autodistruttiva che coinvolgerà gli affetti più intimi.
Nel film di Ozpetek colpisce il rigore espressivo della rappresentazione, dalla fotografia livida ai toni ansiogeni dell'ambientazione romana, fitta di rimandi scostanti: una realtà dominata da una rincorsa stressante ai propri obiettivi, piccoli o grandi, senza vere possibilità di sciogliere la tensione e alzare lo sguardo in cerca di un'altra prospettiva. L'insieme di riti e gli obblighi della società in cui vivono questi personaggi sembra schiacciarli verso una sostanziale insoddisfazione, che alla fine lascia emergere per reazione una passionalità ossessiva, a volte distorta fino alla violenza. Solo i bambini conservano una loro felice incoscienza, salvo rimanere fatalmente le vittime designate delle tensioni familiari in atto, come l'anello più debole della catena.
Alla storia di Emma e Antonio si mescola la vicenda del politico con cui lavora Antonio come scorta: un uomo di successo che però sta per essere travolto da uno scandalo, e neppure si accorge che anche la sua famiglia è minata dall'infelicità. Suo figlio, universitario stanco dei suoi privilegi, si è innamorato della giovane seconda moglie del padre, la quale ha appena scoperto di essere incinta e si tormenta nel dubbio di una scelta tra dovere e istinto. E' un modo per farci vedere che il malessere di questa realtà non fa differenze, se non nelle forme più esteriori.
Il risultato è un film davvero molto nero, dove i volti stessi dei protagonisti sembrano il riflesso speculare di questo disagio, anche se Ozpetek ha inventato di sana pianta un personaggio tutelare (Angela Finocchiaro) che punteggia con la sua presenza gli snodi del plot, quasi a voler regalare un soffio poetico alla cruda materia del suo film.
Alla fine però, oltre all'intensità di Valerio Mastandrea e Isabella Ferrari, bravissimi, rimane la solitudine dei singoli, la ricerca di uno specchio dove guardarsi e ritrovarsi solo un attimo prima che la tragedia li travolga: sta qui forse il senso dell'incontro tra Emma e Mara (Monica Guerritore), l'insegnante del figlio, che mostra negli sguardi e nei silenzi condivisi la disillusione tutta femminile dei sentimenti traditi.
Al contrario del suo ironico titolo, quello di Ozpetek è un film imperfetto, così spigoloso forse da spiazzare i suoi stessi ammiratori, eppure interessante, a mio parere, anche nei suoi difetti, per tutte le riflessioni che suscita a margine: in questo senso è senz'altro degno di attenzione.