Murakami Haruki - "After Dark" (Einaudi, 2008) Ogni nuovo libro di questo scrittore giapponese è un evento, vista la popolarità raggiunta anche in Italia dai suoi romanzi più famosi, come "Dance Dance Dance" o "L'uccello che girava le viti del mondo". Il romanzo da poco pubblicato, in realtà uscito nel 2004 nella versione originale, susciterà però molte discussioni, anche tra i suoi lettori più fedeli. Per una volta infatti l'arco temporale del racconto è quello delle ventiquattr'ore: questo significa che mancano le ardite costruzioni temporali e spaziali dei libri precedenti, e che l'autore preferisce concentrarsi s'una dimensione più lineare e raccolta che in passato. Tutto si svolge in una notte a Tokio: in un locale, verso mezzanotte, Mari siede da sola leggendo un libro, quando viene avvicinata da un ragazzo con un trombone a tracolla, che dice di averla conosciuta fuggevolmente due anni prima e si siede al suo tavolo per mangiare. Lui si chiama Takahashi, ed era insieme a un amico che aveva una mezza storia con Asai, la sorella di Mari, quando si conobbero nella piscina di un albergo. Mari ricorda, ma sembra più seccata che felice dell'incontro, come se preferisse tornare alla sua lettura interrotta. Dopo aver chiacchierato tutto il tempo, il ragazzo se ne va per suonare in un seminterrato lì vicino insieme al suo gruppo. Sembra finita, ma la notte è lunga. Poco dopo Mari è interpellata nel locale da una donna che non ha mai visto: si chiama Kaoru e dallo stesso ragazzo di poco prima ha saputo che lei parla il cinese e dunque potrebbe aiutarla a tradurre il racconto confuso di una prostituta cinese che è stata picchiata da un cliente nel Love Hotel che gestisce. Sorpresa, Mari la segue, e così entra in un ambiente che non conosce. Tutto questo significa che Mari e Takahashi si ritrovano ancora, parlano di tante cose e così veniamo a sapere che Asai, la bellissima sorella della ragazza, vive da anni uno stato apparentemente inspiegabile di letargo: non fa che dormire, con rarissimi intervalli nei quali evidentemente mangia qualcosa ed espleta le sue funzioni fisiologiche, anche se nessuno dei suoi riesce a vederla in piedi. Eppure non sta male, i medici che la visitano non trovano niente che non vada: bisogna solo aspettare. Tra tanti segnali di disagio e vampate di crudezza, come la brutta avventura della prostituta picchiata a sangue da un grigio esperto informatico, la notte di Tokio descritta da Murakami sembra soprattutto avvolta da questo sonno lungo e sospeso che ha come congelato, di riflesso, anche la speranza e le certezze dei protagonisti. Ognuno di loro, anche la ruvida Kaoru e il ciarliero suonatore di trombone, ha avuto infatti periodi negativi e delusioni esistenziali, e sta come aspettando che questa patina gelatinosa di malinconia si dissolva per trovare nuovi stimoli. Il romanzo di Murakami focalizza con grazia, e anche poesia, questa sorta di limbo psicologico, con una narrazione minuta, perfino pedante a tratti, che fa risaltare una volta di più la sua notevole attenzione per il dettaglio. A differenza che in passato, però, non si tratta più di lunghi elenchi musicali o ricette di cucina, quanto piuttosto di una lunghissima carrellata, quasi cinematografica, sul percorso circolare dei protagonisti, colti con esattezza documentaristica nei loro passi incrociati nella notte di Tokio. Nonostante la compattezza dell'insieme e la felicità di alcune pagine, comunque, "After Dark" appare una prova meno convincente del solito: come se il punto di vista narrativo fosse troppo angusto e non permettesse a Murakami di intessere le sue famose trame a incastro, dove l'alto e il basso, fantasia e realismo, si tengono miracolosamente tra loro formando un mosaico che stupisce e conquista quando ogni tessera si svela parte di un solo disegno. Qui, paradossalmente, l'unità di tempo più ristretta sembra togliere allo scrittore nipponico il suo estro migliore, congelato proprio come la speranza di Mari e degli altri per il futuro che li aspetta: il suo realismo fotografa ogni momento della notte senza il carattere quasi epifanico delle sue prove più famose, e alla fine lascia solo la pallida scia di ogni notte che sbiadisce in fretta quando comincia l'alba.
Francesco Piccolo - "La separazione del maschio" (Einaudi, 2008) L'opera letteraria di Francesco Piccolo (Caserta, 1964) comincia a guadagnarsi un suo spazio sempre più personale, e dopo libri interessanti come "Allegro occidentale", solo per citarne uno, si conferma come una delle più belle novità oggi in circolazione. Se in precedenza focalizzava la sua ispirazione in un'ottica per così dire socio-culturale sull'Italia odierna, in questo caso l'autore scrive un vero romanzo, scegliendo come protagonista un uomo per molti versi medio, ma non troppo. Di professione montatore per il cinema, felicemente sposato e padre di una figlia piccola, il nostro è soprattutto un maschio mediterraneo che a prima vista sembra uscito da una commedia italiana degli anni d'oro, e dunque portatore consapevole di certi stereotipi che oggi si vorrebbero forse in estinzione. Pare proprio di no, invece. In breve, al di là di ogni metafora, il pensiero fisso di quest'uomo è la donna come terra di conquista: qualunque donna capace di attrarre la sua attenzione in virtù di un certo aspetto fisico ben delineato. Gli piacciono soprattutto donne della sua età, dunque sui trentacinque-quaranta, e in possesso di un bel culo. Detto così, parrebbe il prototipo ideale di tanto cinema firmato Tinto Brass, ma la differenza sta nel tono scelto da Piccolo per il suo personaggio: una sincerità disarmante e mai greve, riflessiva e consapevole, nonostante l'argomento ruoti quasi costantemente sul tema dell'eros adulterino in tutte le sue varianti. Il sogno proibito di quest'uomo non è tanto quello di un Don Giovanni sessualmente bulimico, che punta tutto sulla quantità, ma al contrario è quello di riuscire a tenere insieme, in miracoloso equilibrio, la sua dimensione famigliare con ogni altra relazione sessuale al di fuori del matrimonio. Proprio come in uno dei film che gli capita di montare per mestiere, dove ogni singola immagine, con un paziente lavoro di taglia e cuci, può trovare il suo posto esatto nell'economia del film senza alterarne l'equilibrio finale, ma anzi contribuendo a farne un'opera veramente completa, così lui ambisce a una dimensione nella quale la fedeltà a sua moglie, all'istituzione del matrimonio, possa convivere con le sue avventure erotiche senza che entrino in conflitto. Perché si avveri un tale paradiso in terra, ovviamente, è necessaria una ferrea disciplina e un'attenzione quasi maniacale per i dettagli: dopo ogni incontro tra le mura di casa con la donna del momento, lo vediamo perciò esaminare con la massima cura la scena del tradimento, cioè il letto matrimoniale, allo scopo di eliminare ogni pelo o capello superfluo. La scena è ridicola, ma coglie molto bene la duplice anima del protagonista: non vuole rinunciare a nulla di ciò che rende felice la sua vita, e conservare invece sia la pace domestica con una moglie e una figlia che adora, sia la sua libertà di maschio predatore. Non è stanco del matrimonio, non tradisce per noia o mancanza di attrazione per sua moglie: al contrario, è più che mai convinto che solo certe avventure rendano migliore, anche sessualmente, il suo matrimonio. E' insomma certo di aver trovato la ricetta della vera felicità. Peccato che tanta consapevolezza non gli eviti di provocare il disgusto della consorte, che un giorno cede a sua volta a un amore adulterino e non sopporta poi che il marito, coltala in flagrante, faccia finta di niente. La sua reazione mancata, per lei, è solo la fine di ogni passione. A questo personaggio sfacciato, ma sfaccettato, nel quale la ricerca del piacere sembra legarsi per paradosso all'idealizzazione dell'istituto coniugale, Piccolo affida un messaggio ambiguo ma ineludibile: il maschio è sempre se stesso, ma per quanto ingegnoso e filosofico possa essere il meccanismo della sua tendenza poligamica, deve scontrarsi con un'altra metà del cielo, la donna, più disinibita che in passato, ma anche meno disposta al compromesso. Da una parte insomma c'è la ricerca del piacere condiviso, dall'altra quella dell'amore assoluto: far convivere due mondi così non è affatto facile, e forse impossibile. Il libro spiazza e conquista, come detto, per questa coesistenza di un tono schietto e mai volgare con una sostanza molto più seria di quel che sembri, agitando in conclusione una domanda di questo tipo: la natura, in fondo, è sempre più forte della cultura, oggi come ieri? Una lettura raccomandata.
Tommaso Pincio - "Cinacittà" (Einaudi, 2008) Questo è il tipico romanzo che sembra partorito da un clima sociale ormai evidente a tutti: uno scenario nel quale la finzione s'intreccia fecondamente, e senza apparente sforzo, con la realtà in atto. Prima di addentrarci nel merito del libro, è giusto dire qualcosa sull'autore. Per cominciare Tommaso Pincio non esiste in quanto tale, essendo solo uno pseudonimo modellato sull'americano Thomas Pinchon, ma dietro questo nome d'arte ha già scritto romanzi di spessore, molto attenti al tempo che viviamo, o abbiamo vissuto, alle mode, a ciò che resta dei sogni e delle utopie: cito ad esempio "La ragazza che non era lei" (2005). In "Cinacittà", Pincio conferma di trovarsi a meraviglia in questa sospensione temporale tra stagioni passate o future che finiscono, ovviamente, per gettare una luce riflessa di grande interesse sul presente. Nel titolo c'è già il senso della narrazione: una Roma immersa in un clima quasi tropicale, fatto di giornate bollenti e insopportabili, che ha finito per spopolarla dei romani veri e propri, mentre sono i cinesi ad averla praticamente invasa, con le loro abitudini operose quanto, a volte, misteriose. Uno degli ultimi abitanti davvero romani è appunto il protagonista, che nonostante tutto ha trovato una sua dimensione accettabile anche nella nuova situazione. Non ha più un lavoro, e neppure lo cerca: vive dei risparmi accumulati in passato, e istintivamente ha messo a punto una giornata tipo che si addice al suo temperamento indolente e solitario. Come tutti, durante il giorno sta tappato in casa a dormire, in attesa della sera, quando finalmente può uscire e recarsi alla "Città proibita", locale notturno ovviamente gestito da cinesi, dove giovani ragazze orientali si esibiscono lascivamente per i clienti. Il suo scopo in realtà non è, come si potrebbe pensare, la ricerca del piacere fisico più elementare, ma una sorta di appagante contemplazione a distanza, un voyeurismo fine a stesso. Qualcuno però lo ha notato, e una sera lo avvicina: è il cinese Wang, colto e garbato, che gestisce il go-go bar. Diffidente e seccato all'inizio, il protagonista si lascia comunque sedurre dalla gentilezza dell'uomo, specie quando gli prospetta di trasferirsi nel vecchio hotel "Excelsior", malandato ma ancora confortevole, per un prezzo irrisorio. L'altro motivo è la conoscenza dell'enigmatica Yin, una splendida prostituta che si aggira nuda nella sala da biliardo dove lui e Wang si affrontano al tavolo verde. Trasferitosi nell'albergo e accettato un piccolo lavoro da Wang, il nostro si fa stregare dalla bella Yin, sempre muta e apparentemente docile, fino a portarla a vivere con lui. La gelosia, però, e il sospetto che la ragazza e Wang facciano parte di un losco patto per metterlo in mezzo, finiscono per travolgerlo: verrà coinvolto in un omicidio con tutte le conseguenze giudiziarie del caso. La visione prossima ventura di una Roma quasi interamente in mano alla comunità cinese, come detto, è forse il motivo di maggiore attualità del romanzo di Pincio, ma l'interesse di "Cinacittà" sta anche nello spessore dei personaggi, in particolare nell'ambiguità del raffinato Wang, vero motore della vicenda, e della stessa Yin, nel cui silenzio imperturbabile si può leggere anche la fascinazione per un popolo come quello cinese, così inafferrabile per il protagonista. Lo scrittore è abile anche nella minuta descrizione di questa città dal clima impazzito, dei suoi luoghi storici trasfigurati, del senso di abbandono e inquietudine che pervade ogni aspetto del vivere quotidiano. Il risultato è una sorta di slittamento verso una realtà che in parte si è già realizzata in alcune delle nostre città, e che Pincio sa mettere a fuoco con la giusta dose di scettico fatalismo che appartiene al suo personaggio. Raccontata in un lunghissimo flash-back, la vicenda dell'ultimo romano ormai straniero in patria proietta lucidamente l'Italia di oggi nel cuore delle sue paure, laddove cioè bisogna fare i conti con un mondo che non ha più una sola dimensione, e si deve imparare a convivere con l'altro senza pregiudizi né illusioni. Perché ormai tornare indietro non si può.
Irvine Welsh - "Una testa mozzata" (Guanda, 2008) Lo scozzese Welsh è già ben conosciuto per la verve della sua narrativa, che tende a focalizzare soprattutto la gioventù proletaria della sua terra. Lo stesso avviene anche in quest'ultima sua pubblicazione, per quanto il titolo italiano (diversamente dall'originale "Kingdom of Fife") faccia pensare a tutt'altro, magari a un romanzo-splatter. Non è così, per fortuna. Nella popolosa regione della Scozia anticamente abitata dai "pitti", vive il ventiseienne Jason King, noto soprattutto per la sua bassa statura: per qualche tempo infatti è stato un promettente fantino, mentre ora è più conosciuto per essere un piccolo campione locale del "subbuteo", il celebre calcio da tavolo, regolato da un'agguerrita e pittoresca federazione locale. A parte questo, Jason ga soprattutto due problemi, condivisi con gran parte dei suoi coetanei del luogo: la mancanza di donne e di lavoro. In realtà ha avuto una mezza storia con la bella Lara, appassionata di cavalli che partecipa spesso a concorsi ippici, ma da quando è finita non fa che vivere di fantasie e ricordi, come gli amici che frequentano i pub della zona. E' un mondo piccolo e pettegolo, dove tutti sparlano di tutti, di soldi ne girano pochini e ci si barcamena ogni giorno tra obiettivi minimi e strategie di sopravvivenza. Le cose cambiano quando casualmente ha modo di conoscere Jenni, la migliore amica di Lara: i due si conoscono già di vista, ovviamente, ma un giorno che Jason è costretto a tornarsene a casa vestito da donna dopo una singolare avventura, Jenni gli dà un passaggio e lo aiuta a uscire da una situazione penosamente ridicola. Siccome anche Jenni attraversa un periodo poco felice, con l'amica Lara e col padre, un rinomato imprenditore, tra i due si sviluppa un sentimento amicale che sfocia poi in una vera relazione amorosa del tutto inaspettata, specie quando Jason è assunto dal padre di lei per lavorare nella sua scuderia: entrambi scoprono nell'altro degli aspetti sorprendenti. A cementare ulteriormente la loro unione, vissuta dall'ambiente intorno con perplessità e invidia, è l'incidente che coinvolge Kravy, un amico di Jason appena tornato dalla Spagna: Kravy muore, decapitato da un segnale stradale messo di traverso mentre i due viaggiano in moto, e Jason, solo ferito, torna la notte con Jenni a cercare la testa dell'amico persa tra la vegetazione. Sequenze di questo tipo, tra realismo macabro e fantasia grottesca, rendono molto bene il senso più profondo del romanzo di Welsh, che è davvero magistrale quando racconta i suoi giovani eroi alle prese con una vita schiacciata tra la noia della provincia e le svolte del caso. Alla fine, comunque, dopo varie peripezie, tutto finisce in gloria per i due innamorati, che fuggono in Spagna a cercare un po' di felicità. C'è molta vita nel libro di Welsh, e non è mai la vita come dovrebbe essere: piuttosto è la vita che i suoi protagonisti trovano in fondo al disincanto che azzera i sogni, dopo aver sfiorato i pensieri peggiori. Lo scrittore sviluppa il racconto come un diario a due voci alternato, così da cogliere nel dettaglio soggettivo il gioco degli equivoci e del lento apprendistato amoroso che nasce tra loro. Il risultato è un racconto davvero esilarante, polifonico e sfaccettato, dove lo psicologismo è saltato a pie' pari in favore d'un ritratto fresco e spesso imprevedibile, modulato sul parlato: un vero slang colorito e sboccatissimo, dove si sprecano le metafore sessuali e tutto vive in un flusso d'impressioni che cattura a meraviglia l'essenza della vita minuta nella realtà provinciale al centro del romanzo. Si ride, trascinati dal felice piglio narrativo di Welsh, e un po' ci si commuove anche, perché in fondo la vita del Fife Scozzese non è troppo diversa da quella di tutte le provincie del mondo. Insomma, la provincia è soprattutto uno stato mentale che non ha confini: Welsh lo ha capito, e le sue storie parlano davvero a tutti.
Flavio Soriga - "Sardinia blues" (Bompiani, 2008) Cosa sapete della Sardegna? Soprattutto chi non c'è mai stato ne ha probabilmente un'idea di maniera, basata cioè sugli stereotipi più ovvi, che risentono delle cronache mondane, soprattutto estive: o la terra selvaggia e misteriosa dominata da una natura rigogliosa, oppure quella del lusso, coi villaggi turistici e i locali della Costa Smeralda, dove si sollazzano vips e affini, finanzieri, belle donne, veline, e così via. Un orrendo campionario di mondanità, oggi prevalente almeno sui media, che oscura la vera realtà dell'isola. E quale sarebbe la verità, allora? La verità, o per meglio dire, l'altra verità sulla Sardegna, ce la racconta ad esempio Flavio Soriga in questo bel romanzo che ha il pregio di un punto di vista indigeno. Soriga, nativo di Uta, ha la capacità di saper vedere non una ma tutte le molteplici realtà della sua terra, giocando sui contrasti tra l'una e l'altra con la finta leggerezza di chi ha vissuto certi stereotipi sulla propria pelle, e ha imparato perfino a riderne, ma con un retrogusto amaro che risulta l'ingrediente principale del suo libro. La vicenda è quella di tre amici, presentati subito come un nucleo indissolubile, forgiato appunto nell'ambivalenza che provano per i loro luoghi: Pani, Licheri e Corda sono tutti di cultura medio-alta, laureati o quasi, comunque con tutte le carte in regola per trovare un posto nella società. Eppure la loro terra non offre loro nessuna opportunità, e dunque vivono in questa precarietà come meglio possono. E' un limbo dove ballano incertezza e rabbia, ma dove anche è facile venir risucchiati in un fatalismo dagli esiti imprevedibili. I tre infatti si sono inventati una sorta di sistema per far soldi, illegale ma senza troppi rischi: rubano carte d'identità e le rivendono a chi può riciclarle come falsi documenti pronti all'uso. Più che un lavoro è il loro modo di sentirsi attivi e protagonisti, una trasgressione alla sonnolenta realtà nella quale vivono da sempre. Il rischio però esiste, e a volte si sfiorano zone d'ombra della malavita vera, ma i tre protagonisti forse preferiscono questo alla rassegnazione. Intanto vivono l'estate anche loro, nei locali di sempre, inseguendo piccole avventure amorose, fugaci illusioni per fare l'alba e dimenticare i propri fantasmi personali. Ognuno di loro ha infatti vissuto qualche amore vero, dal lungo strascico doloroso, durante soggiorni di lavoro o di studio all'estero, e ne porta dietro ancora l'acuta nostalgia che gli incontri di una notte possono solo sfocare per un momento. In questa sospensione che pare eterna, tra passato e futuro, ogni fantasia ha diritto di cittadinanza, anche a costo di deviare impazzita fuori dal controllo, prima o poi, e travolgere la vita di sempre. Soriga ha scritto un romanzo vibrante, pervaso di una dolente consapevolezza, sincopato davvero come un blues ripetitivo e ipnotico, valorizzato da un linguaggio mobile e inventivo che coinvolge sin dalle prime battute nel suo universo. La giovinezza disillusa dei suoi personaggi ha una forte personalità poetica, oltre che romanzesca, e le loro ansie, la loro febbrile attesa di un evento risolutivo sembrano quasi preparare il terreno al dramma finale. In questo modo, viene fuori anche una verità diversa sulla Sardegna: un luogo in gran parte legato ancora al passato, dove l'industria del turismo più invasivo ha portato solo una finta idea di modernità che abbaglia, ma non tocca davvero la vita profonda del tessuto sociale nel suo complesso. In questa ambiguità tra realtà e apparenza sembra quasi ovvio naufragare e perdersi inseguendo le proprie illusioni di una vita diversa. Un libro e un autore, comunque, da non farsi sfuggire.
Francesco Guccini - "Icaro" (Mondadori, 2008) E' la prima volta che m'imbatto in un libro firmato da Guccini, che apprezzavo fin qui solo in veste di cantautore. Dico subito che "Icaro", una raccolta di sette racconti, non mi ha convinto troppo, e vedrò di spiegare perchè. L'arte del racconto, lo sappiamo, richiede una capacità di sintesi mirabile, decisamente superiore a quella necessaria a un romanzo: occorre cioè saper concentrare nello spazio di poche pagine tutto quello che nel romanzo propriamente detto può diluirsi tra digressioni e parentesi, cercando però di non disperdere nella misura più breve l'interesse per personaggi, situazioni e psicologie. Il problema di questi racconti firmati da Guccini, secondo la mia opinione, è che si accontentano quasi sempre di suggerire un'atmosfera, schizzare appena un personaggio o lasciar intuire, per sommi capi, quello che sta dietro al testo. Raramente si ha l'impressione insomma di un racconto davvero compiuto in tutte le sue parti: a volte c'è il fatto che colpisce, ma latita il contorno, altre volte, al contrario, spicca un personaggio ma non c'è la situazione. Il risultato è una raccolta di spunti e caratteri piuttosto esangui, che raramente soddisfano fino in fondo: si vede che l'autore sa scrivere, certo, e probabilmente la sua è una scelta mirata, ma personalmente mi aspettavo di più. In ogni caso, non lo definirei un pessimo libro, perché qualcosa di buono c'è. Il racconto che intitola il volume, posto giusto in coda, è sicuramente quello che più degli altri colpisce nel segno. Come ripetendo una situazione già affrontata in una sua vecchia canzone, Guccini racconta appunto di un bambino e di un vecchio, che per motivi diversi si trovano entrambi a frugare in una discarica, in cerca di oggetti strani o ancora utili: in questo mondo marginale, che sa di esclusione e solitudine, l'incontro è però destinato a chiudersi tragicamente in un lampo di follia utopistica. Si apprezza qui proprio una certa capacità di scolpire con efficacia, e senza psicologismi, caratteri e ambientazione che coinvolgono chi legge, cosa che altrove riesce assai meno. In qualche caso ci si ferma all'aneddoto puro, come ne "La scimmia", dove un gruppo di turisti italiani viene bellamente gabbato da un furbo indigeno proprietario dell'animale. Si ride, ma non troppo. La stessa insoddisfazione si prova davanti a un racconto come "Arriva la libertà", dove due partigiani, uno più giovane e l'altro più navigato, sorvegliano da ore la strada sulla quale a un certo punto vedono arrivare gli autocarri dei liberatori americani. Mancano pathos e necessità, il tutto appare statico e perfino prevedibile. In confronto "Lo 'gnuri'", in apertura del libro, suona almeno più incisivo, lasciando trapelare, dietro il gusto dell'aneddoto, tutta l'ambiguità di una certa sottocultura mafiosa che prospera appunto sulla miscela di indifferenza e convenienza personale. Però non basta. Nel complesso, "Icaro" non è un libro riuscito: alcuni di questi racconti sembrano spesso l'abbozzo di un'idea, magari valida, che potrebbe lievitare solo in un contesto romanzesco, oppure conclusi, inopinatamente, proprio nel momento che sembrano innescare l'interesse del lettore, lasciandolo così francamente interdetto. Questa, almeno, è la sensazione che ho provato io. Siccome non ho dubbi sulle capacità narrative di Guccini, che anche nelle pagine più deboli mostra di aver molto da dire, mi viene da considerare questa sua raccolta un tentativo transitorio, e poco calibrato, sulla via di future pubblicazioni più organiche e meditate, che sono nelle sue possibilità.
Delphine De Vigan - "Gli effetti secondari dei sogni" (Mondadori, 2008) Questo è il primo libro pubblicato in Italia da Delphine De Vigan, ed è già stato un best-seller in Francia. Qualcuno ha parlato e scritto di un'operazione furba, studiata a tavolino per affrontare un tema importante dal punto di vista degli adolescenti. Secondo me, non è così, anche perché di un libro si deve valutare soprattutto il risultato, non tanto le intenzioni. La tredicenne Lou Bertignac vive a Parigi con una famiglia che risente ancora di un grave lutto: qualche anno prima, la sorellina Thais, di pochi mesi, è morta improvvisamente lasciando la madre in una profonda depressione. Nonostante tutto, Lou fa del suo meglio, anche a scuola, dove c'è un suo compagno che l'attira molto, Lucas, ma le sembra irraggiungibile. E' intelligente, ma si sente diversa dalle sue compagne: lei è minuta e poco appariscente quanto loro eleganti e belle, sicure di sé quanto Lou è insicura e piena di dubbi. Però Lou ha una dote: sa ascoltare e osservare gli altri. Le piace ad esempio guardare la gente che arriva e parte alla stazione, comunicandole il senso di legami veri e profondi. Proprio qui, un giorno è stata avvicinata da una giovane ragazza di strada che le ha chiesto sigarette. No, questo il nome della ragazza, diventa di colpo per Lou il soggetto ideale della sua ricerca per la scuola, che sceglie di dedicare proprio ai "senzatetto". Quando riesce a ritrovarla, chiede a No se è disposta a raccontarle della sua vita, e come passa le sue giornate senza neppure un posto fisso dove dormire e mangiare. Dopo l'iniziale diffidenza, No si apre e tra le due, separate in fondo da pochi anni di età, inizia un'amicizia che porta Lou a farsi molte domande: perché la società evoluta in cui vive permette che persone come No siano costrette a vivere in certe condizioni? A un certo punto, quando le difficoltà per l'amica si fanno insormontabili, Lou riesce a convincere i suoi ad ospitare No in famiglia. Inizia uno strano periodo, nel quale perfino la madre di Lou, chiusa e depressa, sembra riacquistare interesse per la vita a partire dalla nuova ospite. A No trovano anche un lavoro, ma non dura, e la ragazza un giorno scompare per non creare problemi a Lou e ai suoi genitori. Riappare a sorpresa a casa di Lucas, conosciuto tramite Lou, e i due compagni di scuola, approfittando del fatto che la famiglia di lui è sempre via per lavoro, decidono di ospitarla in segreto. In questo modo, Lou ha modo di apprezzare le doti del ragazzo, e tra loro nasce un sentimento di complicità sempre più forte. No però attraversa fasi instabili, s'intuisce che al lavoro le cose non vanno, e inizia a bere e a comportarsi stranamente. Alla fine, dopo che i genitori di Lou hanno scoperto tutto, lei e No decidono di scappare insieme: un vero salto nell'ignoto, che però avrà vita breve, almeno per Lou. Forse a non piacere di questo romanzo è lo stile lineare e volutamente asciutto utilizzato dalla De Vigan. Non si capisce che era invece l'unico stile appropriato al racconto in prima persona di Lou, tipica adolescente introversa ma curiosa, che in tal modo, senza retorica né inutili digressioni a margine, ci conduce per mano nel cuore della sua complessa amicizia per No, una vera occasione di crescita umana, per lei, che fa nascere un punto di vista più maturo sul mondo in cui vive, traversato da contraddizioni e squilibri sociali: e anche i suoi sentimenti per il coetaneo Lucas, all'inizio guardato come un sogno irrealizzabile, si cementano in questa sua nuova consapevolezza. Storia di un'iniziazione alla vita adulta, con le storture e i problemi di tutti i giorni, dunque: "Gli effetti secondari dei sogni" ha il merito di farceli vedere nella loro semplice ma schiacciante evidenza, così come appaiono a uno sguardo ancora puro, non corrotto dal cinismo e la rassegnazione degli adulti. In questo sguardo frontale, che pone domande che sembrano ingenue e sono invece cruciali, sta il pregio vero di un libro come questo. Consigliato.
Henning Mankell - "Scarpe italiane" (Marsilio, 2008) Un romanzo sorprendente, questo. Lo svedese Henning Mankell comincia a essere conosciuto anche in Italia come autore di gialli di ottimo livello, e mai banali (come "I cani di Riga" o "Prima del gelo"), ma in questo caso vira verso una vicenda di tutt'altro tipo, senza però deludere i suoi lettori abituali. Il protagonista del libro è Fredrik Welin, un maturo ex chirurgo che sembra giunto a un punto morto nella sua vita: qualche anno prima è stato radiato per un grave errore in sala operatoria, e ha deciso di ritirarsi a vivere s'una isoletta pressoché disabitata, nella casa un tempo abitata dai suoi nonni, circondato dal ghiaccio e dal silenzio. Unica piccola variante nei suoi giorni tutti uguali, divisi insieme a un gatto e un cane anch'essi malridotti, è l'arrivo periodico del portalettere Jansson, che spesso in realtà non ha nessuna posta per lui, ma vuole un suo parere sui propri malanni immaginari . Tra occupazioni minute, brevi escursioni tra il pontile e la casa, la vita di Welin scorre davvero congelata tra ricordi amari e un senso di colpa acuto, che riguarda anche gli anni più felici della giovinezza. A rompere questo cupo e immobile scenario è l'inopinato arrivo sull'isola di una donna amata in gioventù e poi da lui abbandonata senza un motivo, Harriet: vederla ormai vecchia e malandata, arrancare col suo deambulatore sul ghiaccio dell'isola, è un vero shock per Welin. Si accorge subito che la donna è gravemente malata, destinata a morire per un male incurabile, e questo alimenta il rimorso per il suo vile comportamento di tanti anni prima. Convinto che Harriet sia venuta solo per chiedergli ragione di quella fuga, Welin scopre invece, stordito e disorientato, di essere padre di una giovane donna che non ha mai visto. I due partono così per andare a trovare Louise, che vive in un villaggio dove sembrano essersi stabiliti molti personaggi bizzarri: girovaghi, solitari, artisti alternativi di vario tipo che preferiscono la vita lontano dalle città. L'incontro è emozionante, ma ricco di zone d'ombra, i due faticano a trovare un filo comune: un giorno Welin sceglie di andarsene dopo una discussione, e sembra ricadere nelle sue colpe. Invece, qualcosa è scattato dentro di lui, e a questo punto cerca e trova la bambina al quale per errore aveva amputato il braccio sbagliato, Agnes: è una donna che, con forza morale non comune, ospita in casa sua alcune ragazze senza famiglia di cui nessuno si occupa. Colpito, si accorge che la donna non lo odia più, e finisce per offrire a lei e alle sue ragazze un rifugio sull'isola. Anche i rapporti con Harriet e Louise si riannodano e padre e figlia, dopo un nuovo ricongiungimento, assistono amorevolmente alla morte dolorosa della donna. Nonostante tutto, non è la fine, ma forse l'occasione per Welin di fare pace coi suoi errori e occupare la sua vecchiaia in una nuova solidarietà verso gli altri. Il romanzo di Mankell spiazza all'inizio, turba per il rigore della rappresentazione di un male profondo e alla fine convince per la capacità di isolare un dramma psicologico fino al punto di rottura, per mostrare invece come ogni destino, apparentemente condannato, può riscattarsi e trovare nuove ragioni per vivere. Lo scenario dell'isola è davvero perfetto, senza concessioni alla retorica del contatto con la natura: quel ghiaccio è invece l'assedio ostinato di un acuto senso di colpa, che solo le donne della sua vita, da Harriet a Louise, fino ad Agnes, in qualche modo e per vie diverse, riescono a rompere, offrendogli l'occasione di riabilitarsi che incosciamente aspettava. Il tono stilistico è asciutto, sorvegliato eppure mobilissimo nello scandaglio di questo vuoto interiore e del profondo sforzo che richiede, a un uomo solo e privo di speranze, rimettersi in gioco quando tutto sembra ormai deciso. "Scarpe italiane" è davvero un libro denso d'interesse, scritto con notevole adesione psicologica ai personaggi, e che, nonostante tutto, fuga poco a poco ogni apparente pessimismo, pur attraversando senza sconti il gelo paralizzante di un'esistenza desolata. Consigliato.
Francesco Abate - "Così si dice" (Einaudi, 2008) Ogni tanto succede, almeno a me, che un romanzo ben scritto e costruito con indubbia perizia, non faccia scattare nessuna molla emotiva che ce lo faccia amare. "Così si dice" di Francesco Abate rientra proprio in questa categoria, anche se non si può certo liquidare come un brutto libro. Anzi. Lo scrittore di Cagliari propone qui un'altra avventura del suo già noto personaggio, il cronista Rudy Saporito, che si risveglia dopo ben undici anni da un coma che pareva ormai irreversibile. Prima c'è l'emozione di riaprire gli occhi e capire di essere sfuggito alla morte, riassaporare i colori, i suoni della vita e riconoscere, con un minimo di naturale incertezza, le facce amiche o familiari. Sembra tutto bello, anzi miracoloso, ma dura poco. Per cominciare Angela, fidanzata e poliziotta, gli ha dato una figlia che ormai ha dieci anni, ma adesso è sposata con un altro ed è diventata magistrato: già questa non è male come sorpresa, ma anche nel lavoro ci sono novità poco piacevoli per Rudy. Il suo vecchio collega, Filo, è ora il direttore del giornale dove lavoravano insieme e lo tratta perciò con un'alterigia che lo sconcerta non poco, facendogli subito capire che i rapporti tra loro sono completamente diversi. Per il miracolato, insomma, non ci sono che delusioni in serie, da sommare alla fatica di recuperare un'accettabile forma psico-fisica: a questo scopo viene affidato a un badante tuttofare, il moldavo Vadim, autista dalle insospettabili virtù, laconico quanto intuitivo. Sebbene a malincuore, deve accettare di ricominciare da zero, e viene trasferito dal direttore alla sede di Olbia, dove per un po' ha l'impressione di essere finito in un buco senza futuro, un posto per turisti dove sembra succedere ben poco di appetibile. L'incontro con la bellissima Gaia Sapegno, giovane donna bellissima e misteriosa, e il suo vecchio intuito di cronista di razza gli fanno invece indovinare con successo una pista che conduce dritto dritto al cuore di una vasta speculazione finaziaria che coinvolge gente altolocata dell'isola. Di mezzo ci sono i complicati rapporti con Angela, anche lei sulla stessa pista, e l'irrequieta figlia ancora sconosciuta, che gli danno comunque la forza e la tenacia per recuperare la grinta di un tempo e rifarsi con gli interessi su Filo e chi lo dava ormai per finito. Bisogna dare atto ad Abate che il suo romanzo non sfrutta affatto gli stereotipi più ovvi legati alla Sardegna, che ci viene raccontata invece in una chiave molto contemporanea e disincantata, lontana da ogni oleografia di comodo. Una terra dove si aggirano, come sul continente, affaristi senza scrupoli, politici rampanti e anche ridicoli, oltre a belle donne che si prestano al gioco più sporco senza battere ciglio. Lo stesso protagonista, Saporito, non incarna certo un'anima bella in questo quadro poco edificante: anche se sembrano tutti avercela con lui, per il solo fatto di non essere morto come pareva più logico, e verrebbe voglia di schierarsi dalla sua parte, l'autore non gli risparmia difetti e piccole meschinità caratteriali: un antieroe dei nostri tempi, si potrebbe dire. Ma questi, se sono da un lato i meriti del libro, sono anche, per paradosso, il suo limite: perché, per dirla tutta, non viene mai voglia di calarsi nei panni del cronista e farcela insieme a lui, come spesso accade coi libri più riusciti. L'insieme dei fatti narrati e l'intreccio tra i personaggi non si traducono che raramente in vero coinvolgimento, così che la vicenda ci scorre davanti senza appassionarci troppo. Non che si debba per forza fare del protagonista un eroe positivo a tutto tondo, ci mancherebbe: la grande letteratura popolare è spesso legata a personaggi discutibili e compromessi, che proprio dalla loro volontà di riscatto traggono il loro fascino "maledetto" che fa scattare il processo d'identificazione. Qui invece, secondo me, questo meccanismo istintivo col protagonista non scatta mai, come se le sue motivazioni a risalire la china non fossero sufficienti a entrare nel cuore stesso dei fatti narrati che lo riguardano, anche se rappresentati con apprezzabile realismo e discreto ingegno. Peccato.
Murakami Haruki - "Kafka sulla spiaggia" (Einaudi, 2008) Dopo una lunga attesa, dovuta a motivi che restano imperscrutabili, è finalmente disponibile anche in traduzione italiana l'ultimo romanzo firmato da Murakami Haruki, un autore che si è già affermato a livello internazionale con una serie di libri che recano inconfondibile l'impronta di un singolare talento. Chi ha letto ad esempio il ponderoso "L'uccello che girava le viti del mondo", o anche "Dance Dance Dance", solo per citare i più apprezzati, sa che Murakami sa unire come pochi altri scrittori odierni l'osservazione acuta per le realtà marginali e la prosa del quotidiano con aspetti meno comuni alla tradizione europea, come un certo gusto per il mistero e l'esoterico, spesso ai confini con quello che comunemente si definisce "fantasy". Una ricetta inconsueta, ma quasi sempre vincente. In "Kafka sulla spiaggia", l'estro narrativo dell'autore nipponico si sofferma s'una trama non meno singolare, e se possibile ancora più originale del solito. Tutto sembra originato da un misterioso svenimento di gruppo che vede protagonisti alcuni giovanissimi scolari in gita con la loro maestra: siamo nell'ultimo periodo della seconda guerra mondiale, in una remota località del Giappone. L'episodio, oggetto di minuziose indagini, resta inspiegabile secondo ogni logica. Ci spostiamo con un classico salto temporale ai giorni nostri, quando un giovane quindicenne che sceglie appunto come pseudonimo il nome dell'autore della "Metamorfosi", decide di fuggire di casa. Fugge, come apprendiamo nel corso del racconto, da un padre inquietante, un tenebroso temperamento di artista che non lo ama, e anche in cerca di una famiglia andata in pezzi: quando era piccolissimo sua madre e la sorella lasciarono la casa di famiglia per sempre. La sua peregrinazione, dopo aver conosciuto una ragazza lunatica ma ospitale, Sakura, si indirizza d'istinto verso una città lontana del Giappone. E' qui che trova prima rifugio e poi perfino lavoro in una biblioteca privata, dove conosce il gentile Oshima e la misteriosa signora Saeki, bella quanto distaccata, di cui s'innamora quasi subito. Parallelamente seguiamo le strane avventure di un anziano signore di nome Nakata, che confessa a tutti di essere stupido e totalmente analfabeta, ma in compenso possiede facoltà davvero peculiari: sa parlare con i gatti e intuisce prima degli altri l'arrivo di eventi davvero sorprendenti, come una pioggia di pesci. Dopo aver ucciso, quasi senza rendersene conto, proprio il padre crudelissimo del giovane Kafka, si mette in viaggio per portare a compimento una sorta di missione. Lo accompagna, da un certo punto in poi, un camionista schietto e istintivo, Hoshino, che rimane folgorato dallo strano vecchietto. Non è facile spiegare come, ma tutte queste tessere che procedono per un bel pezzo in maniera autonoma, si svelano lentamente come parti del medesimo mosaico: le lunghe digressioni di Murakami, ch'è un vero maestro nel riempire anche gli apparenti spazi morti di un racconto, danno modo al lettore di accomodarsi nel cuore del puzzle narrativo e scorgere via via più chiaramente i fili dell'ordito, ingegnoso e avvincente come sempre. La magistrale miscela di cui parlavo è portata qui al virtuosismo, ma con un'abilità straordinaria nel dosaggio dei singoli elementi che non fa mai avvertire certe intrusioni del fantastico, o il gioco delle coincidenze, come stonate nel contesto romanzesco. Proprio in questo equilibrismo sta il tocco inconfondibile di Murakami: dettagli del quotidiano e proverbi popolari, citazioni musicali e filosofiche, crudezza da film horror e sensualità avvolgente, compongono alla fine un disegno narrativo caldo e godibile, dove non si avverte mai la fatica dell'effetto studiato a tavolino, ma l'arte di un vero scrittore del nostro tempo, così contraddittorio e spiazzante come lo conosciamo tutti i giorni. Probabilmente ci sarà anche chi troverà il tutto poco più di un sapiente "divertissement": e allora? Il divertimento, o meglio l'intrattenimento, è un'arte tutt'altro che minore, anche in letteratura. Se poi è l'espressione di un talento così spiccato e maturo, come quello confermato qui da Murakami, è davvero un'autentica delizia che soprattutto ha il pregio non comune di farci guardare il mondo di sempre con occhi diversi. Consigliato.
Takahashi Geni'ichiro - "Sayonara, gangsters" (BUR, 2008) La letteratura giapponese, sonnolenta e molto classica per lungo tempo, continua a dar segni negli ultimi anni di grande vitalità: scrittori come i due Murakami (Haruki e Ryu) e il qui presente Takahashi, rivelano un panorama in continua evoluzione e ricco di sorprese. "Sayonara, gangsters", in realtà, è il romanzo d'esordio dell'autore, datato 1982, e ora riproposto dalla Rizzoli. Nonostante i venticinque anni trascorsi, si tratta di un libro scoppiettante la cui stessa classificazione pone diversi interrogativi a chi deve parlarne. Trattasi forse di novella postmoderna? Romanzo pop composto sotto effetto oppiaceo? O fumetto in prosa, magari? A parte gli scherzi, cominciamo piuttosto a delineare cosa ci propina Takahashi nel suo libello, anche se, mi rendo conto, si avrà l'impressione di un elenco scarsamente coerente e anzi decisamente bizzarro, ma tant'è. All'inizio, in un tempo che potremmo identificare in un futuro abbastanza vicino, ci sono due amanti che scelgono di donarsi un nome a vicenda: lui si chiamerà appunto "Sayonara, gangsters", e lei invece "Nakajima Miyuki Song Book". L'importanza di questo atto iniziale ci dice già qualcosa sul senso di quest'opera: le parole, i nomi, le citazioni, in generale il gusto della parodia e del pastiche è forse il vero motore del mondo letterario di Takahashi, o se preferite, il suo divertimento principale. Insieme ai due amanti, comunque, conosciamo anche un gatto grosso, nero e piuttosto scostante di nome Enrico IV, che non mostra minore personalità dei due amanti, ha i suoi gusti e le sue idiosincrasie. Lui, "Sayonara, gangsters", insegna comunque in una scuola di poesia, e anche se pare vergognarsene deve misurarsi con gente di tutti i tipi che ambisce a "imparare" la poesia. Tra i tanti, a un certo punto, arrivano anche quattro gangsters dai modi rudi e il protagonista si cimenta appunto nell'impresa di spiegare a quelle anguste menti, direbbe Leopardi, cosa sia realmente l'arte di fare poesia. Immaginabili gli effetti e le topiche. Saltando di palo in frasca, senza curarsi troppo di rispettare un filo logico, il nostro eroe racconta di una figlia di nome Cumino alla quale un giorno il comune, porgendo in anticipo le sue condoglianze, fa sapere con esattezza il giorno della morte: così si usa. Il padre la prende e seguendo le rigide istruzioni municipali la porta al camposanto dei bambini morenti, dove potrà depositarla. Ecco, di queste invenzioni, un tantino macabre eppure narrate con tono piuttosto asciutto e nessuna enfasi particolare, è costituito il libro di questo scrittore follemente visionario. C'è un lato onirico molto forte che ammanta tutta la sbilenca narrazione e ci fa entrare nell'atmosfera del libro come dentro un paesaggio allucinatorio, ma senza allarme, semmai ipnotizzati e stupiti da quello che veniamo a sapere, e anche dal tono dell'autore: si uccide in modi sanguinosi e oltraggiosi, ma i morti possono parlare anche dopo defunti; si citano versi e canzoni pop, film di culto e fumetti manga con precisione filologica; c'è un frigorigero che dice di chiamarsi Virgilio Marone; c'è il gatto Enrico IV che cade in depressione e vuole solo leggere i racconti Thomas Mann; e c'è il povero protagonista che, non trovandone copia, scrive lui come (difficilmente) scriverebbe lo scrittore tedesco per far contento l'esigente felino. Insomma, c'è tanta roba in questo libro, e probabilmente è inutile stare a sindacare se ce ne sia troppa perché tutto si regga logicamente. La logica e il senso comune, l'avrete capito, non sono affatto in cima ai pensieri di Takahashi e chi vuole leggere "Sayonara, gangsters" deve deporre in un angolo ogni pregiudizio sulle regole codificate di un "vero" romanzo. Deve immaginarsi al contrario un mondo dove i sogni, il paradosso e il piacere di prendere in giro ogni norma e stereotipo regnano sovrani: nel mondo di Tajahashi, come si dice a un certo punto, "non è affatto facile essere nella media", dato che tutto è grottesco, delirante, fantastico. Allora, solo allora, il lettore correrà seriamente il rischio di divertirsi con gli improbabili, teneri e assurdi personaggi inventati dallo scrittore giapponese. E soprattutto, una volta entrato nello spirito che domina queste pagine ineffabili, gli sarà davvero difficile uscirne. Siete avvertiti.
John Updike - "Villaggi" (Guanda, 2007) Autori come John Updike, tra i più noti e quotati esponenti della letteratura americana, scrivono romanzi che ogni volta sembrano racchiudere un ritratto, o meglio un'idea complessiva di un paese come gli Stati Uniti, talmente vasto e ricco di variabili da riuscire ancora sorprendente. In "Villaggi", Updike si cala nel personaggio di Owen Mackenzie, un uomo già vecchio che ripercorre le tappe della sua vita. A fare da collante nel suo itinerario attraverso l'immensa provincia americana, fatta appunto di quieti villaggi dall'aria sonnolenta, sono soprattutto le donne: sia le due mogli che le diverse amanti, scandiscono le tappe di un'educazione sentimentale e sessuale che s'intreccia fatalmente con l'evoluzione del clima sociale e del costume. E' molto significativo che Owen, che viene da una famiglia molto tradizionale e per niente moderna, sia uno dei pionieri della cultura tecnologica americana del dopoguerra: gli studi severi e i primi esordi nel campo del software informatico, con alcune aplicazioni per aziende e poi anche per la gente comune che gli assicurano un certo benessere, gli regalano anche una moglie come Phyllis. Di estrazione altoborghese diversa dalla sua, anche lei è per Owen una conquista sociale, ma il loro matrimonio non avrà sempre il conforto di una piena intesa. Proprio dal punto di vista sessuale, specie dopo la nascita dei figli, Owen cerca e trova altrove la passione che sua moglie non può dargli. Inizia qui, con Faye, la serie di compagne clandestine che affiancheranno il suo legame matrimoniale, con Phyllis che ignora o finge d'ignorare i suoi tradimenti, per certi versi accomunati da una sorta di paradossale fedeltà. Si tratta infatti di lunghe relazioni che assumono spesso l'apparenza di una vita coniugale alternativa, dominata però dall'elemento erotico e sempre caratterizzato dalla personalità delle singole donne. Rispetto dei ruoli e ipocrisia si tengono a braccetto nel racconto di questi incontri clandestini, anche se a cavallo degli anni Sessanta, con l'avvento di una moralità più libera, le carte si scompaginano e i nodi vengono al pettine, come per naturale forza d'inerzia: Owen decide finalmente di divorziare per sposare Julia, moglie di un pastore, e il gesto sarà un colpo mortale per Phyllis. Il disincanto col quale Updike guida la narrazione ha in sé il fascino dell'esperienza vissuta, che permea ogni evento di valore mentre lo raffredda dietro il velo della distanza temporale. Il tono si ammanta di sottile malinconia, specie per la verità effimera ma unica del piacere sessuale, visto come una forma di conoscenza intima e irripetibile, che sbiadisce lentamente col declino fisico. C'è una morale in questo libro di Updike? A un certo punto, nella loro ultima discussione, Phyllis dice a Owen che il suo vero fascino sta nel fatto di non essere mai cresciuto veramente. Ecco il punto. "Villaggi" è un romanzo che si legge a più livelli, e dove il sesso non è soltanto quel che appare in superficie nella schietta prosa di Updike, asciutta e mai stilizzata. E' soprattutto un modo per sopravvivere alla gabbia delle false certezze adulte, e forse l'unico elemento di verità, imprevedibile e animale, estraneo alla serialità del villaggio globale tecnologico. O per dirla altrimenti: l'ultima forma di paradossale innocenza rimasta agli uomini ai tempi del "virtuale".
Pietro Grossi - "L'acchito" (Sellerio, 2007) Al secondo libro dopo i racconti di "Pugni" (2006) il fiorentino Pietro Grossi mostra decisamente una buona stoffa di narratore. Nonostante la giovane età (classe 1978) l'autore sembra riecheggiare modelli romanzeschi piuttosto classici, con un ritmo e uno stile cesellati con cura intorno al nucleo pensoso delle sue storie. La vicenda di "L'acchito" ha i tratti, non dichiarati ma evidenti, di un'Italia ancora a misura d'uomo, dove ogni innovazione lascia pesantemente il segno all'interno d'un mondo dai riferimenti ancora molto solidi. Così quando a Dino, che lavora come operaio a lastricare le strade della sua città con una squadra di affiatati colleghi, dicono che sta per arrivare l'asfalto in sostituzione dei vecchi ciottoli, sembra che tutto possa finire da un momento all'altro. Infatti gli operai che sono con lui da sempre, giovani o anziani, reagiscono in modi diversi alla novità: qualcuno accetta di adeguarsi, ma c'è anche chi decide di andarsene in pensione. Dino cerca di adattarsi al nuovo tipo di lavoro, ma la repulsione è troppo forte e solo a questo punto pensa di mettere a frutto quella che per lui è sempre stata soltanto una passione: il biliardo. Da anni infatti, dopo il lavoro e prima di rientrare a casa dalla moglie Sofia, con la quale fantastica da anni di fare viaggi mai intrapresi, passa le ore a imparare i segreti del tavolo verde dal più esperto Cirillo. E' proprio lui che, notando la sua voglia di uscire da un ruolo che non riconosce più, gli suggerisce di partecipare a un torneo. Vinto così il primo premio, con una facilità quasi irrisoria, Dino continua a raccattare allori e soldi, finché decide che può lasciare il lavoro senza troppi problemi economici, nonostante il primo figlio in arrivo. Non tutti però hanno la stessa possibilità, come il Biondo, uno della sua vecchia squadra che si è messo nei guai nelle violente manifestazioni contro il Comune e che lui riesce a far uscire di città per sfuggire alla polizia. E' proprio dopo questa impresa, però, che la sua vita deve affrontare la sua prova più difficile, come a dimostrare che, in realtà, nessun equilibrio dura mai davvero uguale a se stesso. Scandito dal passo lento e ispirato di una prosa levigata con pazienza, senza forzature o inutili digressioni, il romanzo di Grossi distribuisce sapientemente gli snodi drammatici della storia di Dino, utilizzando a dovere le metafore ispirate dal gioco del biliardo: quel gioco, appunto, dove l'acchito del titolo serve a scegliere il giocatore cui spetta il primo colpo della partita, e che richiede anni e anni di esercizio perché la palla torni quasi al punto di partenza. Solo quasi, però, come Dino impara a sue spese, e in quello scarto infinitesimale sta la morale del romanzo. I personaggi sono tratteggiati con grande cura, così come i dialoghi, laconici e circondati sempre da un alone di non detto che in fondo fa la forza del racconto, riuscendo a catturare l'attenzione fino all'ultimo. Notevole soprattutto l'atmosfera, torpida e quasi immutabile, che l'autore ha saputo creare intorno al mondo del biliardo: quasi un cono di luce che contiene, nei suoi limiti circoscritti e invalicabili, le sole regole veramente fisse del gioco. Il resto invece è vita.
Daniel Kehlmann - "È tutta una finzione" (Feltrinelli, 2007) Feltrinelli ripesca dal passato la prima opera di Daniel Kehlmann, pubblicata con grande successo in Germania nel 1997: a ragione, perché anche qui il talento di questo autore viene riconfermato, anche se con qualche piccola sbavatura a margine. La storia è quella di Arthur Beerholm, giovane che scopre molto presto di essere un figlio adottivo e accetta la cosa con una certa naturalezza, affezionandosi alla madre che lo cresce. Alla sua morte assurda, folgorata da un fulmine mentre stende il bucato, il ragazzo resta solo con il vecchio marito della donna, un uomo spento e gentile, per il quale non ha nessun trasporto affettivo. Dopo poco tempo, quando ha dieci anni, il vecchio sposa la governante e decide di mandarlo in collegio: Arthur capisce solo a questo punto, nel contatto con gli altri compagni, di essere un tipo particolare. Molto ingenuo e candido in alcune cose, non molto portato per fare comunella con gli altri coetanei, e ancora in cerca di qualcosa che lo sollevi dal grigiore della vita collegiale. Sembra trovarla appunto nella scoperta della magia, un noioso pomeriggio nel quale un suo compagno prova con lui un gioco di carte che non riesce: Arthur capisce rapidamente il trucco ed è lui che lo mostra all'amico stupito. La sua fama si sparge e il direttore dell'istituto organizza uno spettacolo dove tutti applaudono la sua abilità, ma qualcosa, una critica isolata che smaschera i suoi trucchi, lo turba tanto da fargli passare ogni voglia di cimentarsi ancora con la magia. Passato a studiare Teologia, per un certo periodo crede di trovare pace in questa dimensione più spirituale, ma non dura molto: una sera, quasi per caso, entra in un teatro scalcinato e assiste all'esibizione di Jean van Rode, celeberrimo illusionista che lo lascia a bocca aperta, quasi in stato di trance. Subito dopo, abbandona gli studi teologici e una volta per tutte si convince di dover diventare un mago. Si perfeziona in solitudine con grande rigore, ma solo dopo che lo stesso Van Rode, colpito dalla sua determinazione, accetta di fargli da maestro, riesce a fare il grande salto. In poco tempo, uno spettacolo dopo l'altro, la sua fama cresce e Arthur diventa una vera star, amato dal pubblico e dai media. Il suo impresario lo spinge a lunghe tournée affollatissime e ben remunerate, finché un giorno si accorge d'aver varcato un confine pericoloso: ormai ha l'impressione che la semplice forza del pensiero gli permetta tutto, con uomini e cose. Non gli resta che evadere dal suo ruolo per non impazzire, e rientrare poco a poco nell'anonimato, fino alle conseguenze più estreme. La vicenda è immaginata da Kehlmann come un lungo flashback del protagonista, in procinto di compiere uno spettacolare gesto finale di rinuncia, e rivolto in forma di lettera a una donna misteriosa, forse immaginaria. Il dono di una prosa che sembra leggera e scorrevole, quando invece dissemina con puntiglio i sintomi di un disagio progressivo, è ciò che meglio caratterizza il libro di Kehlmann. Si avverte chiaramente lo spessore di uno scrittore che nasce filosofo, e che traduce con elegante sobrietà gli spunti più provocatori della sua visione del mondo. A volte, magari, questa apparente facilità narrativa può risultare sfuggente, quasi mancasse di adeguata forza rappresentativa dal punto di vista propriamente letterario: ma è un limite che rimanda alla formazione di Kehlmann, superato abilmente nelle opere più recenti. Qui, nella parabola di Arthur, in bilico tra religione e magia, sembra comunque che l'autore esordiente abbia voluto insinuare che per l'uomo moderno non esiste una vera possibilità di appagamento, nelle forme sociali consentite, di quel buco interiore che lo divora. Il talento, la più grande celebrità mediatica o la ricchezza, non servono a circoscrivere un'insoddisfazione profonda che nasce forse da una carenza di senso e di autenticità, anche affettiva: nel cinema di Antonioni si chiamava alienazione, e l'impressione è che il tormentato Arthur sia un suo tragico epigono, bruciato da un tempo ancora più effimero e vorticoso dove tutto, davvero, è solo una finzione.
Stephen Wright - "Amalgamation polka" (Einaudi, 2007) A metà tra il racconto di formazione e il romanzo storico, Stephen Wright ci offre in questo suo ultimo libro una sorta di viaggio a ritroso nel peccato originale americano. Lo scenario infatti è quello, arcinoto, della guerra civile americana tra gli stati schiavisti del sud e quelli abolizionisti del nord più ricco ed evoluto, ma in questa cornice risaputa lo scrittore fa risuonare note diverse di grande interesse. La vicenda del protagonista, chiamato non per caso Liberty, è in realtà l'ultimo anello di una storia emblematica che vede sua madre Roxana, nata e cresciuta in una ricca famiglia della Carolina, ribellarsi e fuggire di casa per sposarsi al nord con Thatcher, un convinto abolizionista. Il piccolo protagonista cresce all'ombra di queste memorie materne spesso traumatiche, che periodicamente instaurano in casa un clima pesante, fino a quando, scoppiata effettivamente il conflitto tra le due fazioni, si arruola senza esitazioni nelle file dell'esercito nordista, sperimentando la cruda realtà bellica sul campo. Verso la fine della guerra, trovandosi non molto distante dalla regione nativa della madre, decide di rintracciare finalmente la casa dei nonni che non ha mai conosciuto e sui quali ha sempre favoleggiato. Scopre due anziani coniugi che lo accolgono in maniera contraddittoria, tra rancori per la figlia ribelle e stupore genuino: il nonno, in particolare, paranoico e visionario schiavista, si dedica da anni a un assurdo progetto che dovrebbe "sbiancare" il colore della pelle dei neri. Intanto però la vecchia casa è praticamente in rovina, con la servitù di colore che in gran parte si è data alla fuga, così che quando giunge notizia che i federali si stanno avvicinando, il vecchio Asa decide di fuggire: Liberty, ancora scioccato per quanto ha visto, si unisce a lui, insieme a un vecchio servitore nero e Tempie, una ragazza ridotta a mero strumento dei folli esperimenti del nonno. Il viaggio per mare, tra incidenti e battibecchi tra Liberty e il suo avo sempre più indisponente, sancisce soprattutto l'abissale distanza tra i due, e lascia intravedere solo alla fine, dopo tanti orrori, una timida speranza per il futuro. Quello di Wright è un romanzo picaresco, una sorta di epica immersione tra i mutevoli aspetti dell'anima americana colta nel suo massimo momento di divisione. In realtà, la scrittura vivace, fertile d'invenzioni e paradossi che rendono la narrazione sempre godibile, nell'impasto tra il registro grottesco e quello più realistico (le battaglie, la desolazione dei paesaggi sconvolti), non impedisce allo scrittore di far balenare in controluce quello che pare il suo vero punto di vista: e cioè che in quel conflitto epocale, ancora vivo nello spirito americano, si annidi la radice della complessità e anche dei mali che caratterizzano gli Stati Uniti che conosciamo. Il seme del razzismo, cresciuto all'ombra del mito di una terra libera e generosa, dove tutti hanno diritto a costruirsi la vita che vogliono, non ha smesso infatti di lacerare la società attuale, sia pure in forme più subdole e sofisticate che in passato, ma appunto per questo più profonde. Comunque sia, "Amalgamation polka" è un racconto dalla vena fluente e dalla mano felicissima: uno di quei libri che intrattengono e stupiscono per la varietà delle situazioni, mentre al tempo stesso si chiarisce come ogni episodio componga un quadro unitario di riflessioni niente affatto banali sull'America e le sue contraddizioni, di ieri e di oggi.
Errico Buonanno - "L'accademia Pessoa" (Einaudi, 2007) Il romanzo ambientato nel mondo elitario e a volte oscuro dei cosiddetti bibliofili ha sempre il suo fascino, rinverdito negli ultimi anni da numerosi esempi del genere, spesso premiati dal successo e con appendici anche al cinema. Questo nuovo libro di Errico Buonanno (Roma, 1979) sceglie però un'angolazione inconsueta: ipotizza cioè una sorta di maledizione della letteratura stessa ai danni di chi, dopo averne sperimentato le nefaste suggestioni, vorrebbe decretarne la fine. Il romanzo è ambientato in una città come Montevideo, dove si muovono personaggi legati a diverso titolo al mondo editoriale della capitale uruguagia: uno è Hamete Benengeli, nano ed esperto traduttore di origine marocchina, per voce del quale veniamo introdotti, con un agile flashback, all'inizio di questa congiura singolare. A monte c'è il fatidico blocco dello scrittore che Alonso Novarro, appena ritrovato suicida nella sua casa, aveva visto come il segno infallibile di un destino, anzi di una missione da perseguire: la vita, che osservava con Benengeli nei variopinti caffé della città, era davvero irrappresentabile e la letteratura, se si azzardava a farlo, la impoveriva miseramente. Da quel momento aveva ideato una sorta di segreta associazione dedita esclusivamente a scoraggiare ogni interesse per i romanzi e la scrittura creativa. Novarro si era dedicato così al plagio: aveva cioè ricopiato, assorbendone lo stile, i capolavori della letteratura universale per riscriverli poi come sue opere originali. Ovviamente, un modo per dimostrare una volta di più che niente di nuovo si può produrre e che, soprattutto, da un certo punto in poi la letteratura è solo un immenso plagio. L'accademia Pessoa, non a caso intitolata a colui che dietro il ricorso ai suoi celebri "eteronimi" celava forse la vergogna di essere scrittore, aveva quindi iniziato a reclutare i suoi adepti tramite annunci, incontri casuali ma significativi, e uno stretto giro di conoscenze: lo scopo era appunto quello di disincentivare l'interesse per il romanzo e ogni ambizione creativa. Ognuno, si capisce, perseguiva lo scopo secondo i suoi mezzi: così Benengeli, ad esempio, occupato come lettore editoriale non faceva che stroncare, col massimo garbo ma implacabilmente, ogni nuovo dattiloscritto gli venisse proposto. Il complotto si allarga silenziosamente, ma qualcosa a un certo punto non torna. La moglie di Novarro, Miranda, dopo la sua morte si accorge che in realtà lo stesso Alonso aveva cominciato a lavorare a qualcosa di inconsueto: non il solito plagio, ma addirittura l'aggiunta di un nuovo capitolo, inesistente nell'originale, dei "Promessi sposi" di Manzoni. Benengeli è scettico, ma i suicidi di altri complottisti si susseguono, come anelli di una stessa catena: erano anche loro parte di questo nuovo progetto che smentiva il giuramento dell'accademia? Si potrebbe concludere, allora, che si sono uccisi appunto per lo sconforto di essere ricaduti nell'antico vizio d'inventare storie. O forse le cose sono ancora più complicate. Denso di implicazioni e scritto col gusto delle citazioni più beffarde, spesso abilmente camuffate, che solo un vero amante della letteratura può nutrire, "L'accademia Pessoa" è un romanzo avvincente, nonostante il finale del thriller riveli un vertiginoso meccanismo di scatole cinesi e la vicenda principale, tra l'altro, sia affiancata da un fantasioso racconto sul traduttore uruguagio dei "Promessi sposi". L'idea di fondo, quello di una congiura contro l'arte del romanzo ordita da un gruppo di scrittori consapevoli del proprio fallimento, è indubbiamente potente e ben sviluppata da Buonanno: dietro i ritratti e le massime che corrono tra i suoi personaggi, si sente il tono divertito e il disincanto di chi conosce per diretta esperienza ciò di cui parla. Inoltre lo stile asciutto e sapido, mai prolisso, agevola un racconto che, viste le premesse, poteva rischiare di smarrirsi in una nube di polverose riflessioni e invece regala la giusta dose di suspense senza rinunciare alle sue considerazioni. Il libro è davvero consigliato, e il suo autore da seguire con interesse.
Francesco Recami - "Il correttore di bozze" (Sellerio, 2007) L'ambiguità della convenzione letteraria oggi, vista da un'angolazione insolita e solo apparentemente periferica, è il tema di questo romanzo di Francesco Recami (Firenze, 1956), autore che in precedenza si è cimentato anche in un paio di libri per ragazzi. Qui, attraverso la figura di un correttore di bozze, sembra abbia voluto affrontare una serie di riflessioni che mettono in gioco soprattutto il rapporto tra gli strumenti per certi versi immutabili della letteratura e la realtà esterna all'oggetto libro che si fa complessa e sfuggente, forse inafferrabile. L'inizio è volutamente ingannevole: quel che leggiamo infatti è solo il libro "nel" libro, cioè le bozze del racconto che il correttore si trova davanti come tante altre volte, pronto a scandagliarlo in superficie per emendarlo di refusi d'ogni tipo. Il suo punto di vista è quello d'un professionista di lungo corso, dunque abituato a considerare un testo non nel suo valore emotivo, ma solo come oggetto ancora imperfetto che il suo occhio clinico e neutro dovrà ripulire prima che venga avviato alla stampa. Lui è consapevole di questo, ma stavolta le cose vanno diversamente: il testo ha dei livelli diversi, con alcuni blocchi zeppi di refusi evidenti, e altri stranamente perfetti, come già rivisti. Nel correttore, lentamente, comincia a insinuarsi il sospetto che qualcosa gli stia sfuggendo, come se qualcuno gli avesse teso una trappola. È proprio a questo punto che alle singole parti del romanzo che sta correggendo si sovrappongono, in una sorta di puzzle, ricordi di esperienze precedenti, come alcune discussioni in redazione e critiche non pertinenti che lo hanno ferito. Forse qualcuno vuole vendicarsi di lui in questo modo subdolo? La storia stessa che faticosamente sta correggendo gli sembra incoerente e ambigua: una donna matura abbordata da un gigolò in un supermercato che poi, quando capisce d'essere caduta in trappola per essere ricattata, scompare misteriosamente: prima reclusa e poi uccisa orrendamente. Le indagini che seguono si trovano davanti indizi inspiegabili, che anche a lui, ormai catturato nel gioco narrativo, paiono senza soluzione logica, come slabbrature di un senso comune andato in pezzi: l'errore e il caos appartengono alla stessa materia narrativa, e non più soltanto al livello superficiale del testo da correggere. Tra dubbi, crisi e ripensamenti, il lavoro va comunque portato a termine entro la scadenza prevista, e questa è davvero l'unica certezza, il solo punto fermo obbligato che rimane al protagonista. "Il correttore di bozze" è un libro molto ambizioso, anche nella concatenazione del racconto ideato da Recami. Ha il merito indubbio di assorbire nel punto di vista del suo protagonista problematiche attinenti il lavoro letterario, affrontate per così dire dall'interno, da quel livello solitamente ignorato e invece, a ben guardare, perfino rivelatore, che è l'officina stessa del testo. Il problema semmai è nel montaggio del racconto, che volutamente gioca sull'ambiguità dei due piani, quello delle bozze e quello psicologico del correttore, con un conseguente effetto di spaesamento del lettore che dovrebbe aiutarlo a catturare, di riflesso, il grado alienante del lavoro editoriale. Recami dà prova d'ingegno e sottigliezza, ma il rischio è che l'ambiguità organica del suo romanzo si conservi, fino alla perplessità, anche a lettura ultimata. Magari era questo che voleva comunicarci, d'accordo, ma seppure è vero che forma e contenuto devono andare di pari passo, il disordine che invade l'universo mentale del correttore richiedeva forse, per giungere limpidamente a segno, un maggiore sforzo esplicativo nella struttura stessa del romanzo, che scivola a volte in un gioco di sovrapposizioni compiaciuto e un po' meccanico. Pur con questo limite, comunque, l'opera è interessante per i molteplici spunti di riflessione che sa offrire.
Jonathan Coe - "La pioggia prima che cada" (Feltrinelli, 2007) Le qualità di Jonathan Coe, scrittore inglese ormai molto apprezzato anche in Italia, sono note: un gusto del ritratto generazionale condotto con ironia e fatalismo, abile a catturare gli scherzi del tempo e il gioco del caso sullo sfondo della società inglese. Con quest'ultimo romanzo, invece, Coe cambia direzione, spiazzando le attese. Già il passaggio alla narrazione in prima persona, sia pure parziale, denota una voglia di novità da parte dello scrittore, finora attestato sull'uso piuttosto "classico" della terza persona. Ma è il contenuto stesso del libro che dirotta l'attenzione verso un territorio nuovo e più intimo, vale a dire il mondo femminile. Il pretesto narrativo è la morte della vecchia zia Rosamond, la classica parente isolata e un po' stramba, della quale per anni ci si dimentica, che ha diviso la sua eredità tra la nipote Gill, l'altro nipote David e una certa Imogen. Il romanzo, in un certo senso nasce proprio dalla misteriosa identità di questa Imogen: chi è? Gill e gli altri familiari faticano a ricordarsi di lei, una bambina cieca ospite d'una vecchia festa di compleanno, poi scomparsa nel nulla. Eppure, adesso bisogna rintracciarla, ma come? Magari ascoltando le numerose cassette audio che a quanto pare zia Rosamond ha inciso prima di morire: forse è lì la traccia che porterà fino a Imogen, pensa Gill, e così, insieme alle sue figlie già grandi, Elizabeth e Catharine, nell'arco di una giornata viene finalmente a conoscenza di una sorprendente storia umana, narrata dalla voce della vecchia zia negli ultimi momenti della sua vita. E' appunto alla piccola Imogen che da tempo non dà più notizie, che Rosamond ha voluto raccontare per filo e per segno da dove viene, chi era sua madre, la sbandata Thea, e tutto quello che può spiegarle di una famiglia per niente banale. Per farlo senza essere troppo pesante, ha scelto un metodo singolare: venti fotografie di famiglia, scelte con cura, che scandiscono il passaggio del tempo e arrivano fino a lei. Siccome Imogen è cieca e non potrà comunque vederle, le descriverà nei minimi dettagli, lasciando la memoria libera di riandare al periodo e alle diverse occasioni di ogni singolo scatto. Ecco dunque che Gill e le sue figlie, prima solo incuriosite e via via sempre più ipnotizzate dal racconto registrato dalla zia Rosamond, vengono a conoscenza di una vita sentimentale complessa, segnata anche dalla sua diversità sessuale, e di altre storie che hanno incrociato la sua, fino a dipingere un quadro familiare ricco e sorprendente. Il risultato è un romanzo tutto al femminile, nel quale il pretesto narrativo, che all'inizio può apparire un po' fragile e ripetitivo, viene rimpolpato gradualmente dall'indubbia abilità di Coe, capace di focalizzare anche nel dettaglio le più intime pieghe di una difficile educazione sentimentale, che passa per delusioni, speranze e scoperte che lasciano il segno. In questo racconto sotto il segno delle donne, con gli uomini che appaiono molto defilati anche per l'orientamento saffico di Rosamond, Coe non ha certo idealizzato la figura femminile: al contrario ce ne mostra i lati più diversi e spesso urticanti, attraverso personaggi come Rebecca o Ruth, compagne di Rosamond, fino a Thea, madre totalmente priva d'istinto materno che non sa amare Imogen come dovrebbe e rovina se stessa e la figlia. La donna secondo l'autore inglese è un mondo sfaccettato, perfino ermetico per il punto di vista maschile, comunque ricco di passioni e slanci nel bene come nel male. Proprio le figure più controverse del racconto, però, patiscono quello che agli occhi dell'autore è il vero peccato capitale: la mancanza di affetto vero per i figli, che a loro volta non potranno essere genitori affidabili. Un doloroso circolo vizioso, che spiega anche la nota pessimistica del finale. Meno divertente del solito, e forse anche meno brillante nello stile, "La pioggia prima che cada" è un romanzo comunque intenso e pieno di domande, che conferma di fatto la personalità di un autore come Coe, anche in presenza di quella che probabilmente è una nuova fase del suo lavoro di scrittore.
Pablo Tusset - "Nel nome del porco" (Feltrinelli, 2007) Lo spagnolo Pablo Tusset (Barcellona, 1965) tiene fede alle promesse del suo libro precedente, il delizioso "Il meglio che possa capitare a una brioche", e ci regala stavolta un giallo davvero poco convenzionale. Sappiamo tutti che il giallo è oggi un genere di fortissima attualità, e spesso inflazionato, ma scrittori come Tusset dimostrano come ogni etichetta sia solo un contenitore vuoto, che può riempirsi di contenuti anche molto diversi. In un mattatoio situato nei pressi d'una sperduta località di montagna, San Juan del Horla', viene rinvenuto il cadavere in pezzi d'una donna, sezionata proprio come i maiali che arrivano ogni giorno per essere macellati. Del caso s'interessa inizialmente, con un sopralluogo sul posto, il commissario Pujol, ormai prossimo alla pensione, che sta vivendo la classica fase di insofferenza per la propria vita fatta di abitudini fisse e pochi imprevisti. In quei giorni, quasi per gioco, comincia a frequentare un negozio di dischi, lasciandosi consigliare sulle nuove tendenze musicali, e meditando di cambiare un po' il proprio look troppo serio. Con sua moglie Mercedes, decide perfino di rimettersi in costume e tornare al mare, dove hanno una piccola casa, dopo molti anni, e insieme riassaporano una sorta di romantico idillio. Mentre lavora al caso della donna uccisa, insomma, il commissario comincia a fare progetti per il suo futuro, una volta andato in pensione. Il caso del mattatoio, nel frattempo, è stato affidato a un quarantenne agente di polizia, Tomas, che Pujol considera quasi un figlio: il suo incarico è di fingersi uno straniero di passaggio nel paesino tra i monti in cerca di lavoro, e quindi, una volta accettato, indagare in segreto sui vari sospetti segnalati dai colleghi che hanno svolto le prime indagini. Tomas è un bravo agente, ma anche un tipo complicato, con un'infanzia non facile alle spalle, e una certa tendenza alla depressione. Proprio per questo, per cambiare vita, ha pensato di trasferirsi a New York. Qui ha conosciuto Suzanne, e tra i due sembrava andare tutto per il meglio, finché la ragazza lo ha lasciato senza una spiegazione. Solo una volta partito per la nuova missione, nella realtà inizialmente ostile di San Juan del Horla', Tomas avrà modo di scoprire non tanto la verità sull'omicidio del mattatoio, ma sulla grave schizofrenia che lo perseguita e lo induce a improvvise violenze che poi non ricorda. Scritto con un gusto quasi sfacciato delle divagazioni, il romanzo di Tusset cattura subito nelle sue cadenze tranquille mentre, in modo sornione, semina astutamente per strada le tessere del puzzle che gli interessa comporre: non il nome dell'assassino, come sarebbe ovvio per un giallo classico, ma del male oscuro che perseguita Tomas e lo porta a rovinarsi la vita nel nome di una doppia personalità devastante. La convivenza di un caso psichiatrico da manuale con il brioso registro dei dialoghi, dominati da un vivace umorismo, riesce davvero efficace e solleva il romanzo in una dimensione molto originale, che cattura senza sforzo nel suo meccanismo. Piace, soprattutto, il contrasto tra l'aspro realismo dell'indagine sul delitto, ricostruito nelle prime pagine senza sorvolare sui dettagli più neri, e il ritratto divertito della dimensione casalinga di Pujol. Anche qui, niente finisce come sembra, ovviamente, ma il lettore non avrà modo di lamentarsene: la ricetta letteraria di Tusset, per fortuna, è abbastanza saporita da consolare il palato più esigente e sensibile. Un libro consigliato.
Sandro Veronesi - "Brucia Troia" (Bompiani, 2007) Onestamente non so bene come valutare questo libro. Sandro Veronesi è un autore importante della letteratura italiana, e ha scritto fin qui romanzi molto riusciti. "Brucia Troia" però è qualcos'altro: lo stesso scrittore, in una nota introduttiva, ci fa sapere che si tratta di uno di quei libri rimasti vent'anni nel cassetto, periodicamente tirati fuori per qualche modifica, e poi nuovamente lasciati ad aspettare. Finalmente arriva l'ora della pubblicazione, e il risultato è un'opera abbastanza controversa. Per cominciare, la lunga e faticata genesi del libro è evidente nella particolare struttura del racconto: invece che un vero intreccio, infatti, abbiamo di fronte una sorta di giustapposizione tra episodi e personaggi, che solo tangenzialmente sembrano collegati tra loro. Sta di fatto che alla base di tutto c'è un brefotrofio situato in un quartiere periferico di una città imprecisata, con a capo padre Spartaco, battagliero e a suo modo infaticabile come il nome che porta: si occupa ovviamente dei trovatelli ospiti dell'istituto, con una severità che sembra il rovescio della sua fede appassionata. Non tutti i ragazzini accettano i suoi metodi, ad esempio Salvatore, che un bel giorno scappa e trova rifugio in una zona di case miserabili, che tutti conoscono come Il Cantiere. Qui, dove si arrangia una povera umanità di emigrati e sbandati senza posto nella società del tempo, cioè la metà degli anni Sessanta, il ragazzo trova una specie di tutore nel vecchio Omero. Da questo momento, anche quando il vecchio muore, la vita di Salvatore prende la china più ovvia, assieme ad altri personaggi del posto: il Miccina, un meridionale esperto in incendi per conto di imprenditori che vogliono arricchirsi in maniera truffaldina, e qualche ragazzo difficile come lui, ad esempio il Pampa. Parallelamente, al brefotrofio dei Cherubini, padre Spartaco trascura sempre di più la vita quotidiana dell'istituto per occuparsi a tempo pieno del suo ambizioso progetto: una sorta di visionario allestimento, fatto tutto con materiale povero assemblato in modo ingegnoso, in perenne omaggio alla Madonna, per stimolare sempre più la devozione dei fedeli e salvarli dalle tentazioni della incombente "modernità". Entrambi, padre Spartaco da un lato e Salvatore coi suoi compagni dall'altro, vanno comunque incontro a uno stesso destino tragico. Ci si aspetta sempre, durante la lettura, che i due piani della vicenda vengano a intersecarsi in qualche modo, ma questo non succede: Veronesi ha scelto di tenerli distinti, spargendo però qua e là una marcata simbologia che probabilmente è la chiave del romanzo. Tutto, ad esempio, ruota intorno al fuoco, che trascina nel suo impeto distruttore il sogno esaltato del religioso e il miraggio di cambiare vita del giovane sbandato, e qui sta la vera sutura dei due percorsi narrati nel libro: la fine di una speranza e di un mondo, non per caso forse situata nell'anno 1970, quando anche la società italiana perde la sua ingenuità per entrare in un decennio complesso e conflittuale. All'ombra di questa forte valenza simbolica il libro ha però fasi disuguali: a pagine di grande forza, narrate con tono asciutto e aspramente realistico, si alternano momenti meno riusciti, come se la materia imponesse all'autore uno stile non suo per aderire meglio ai propri personaggi. Nonostante questo, "Brucia Troia" ha il merito d'insinuare un dubbio niente affatto banale sull'Italia di ieri e quella di oggi: il fuoco "purificatore" della modernità che ha ridotto in cenere quei sogni e quelle visioni, ormai logori, ci ha lasciato in eredità un paese migliore o soltanto più disperato e cinico? Veronesi non risponde, ma forse il senso del suo romanzo, così atipico e urticante, sta proprio in questo interrogativo sospeso che agita i nostri fantasmi e che, sicuramente, Pier Paolo Pasolini avrebbe fatto suo.
Daniel Handler - "Avverbi" (Alet, 2007)
Per fortuna capita ancora d'imbattersi, ogni tanto, in esempi narrativi d'incerta classificazione, e proprio per questo capaci di lasciare un segno importante. E' il caso di questo libro firmato dall'americano Daniel Handler (San Francisco, 1970), finora noto soprattutto come autore di racconti per ragazzi (con lo pseudonimo Lemony Snicket), ma anche come sceneggiatore. Questo "Avverbi" è opera singolare, anzitutto, per la struttura a pannelli, o capitoli se preferite, nei quali succede solo dopo qualche tempo di notare la riccorrenza di nomi e riferimenti: così, dopo una prima impressione di smarrimento, si colgono i fili, aggrovigliati ad arte in un ambiguo collage, che legano tra loro le diverse situazioni del libro e, soprattutto, si apprezza lo stile dell'autore. Handler ha il dono di una scrittura non lineare, ma linguisticamente ricca e densa di parentesi e rimandi, dunque capace di sottolineare aspetti psicologici latenti, dettagli rivelatori, lapsus dell'inconscio. Come tutti gli scrittori di forte personalità, richiede anche, come patto preliminare col lettore, una sorta di sospensione dei luoghi comuni romanzeschi: i tempi non tornano, a volte eventi e personaggi si mostrano da angolazioni impreviste per scoprirne qualcosa di più, e la narrazione, che a tratti scivola via fin troppo ellittica, si condensa di colpo come in un ralenty di indubbia suggestione. Succede in "Gelidamente", quando alcuni personaggi che incontreremo ancora, o abbiamo già conosciuto, sembrano aspettare un segno di vita all'interno d'una tavola calda, in una di quelle giornate con "il buio piombato in pieno sul tardo pomeriggio, come uno che passa da casa tua e non vuole saperne di andarsene. Quel giorno era stato quasi cancellato, per via della pioggia che si riversava su tutto" (la traduzione italiana è di Anna Mioni). I titoli avverbiali sono appunto uno stratagemma per allargare lo spettro del termine "amore" secondo Handler: sono i modi, o anche le circostanze, nei quali l'amore si manifesta, si trasforma o si spegne nei personaggi, ogni volta mettendo a nudo idiosincrasie personali o antiche ferite come un formidabile reagente chimico. Così, accanto all'amore fulminante di "Immediatamente", dove il protagonista s'innamora del taxista gentile che lo porta via da un'odiosa discussione con la sua ragazza, c'è anche l'amore tutto al femminile e senza futuro per via di un male senza scampo ("Profondamente"), e c'è perfino l'amore che, come un vero contagio, si trasmette di padre in figlio ("Collettivamente"): una galleria abilmente congegnata di cause, effetti primari e secondari, dove la scrittura, poliedrica e irrequieta, sa declinare il verbo "amare" in tutte le sue sfumature, cogliendone sia il lato comico che quello tragico, o spesso tenendoli strettamente imparentati. In Daniel Handler sembra in fondo dominare uno spirito libertario che riconosce al sentimento di chiunque, sotto qualunque segno sia nato, uguale diritto di cittadinanza, dato che, sottolinea con ironia nelle prime righe di "In modo giudicante", "non esistono leggi approvate dal governo degli Stati Uniti che gli impediscano di rendersi ridicolo." E' questo sguardo esente da pregiudizi o etichette a rendere prezioso un romanzo così atipico, che appare all'inizio senza centro, e lo ritrova invece quando i suoi personaggi si svelano alla fine, tutti e senza distinzione, fatalmente catturati nel vortice dello stesso bisogno primario che non si può mettere a tacere, e deve essere vissuto. Anche se la disillusione, magari, è proprio dietro l'angolo.
Ermanno Cavazzoni - "Storia naturale dei giganti" (Guanda, 2007)
Ci sono scrittori che sfuggono alle mode e ai dettami più ovvi del romanzo, quasi a scavarsi una nicchia tutta propria, che meglio risponda al loro mondo fantastico. Ermanno Cavazzoni (Reggio Emilia, 1947) appartiene a questa categoria, probabilmente sin da quando pubblicò "Il poema dei lunatici" (1987), testo che gli procurò l'incontro e la collaborazione con Federico Fellini. Soprattutto, Cavazzoni è autore poliedrico e senza confini: tra l'altro è membro dell'Op.Le.Po. (cioè "Opificio di Letteratura Potenziale"), gruppo che si dedica a giochi verbali di vario tipo. Come dobbiamo prendere, viste le premesse, questo "Storia naturale dei giganti"? E' un romanzo, certo, ma ambiguo sin dal titolo, che lascia pensare a un saggio dedicato appunto ai giganti e alla loro fortuna letteraria. In effetti, il racconto nasce così: il protagonista è un tale che vive con la zia e passa tutto il suo tempo a rivisitare i poemi dell'Ariosto, del Boiardo o del Pulci, e molti minori dello stesso filone, per tracciare una sorta di parabola evolutiva di questi personaggi leggendari. Lui, in verità, li tratta quasi come un popolo vero e proprio, anomalo ma ben piantato sulla terra, con le sue debolezze, i suoi caratteri psicologici e le sue propensioni tutt'altro che encomiabili. Sono raffigurati quasi sempre come grossi bambinoni dominati da un istinto cieco senza costrutto, incongruenti e pasticcioni, destinati perciò alla sconfitta. Il protagonista analizza le loro gesta, comunque, con uno zelo e un'attenzione per il dettaglio da studioso vero. Sembra quasi che tutta questa appassionata ricerca debba colmare un vuoto personale, un bisogno di proiezione fantastica in un mondo avventuroso e insieme leggero, dove paladini e giganti spesso combattono su opposti versanti, ma talvolta si uniscono in provvisorie alleanze: meglio, vista l'indubbia superiorità d'ingegno dei paladini, sono a un certo punto gli stessi giganti, infallibilmente scornati e privi di vere capacità, a proporsi come umili scudieri a questo o quel paladino. Poi, tranne sporadiche riapparizioni in qualche tardo poema del Seicento, i giganti spariscono di scena. Proprio in corrispondenza di questa lenta rarefazione, il nostro protagonista comincia a frequentare una giovane donna che gli racconta dei suoi diversi spasimanti: e si appassiona a lei, quanto diventa ostile verso questi corteggiatori inadatti e grossolani, secondo lui. Finchè incontra un ufologo che profetizza l'arrivo sulla terra degli extraterrestri e che lo ingaggia nel suo comitato per portare in giro le sue tesi strampalate: però almeno qualche extraterrestre si porterebbe via tutti i mediocri che il nostro vede intorno a sé, compresa sua zia. Ma è tutto vero, alla fine, o è solo uno scherzo della sua fantasia paranoica? Probabilmente, Cavazzoni direbbe che la domanda non ha risposta, o può averne molte. Il gioco portato avanti in questo strano romanzo è proprio l'abolizione progressiva di ogni rigida distinzione tra verità e fantasia, desiderio e ragione: è in questa terra di mezzo, dove giganti, paladini e odiosi conoscenti che insidiano la sua Monica si confondono tra loro, che la prosa di Cavazzoni trova i suoi effetti più esilaranti, sia pure tallonati quasi sempre da un retrogusto più serio e amarognolo, che adombra solitudine, spaesamento psicologico e un'identità alquanto labile. Un gioco letterario, insomma, dove l'autore pare riecheggiare da lontano l'idea già di Cervantes nel "Don Chisciotte", che troppa letteratura può condurre a una sorta di follia, seppure innocua e, paradossalmente, salvifica. O è proprio quel divino spaesamento, che trasfigura la realtà stessa in una specie di cortocircuito, che per Cavazzoni rappresenta la condizione irrinunciabile di chi fa letteratura oggi? Il libro è interessante, e spesso divertente, ma è proprio quello che non dice e lascia solo immaginare a colpire di più.
Bijan Zarmandili - "L'estate è crudele" (Feltrinelli, 2007)
Giornalista iraniano da anni residente in Italia, Bijan Zarmandili (Tehran, 1941) ha pubblicato già alcuni saggi dedicati al mondo mediorientale. Qui lo troviamo invece alle prese con un romanzo che sembra attingere in parte alle sue esperienze giovanili, intessute con fatti e personaggi che rievocano l'educazione politico-sentimentale di tutta una generazione di persiani. La vicenda narrata è quella di Parviz e Maryam, entrambi studenti in Italia nei primi anni Sessanta: i due si conoscono casualmente, nei ritrovi romani frequentati abitualmente dagli altri iraniani, e tra loro scocca subito qualcosa. Parviz è uno studente molto politicizzato, come Maryam e gli altri loro amici, che avvertono l'urgenza di far cadere il regime dittatoriale di Reza Pahlavi in patria, e il loro legame si alimenta anche di lunghe discussioni nei bar, dove i temi della politica iraniana e di quella italiana si mescolano continuamente alle schermaglie amorose. Dopo qualche anno, però, quando i due sono stati sposati laicamente da un funzionario del partito di opposizione venuto apposta dall'Iran, Parviz riceve l'ordine di rientrare in patria per alimentare la rivoluzione interna. Una volta entrato in clandestinità, lui e Maryam si rivedranno a Tehran solo molti anni dopo, quando lei esercita ormai la professione medica. Segretamente s'incontrano dove e quando è possibile, e nasce un figlio, Keivan, ma alla fine un traditore porta la polizia sulle tracce del gruppo e Parviz viene ucciso con gli altri, mentre Maryam è imprigionata e torturata fino alla morte. E' in quest'ultima parte che il romanzo cresce d'intensità e la brutalità dei carcerieri si scontra con il mondo interiore di Maryam, tenacemente ancorato al ricordo del marito ucciso e di suo figlio. Proprio Keivan, cresciuto dai nonni, difenderà orgogliosamente la loro memoria e il loro esempio, nel clima pesante segnato dai "pasdaran" iraniani. Il romanzo di Zarmandili è appassionante e delicato al tempo stesso: colpisce soprattutto la limpida narrazione del sentimento che unisce Parviz e Maryam, studenti a Roma nel clima ancora amabile degli anni sessanta, non ancora segnato dalle violenze del terrorismo. E' molto interessante, nel contempo, vedere come la consapevolezza dei due sia alimentata anche da un certo cinema d'autore, in primis quello di Antonioni ("Il grido"), capace di aprire loro gli occhi sull'altra Italia, che sta mutando pelle per entrare nella logica conflittuale di un capitalismo avanzato che sconvolge, fatalmente, i vecchi equilibri sociali. Si nota da queste sottolineature il sapore realistico del libro, che intreccia sempre abilmente il piano lirico-sentimentale con le asprezze dell'impegno politico, finché è quest'ultimo a prevalere secondo una progressione spietata dal finale tragico: non prima però che il giovane Keivan abbia ricevuto il testimone ideale di una storia in qualche modo esemplare. La scrittura di Zarmandili, lucida quanto intensa nel dosaggio dei momenti emotivi e di quelli più scabrosi, cattura l'attenzione senza falsi espedienti, badando solo a restituire le ragioni e la verità psicologica dei personaggi nell'attrito con una realtà che li sovrasta, certo, ma senza piegarli davvero alla sua logica. Questo, senza retorica, è forse il senso più profondo del romanzo: da leggere, perché storie del genere, ai nostri giorni, non hanno perso affatto di attualità.
Jonathan Lethem -"Memorie di un artista della delusione" (Minimum Fax,2007)
A volte recuperare il passato e le tappe della propria crescita umana e intellettuale, come avviene in questo libro di Jonathan Lethem (New York, 1964), non si traduce nel classico racconto di formazione, ma piuttosto in una serie di saggi che focalizzano ogni volta un singolo momento. In questo apprendistato alla vita e alla propria vocazione letteraria, Lethem privilegia le passioni che aprono (o chiudono) orizzonti e prospettive e da buon americano, ovviamente, la sua concezione di cultura è molto aperta: in questa raccolta di memorie, entrano così scrittori alti e popolari, registi e fumetti, fino alla musica rock e soul, rivisitate con la freschezza delle prime scoperte adolescenti ancora in grado di regalare un brivido all'adulto, che pure le inquadra nella sua nuova consapevolezza. In "Storie metropolitane" l'autore c'introduce alla sua infanzia senza nessuna nostalgia: racconta infatti che la paura di fare brutti incontri in metropolitana lo induceva ad adottare qualche tecnica preventiva, ad esempio a uscire dal vagone, o entrarci, solo un attimo prima che si richiudessero le porte per cogliere di sorpresa eventuali inseguitori. Un modo eloquente per descrivere la violenza e il sospetto che a New York si respirano a tutte le età, senza sconti. L'altro protagonista del libro è senz'altro il padre di Lethem, Richard, pittore di una certa levatura (le sue tele si possono vedere in rete al sito www.richardlethem.com), cui lo scrittore dedica pagine molto intense, nel capitolo "Le vite dei bohémien". Specie dopo la morte precoce della madre, padre e figlio sono costretti a studiarsi più da vicino, e nascono discussioni e incomprensioni, perchè il più giovane cerca nell'arte la perfezione come antidoto alla sua insicurezza, mentre il genitore ha scelto di ritrarre realtà materiali e povere (utensili, operai, interni domestici), quasi trovando nella "sbavatura" la sola verità della sua opera. Nello scrittore rimane però indelebile l'applicazione paterna al suo lavoro di pittore, giorno dopo giorno, in un esercizio di dedizione assoluta che forse è il segreto di ogni riuscita artistica. Tra i due estremi, il rifiuto e il riconoscimento del padre, stanno alcuni capitoli come "Il ritorno del re", ricostruzione del mondo fantastico dei fumetti Marvel e dei suoi disegnatori, come Jack Kirby, attraverso le animate discussioni con gli amici dell'epoca, e soprattutto "L'artista della delusione". In questo caso Lethem ricostruisce l'ambivalenza di uno scrittore controverso come Edward Dahlberg, autore di romanzi come "Poiché ero carne" e "Vita da cani", ma soprattutto famoso per il suo carattere acido verso i colleghi e il prossimo in generale, compresa la povera zia di Lethem, che partecipò a uno dei suoi corsi di scrittura. Dahlberg, secondo Lethem, non aveva mai superato l'abbandono della madre, e la sua delusione (spesso rabbiosa) verso il resto del mondo era figlia di quel primo shock affettivo che non poteva in nessun modo essere superato. Non aveva, insomma, che il suo dolore di figlio rifiutato e di quello fece la sua opera: riflessione critica che illumina, per contrasto, il diverso sbocco del dolore in Lethem dopo la perdita della madre. Spinto a cercarsi modelli nei campi più diversi per colmare quell'assenza, lo vediamo approdare alla musica rock e al cinema (Kubrick, Godard, Brian Eno, Talking Heads, Pink Floyd tra gli altri) nel racconto "Le barbe", dove la generica attrazione per le persone più mature, ma non vincolanti come può essere un padre, lo introduce a conoscere artisti diversi e affascinanti, per quanto spesso molto ostici (ad esempio Cassavetes nel capitolo a lui dedicato). Il libro di Lethem ha il pregio della rievocazione biografica, dove si può giocare a calarsi per rimarcare somiglianze o differenze di tipo generazionale, eppure non è questo il suo vero merito. Quello che attrae è la capacità di cogliere l'alto nel basso e viceversa, in poche parole di riavvolgere il gomitolo della propria vita senza cercare di plasmarlo a posteriori per dissipare le ombre che ognuno si porta dietro: in questo modo, lasciando che il pendolo del tempo oscilli continuamente tra ieri e oggi, adolescenza e maturità, Lethem ci offre un ritratto appassionante non solo di se stesso, ma anche di quella pluralità di stimoli e linguaggi che in fondo è la vera ricchezza, oltre che la memoria, di ciascuno di noi.
Amos Oz - "Non dire notte" (Feltrinelli, 2007)
Pubblicato una prima volta nel 1994, esce solo adesso in traduzione italiana questo romanzo del noto scrittore israeliano. La storia di Amos Oz è incentrata s'una coppia, il sessantenne Theo e la più giovane Noa, che da qualche tempo hanno scelto di vivere a Tel Kedar, una piccola cittadina sorta da poco ai margini del deserto del Negev. Lui è un famoso urbanista che per anni ha girato il mondo per lavoro, aperto a incontri ed esperienze molteplici che lo hanno poco a poco portato a una sorta di annoiato torpore e a godersi la vita come viene, senza porsi più traguardi specifici. Noa invece, insegnante di materie letterarie nel locale liceo, sta ancora cercando un senso profondo da abbracciare, al di là della pigra routine scolastica. Sembra trovarlo quando un suo studente, molto introverso e forse innamorato di lei, viene rinvenuto morto in fondo a un crepaccio: suicidio o morte accidentale? Tra le possibili cause, comunque, si sospetta anche la droga. Fatto sta che il padre del ragazzo, un imprenditore che frequentava poco il figlio, forse anche per colmare i suoi sensi di colpa decide di finanziare un istituto di recupero per giovani tossicodipendenti, e ha l'idea di affidare il progetto proprio a Noa, che a suo dire era l'unica persona che suo figlio aveva in simpatia. Prima imbarazzata e poi conquistata dall'idea, Noa accetta l'incarico e cerca di coinvolgere altri cittadini di sua conoscenza per lavorare al progetto. Il suo compagno la osserva scettico, consapevole che si tratta di un'impresa difficile, che non troverà nessuna accoglienza presso le autorità locali, ma Noa va avanti. Il comitato che ha messo in piedi comprende un agente immobiliare che la corteggia discretamente, una donna sola e un pensionato: ogni riunione, per quanto affrontata con entusiasmo, sembra a Noa confermare le previsioni di Theo, risolvendosi spesso in chiacchiere generiche e inconcludenti. Finisce che Theo decide di muoversi in prima persona, per convincere il sindaco della bontà del progetto, sia pure adattato alle esigenze della cittadina, proprio mentre lei, al contrario, sembra perdere interesse per dedicarsi ad altro. Magari l'istituto non si farà, oppure diventerà qualcosa di diverso, ma dopo molto tempo la coppia conosce una nuova armonia che sembra emanare proprio dal paesaggio desertico e immobile che hanno intorno. In effetti il deserto ha nel romanzo di Oz un grande rilievo, come se l'ambiente che ospita la vicenda finisse anche per condizionarla con i suoi ritmi lenti, il gioco dei venti e le tempeste di sabbia improvvise dove a turno i personaggi si perdono e si ritrovano coi loro dubbi e le loro domande. In questo orizzonte sabbioso e apparentemente immutabile, dopo tutto alla fine appare futile o effimero, i due personaggi si lasciano come guidare a una sorta di ritrovata serenità: tutto è ancora possibile, ma è inutile forzare i tempi e le circostanze. Questo rispecchiamento dei casi umani nello scenario scabro del Negev e la minuta osservazione dei protagonisti, tra noia, inquietudine e speranza, è la vera forza di "Non dire notte", e cattura il lettore dentro una sorta di incantamento dove la ragione si lascia modellare, come le dune dal vento, fino a trovare la sua forma più esatta e necessaria. Un libro denso e ammaliante, che conferma la felicità espressiva dello scrittore israeliano e lo spessore umano delle sue storie.
Vitaliano Trevisan - "Il ponte" (Einaudi, 2007)
Figura poliedrica e non certo accomodante, Vitaliano Trevisan esce ora con un nuovo romanzo che ne conferma tutta la spigolosa personalità. Come in altre sue prove, a cominciare dal folgorante esordio de "I quindicimila passi", lo scrittore veneto torna ancora alle sue origini, sia pure in maniera indiretta. Thomas, alter ego dell'autore, è un uomo che ha scelto l'esilio in Germania, dove insegna italiano, in cerca di quella libertà che la vita in patria non gli garantiva. Un giorno, s'uno dei giornali italiani cui è ancora abbonato, legge però della morte di Pinocchio, nome di battaglia di un suo cugino, in un incidente d'auto: poichè si tratta di una figura importante nella sua crescita umana, la notizia rimette in circolo una serie di memorie, belle ma anche ingrate, che lo risucchiano suo malgrado all'indietro. Da questo momento, la sua tranquillità è fortemente insidiata dal groviglio di sentimenti che circondano il paese lontano e soprattutto la sua famiglia: la distanza che Thomas ha messo tra lui e i suoi parenti, evidentemente, non ha per niente risolto i suoi conflitti interiori. E' in particolare verso sua madre che si appunta il suo rancore, un sentimento che la ruota spietata dei ricordi non fa che acuire, in un corto circuito dove amore frustrato, senso di colpa e odio vero e proprio si fondono fino a fargli nutrire oscure fantasie di vendetta. Nel crogiuolo entrano pure le sorelle, il padre, e alla fine, quasi seguendo un processo associativo inarrestabile la stessa terra nativa, il vicentino, i suoi abitanti, e alla fine l'Italia tutta. E' qui che il libro di Trevisan si fa davvero aspro, e l'invettiva individuale si colora d'un accento che definire critico è ancora poco: tramite il serrato monologo interiore del suo personaggio, l'autore ne ha per tutti gli aspetti della società italiana. La classe intellettuale pigra e servile, il giornalismo becero e superficiale, gli industriali piagnoni e i politici corrotti, tutti compromessi da una sorta di colpevole rassegnazione che ha sprofondato il paese in sorta di amorale condotta che perpetua all'infinito errori e scelte nefaste. Lo stesso Thomas rievoca quindi un episodio che incrinò la complicità con il cugino, cioè la morte rimasta oscura del figlio Filippo. I sospetti ricaddero anche su di lui: era lui che parlava spesso al bambino delle scorribande giovanili fatte insieme al padre, e lo accompagnava spesso in qualche gita per le campagne. A questo punto, già in crisi con la sua famiglia e ora sospettato perfino dal suo complice di un tempo, Thomas capisce di non avere avuto scelta a lasciare il suo paese, per liberarsi di tanto rancore diffuso, in lui e negli altri. Così come ora, all'inverso, è consapevole che solo tornando all'origine di tutto potrà sciogliere quei nodi così tenaci una volta per tutte. "Il ponte" è un'opera acuminata e disturbante: Trevisan le ha dato la forma monolitica di un flusso memoriale senza soluzione di continuità, un vero vortice dove le stesse immagini passano e ripassano fino a divenire insostenibili, e nel quale disagio personale e collettivo sembrano saldarsi come per contagio. Più volte, nel lucido delirio di Thomas, ricorrono anche i nomi di Thomas Bernhard e di Pier Paolo Pasolini, due testimoni del rifiuto: l'austriaco ferocemente avverso al falso mito della "felix Austria", e il poeta di Casarsa profeta scomodo di un'Italia avviata a perdere ogni identità. Devono apparire a Trevisan come due numi sodali, e al suo personaggio in particolare, come coloro che hanno visto per tempo il male profondo che corrode uomini e sentimenti, e perfino la speranza di poter ancora comunicare la propria verità in una lingua che abbia senso. Un atto d'accusa davvero estremo, questo, che non può lasciare indifferenti.
Jonathan Franzen - "Zona disagio" (Einaudi, 2006)
Dopo essersi fatto notare con "Le correzioni", Franzen pubblica ora un libro che si configura come una sorta di autobiografia composita, organizzata in sei capitoli che rappresentano sei diverse tappe di crescita e consapevolezza. L'apertura di "Casa in vendita" segna in realtà l'approdo finale di questo cammino personale, da cui poi Franzen procede a ritroso negli anni. La madre è morta da poco e tornare nella casa di famiglia in un sobborgo di St Louis, in una cupa mattina di pioggia, ha per il protagonista il senso di una presa di possesso in cui si mescolano sensazioni diverse: l'incarico di vendere l'abitazione curata con tanta dedizione dai suoi genitori, da un lato lo esalta come quando ci si può finalmente disfare di un peso, e dall'altra lo immalinconisce. E' comunque da qui, dal rifugio-prigione da dove poi è fuggito, come i fratelli più grandi, che il mondo dell'infanzia e dell'adolescenza riprende forma e sostanza nei suoi ricordi, in una successione di stati d'animo sempre mutevole. Ormai è un uomo adulto, un quarantenne con idee abbastanza definite e consolidate, come l'avversione per la politica di Bush, ma l'incontro con il passato rimette in circolo anche le fasi di questa maturazione, che come sempre procede a strappi, in maniera tutt'altro che lineare e spesso traumatica. Nel giro della rievocazione si riaffaccia il profilo contraddittorio dei due genitori e dei fratelli, Tom e Bob, modelli da imitare e magari superare in cerca di una strada personale, ma anche di un'America più ingenua e modesta, chiusa nelle sue certezze e nei suoi valori domestici. L'infanzia raffigurata in "Due pony", in questa dimensione, può così lievitare insieme al mondo di Charlie Brown, il vecchio bambino nato perdente dalla fantasia di Charles Schulz, e di tutti gli altri personaggi dei "Peanuts": un universo parallelo di piccoli nevrotici, quasi dei prototipi in nuce dell'età adulta, che portano la magia infantile un poco oltre i suoi confini tradizionali, come i primi contrasti familiari tra i genitori e i fratelli maggiori. Si nota in questo caso come Franzen allarghi lo sguardo al di fuori del racconto biografico, tanto che a volte si ha l'impressione di leggere un sapido ritratto sociologico che, pur muovendo dai ricordi più intimi, arriva a includere nel suo cerchio dettagli e notazioni di un'intera epoca di storia americana: quella ad esempio dei moti studenteschi contro il Vietnam, con i quattro universitari uccisi nel 1970 alla Kent University (i "Four dead in Ohio" cantati da Neil Young), e la sottile disamina di come i giornali proponevano fumetti di taglio mirato, secondo il pubblico cui si rivolgevano. E' un paese, quello rievocato da Franzen con tanta sottigliezza e lucidità, nel quale si allestivano campeggi estivi e comunità ispirate ai valori religiosi, che magari erano poi capeggiate da curiosi personaggi di ribelli convertiti, come il Mutton di "E la gioia trionferà". Un crogiuolo di stimoli e istinti molto variegato, insomma, che si ritrova anche nel racconto, insieme divertito e problematico, di un'educazione sentimental/sessuale piuttosto laboriosa, se non decisamente travagliata. Fino a stancarsi di cercare un equilibrio con l'universo femminino, quando invece si può ritagliarsi uno spazio di libertà naturalistica dedicandosi al "bird watching" con un'assiduità che sconfina nell'ossessione ("Il mio problema ornitologico"). La scrittura di Franzen è duttile, proprio perché scorre sul crinale del ricordo personale misto al racconto sociale di un'America in rapida trasformazione, e sa catturare benissimo la duplice natura di ogni autobiografia: quel sentimento indefinito, ma struggente, di un tempo che non tornerà più, come i gesti e le parole di una madre e di un padre dai quali a un certo punto si vuole soltanto fuggire, prima di ricordarli con un puntuale senso di colpa cui si richiama il disagio del titolo. In definitiva, davvero un bel libro.
Elena Ferrante - "La figlia oscura" (Edizioni e/o, 2006)
Di oscuro, parlando del nuovo libro di Elena Ferrante, c'è naturalmente proprio lei, o meglio la sua identità da sempre misteriosa: c'è stato perfino chi sosteneva trattarsi di un famoso scrittore, ma uomo e non donna, che si divertiva a scrivere sotto pseudonimo. Di limpido, invece, c'è il talento già conosciuto nelle prove precedenti firmate Elena Ferrante, e la straordinaria capacità di risucchiare il lettore nel punto di vista problematico dei suoi personaggi femminili. In questo caso è un'insegnante d'inglese, Leda, che all'inizio dell'estate rimane da sola: le due figlie sono in Canada in visita al padre, e lei non ha impegni di lavoro. Quasi imbarazzata, si accorge che l'assenza delle figlie non la intristisce affatto, ma anzi la fa sentire nuovamente libera di pensare a se stessa come non le accade da tempo, e così programma un periodo di ferie al mare in una piccola località del sud. Appena insediata nel suo piccolo appartamento, però, comincia un faticoso rapporto con la comunità di villeggianti che frequenta il suo stesso stabilimento: la sua attenzione è attratta soprattutto da una vera tribù familiare, tipicamente napoletana, chiassosa e un po' invadente, che pure le ricorda le sue stesse origini popolari, quando scelse di buttarsi nello studio per sfuggire a una vita che sentiva opprimente. In questo gruppo variopinto, la incuriosiscono soprattutto la giovane Nina e sua figlia Elena: la complicità segreta che osserva tra loro rimette in circolo ricordi e conflitti della sua esperienza di madre non sempre lineare, combattuta tra un amore viscerale e il desiderio di conservare una dimensione ancora libera. Uno strano miscuglio sentimentale, che rende i rapporti con i vicini di spiaggia altalenanti, in bilico tra curiosità e fastidio. Finché un giorno succede qualcosa che rompe questo finto equilibrio: la bambina si perde nel caos della spiaggia affollata, e Leda, d'istinto, partecipa alla ricerca di tutta la famiglia. Infatti è proprio lei che ritrova la piccola Elena piangente e la riporta alla madre. Tra lei e Nina sembra potersi sviluppare un rapporto di amicizia più stretto, ma di mezzo c'è un gesto che Leda non ha potuto trattenersi dal compiere, cioè appropriarsi furtivamente della bambola preferita di Elena, e tenerla con sè nonostante l'intera famiglia dei bagnanti per giorni metta a soqquadro tutta la spiaggia e il paese per ritrovare il giocattolo alla bambina disperata. Proprio in questo gesto irrazionale sta forse il nodo dei suoi malesseri, legati all'eterno dilemma di donna e madre che cerca faticosamente di trovare un equilibrio sempre sfuggente: stavolta però, dopo una vacanza così travagliata, Leda ha l'impressione di aver capito ciò che per lei conta davvero. Non si scopre con questo libro il potere ipnotico che accompagna la scrittura di Elena Ferrante: una facoltà di impastare con apparente naturalezza elementi di sottile analisi interiore con i fantasmi che a volte ingorgano la vita delle persone più sensibili, fino al cortocircuito. Si tratta, come in questo caso, di un tic, una scelta inconscia che poi procura una serie di reazioni a catena in fondo alle quali la protagonista deve fatalmente fare i conti con antiche ferite mai cicatrizzate, o ambiguità colpevolmente rimosse del proprio vissuto. Tutto questo, com'è tipico della Ferrante, mescolando l'alto e il basso, il dettaglio più realistico con una costante e dolorosa introspezione. Un'ambivalenza di piani nella cui riuscita convivenza risiede appunto la felicità stilistica e soprattutto la "verità" che le pagine di Elena Ferrante trasmettono al lettore. A questo punto, diciamolo, chi sia davvero neppure ci interessa: i suoi romanzi invece sì, perché sono documenti d'intelligenza e acume psicologico che non si trovano così spesso in giro e "La figlia oscura" è un altro grande libro da non perdere.
Andrea Vitali - "Olive comprese" (Garzanti, 2006)
L'arte del racconto è stata per qualche decennio una chimera: sperimentalismi e avanguardie, anche meritorie per molti versi, avevano incrinato il gusto di una storia ben articolata intorno a luoghi e personaggi precisi. Un certo ritorno della cosiddetta letteratura di genere, il giallo-noir per intenderci, ha facilitato da ultimo il recupero di modelli narrativi più solidi. Tra gli autori più apprezzabili in tal senso c'è sicuramente Andrea Vitali, medico classe 1956, che in particolare mostra anche in "Olive comprese" il suo debito verso scrittori come Piero Chiara: non per niente, i luoghi prediletti da Vitali sono pressappoco i medesimi, cioè i borghi lombardi che affacciano sul lago di Como. Nel romanzo di Vitali la storia è ambientata negli anni Trenta, come se sospingere i suoi personaggi in un'epoca ormai remota, rendesse più nitide le loro piccole disavventure e la loro umanità. Mai come in questo caso, la vicenda sembra contare solo per quello che permette al narratore, cioè rappresentarci uomini e donne alle prese con una serie di accidenti che per anni sconvolgono la tranquilla e sonnolenta vita di Bellano. A fare da esca, comunque, è la morte improvvisa di una vecchina e i sospetti che dietro ci sia una storia di avvelenamenti. L'occhio del maresciallo Maccadò finisce per posarsi su quattro giovanotti, tra i quali appunto il proprietario delle "olive" del titolo, che proprio per la noia se ne vanno in giro nottetempo a combinare burle di vario tipo, fino a richiedere il suo intervento: così facendo metterà ovviamente il paese in subbuglio, a cominciare dalle rispettive famiglie degli scapestrati. Da qui si srotola una successione davvero grottesca di eventi che sembrano tutti tenersi tra loro, direttamente o meno, e soprattutto danno modo a Vitali di mettere in scena questo teatro umano esilarante, fatto di marescialli e indovine, prostitute e cacciatori, perpetue pettegole e mogli che parlano coi morti. Insomma, il tipico microcosmo della provincia italiana profonda, molto frequentato in passato, e che sembra più che mai vivo nella penna arguta di questo narratore dalla scrittura così felice e accattivante. Il romanzo è scandito in capitoli brevi e brevissimi, ognuno dei quali sembra voler ingigantire un dettaglio o un dialogo come s'un palco immaginario per arricchire il puzzle colorito che sta prendendo forma. Viene da chiedersi se la provincia odierna potrebbe ancora partorire storie di questo tipo: forse no, come la truce cronaca più recente sembra testimoniare, ma ci sono scrittori che non hanno bisogno di scavare in certi abissi. A loro interessa soprattutto cogliere i tratti di un luogo definito, dei suoi abitanti, per catturare così un'idea di umanità che sta al fondo di tutto, e un carattere che non è solo "colore locale" ma anche, in qualche modo, rappresentativo di un'identità nazionale. In ogni caso, la lettura di "Olive comprese" si raccomanda come un ottimo esempio di intrattenimento, dove ogni pagina trasuda il partecipe divertimento di chi scrive di un mondo che conosce come le sue tasche.
Nicole Krauss - "Un uomo sulla soglia" (Guanda, 2006)
Guanda pubblica il romanzo d'esordio di questa scrittrice americana, uscito nel 2002, dopo le buone accoglienze ricevute da "La storia dell'amore" (2005). Nicole Krauss mostra indubbiamente delle qualità notevoli, anche se "Un uomo sulla soglia" ha forse un "appeal" meno favolistico e un'anima più scura. La storia è quella di un trentaseienne docente di letteratura alla Columbia, Samson Greene, che un giorno è ritrovato dalla polizia mentre cammina nel deserto del Nevada in evidente stato confusionale. Gli viene diagnosticato un tumore al cervello, che per quanto benigno e presto rimosso, gli lascia in eredità un problema non da poco: la perdita quasi integrale della memoria. In pratica, Samson ricorda soltanto gli anni dell'infanzia, mentre ha cancellato completamente la sua vita successiva, non riconosce neppure sua moglie Anna, né ricorda più d'essere uno stimato insegnante universitario. Sua moglie, per quanto traumatizzata da un evento che sconvolge tutte le sue sicurezze, si sforza per qualche tempo di abituarsi alla nuova situazione, nella speranza che il marito recuperi la memoria, ma alla fine i due decidono di separarsi. Samson accetta, quasi per trovare un senso alla sua nuova condizione, di partecipare alla ricerca scientifica di un medico convinto che soggetti come lui siano ideali per i suoi studi: il suo tentativo è quello di mettere un uomo in grado di condividere, come fossero propri, i ricordi degli altri. In un clima di relativo isolamento, vive per un certo periodo sotto l'influsso carismatico del dottor Malcom, finché l'esperimento decisivo non lo sconvolge ulteriormente e lo spinge ad abbandonare il progetto. Sempre più solo e smarrito, Samson si accorge di avere solo un obiettivo: trovare la tomba di sua madre. Ci riesce dopo aver visitato Max, un vecchio prozio che ha attraversato la sua infanzia, e che ora è rinchiuso in una casa di riposo: sulle prime, l'uomo neppure lo riconosce, poi scatta qualcosa in lui che porterà entrambi sul luogo che Samson sta cercando, e che ha sempre conosciuto. Il romanzo è scritto in uno stile flemmatico e introspettivo, in una costante tensione tra la coscienza del nulla del protagonista smemorato e i ricordi struggenti degli anni vissuti accanto alla madre. In quel solco che divide in due la vita del suo personaggio, Nicole Krauss dimostra tutto il suo talento, facendo balenare frammenti di un idillio perduto dopo il quale, invece, si spalanca una terra di nessuno dove Samson è facilmente preda di miraggi e illusioni senza fondamento. Perchè perdere la memoria adulta significa, fatalmente, rimuovere tutta l'esperienza accumulata nel tempo, senza la quale ogni scelta poggia sul nulla, priva di ogni riferimento certo. Alla fine è ovvio che un uomo, inerme come un bambino, si possa muovere solo ripartendo dall'inizio di tutto, per piangere oltre a sua madre anche se stesso e la vita che ancora lo aspetta. Attenta al dettaglio, lavorando sulle sfumature psicologiche e i conflitti profondi, questa nuova autrice ha scritto un libro dove luce e ombra convivono, e ogni immagine reale può valere due volte: in se stessa e per ciò che rappresenta. Ne deriva un paesaggio a scacchi, dove ogni possibilità contiene il suo contrario, se l'uomo sulla soglia che guarda ha dentro di sé il deserto. Interessante.
Niccolò Ammaniti - "Come dio comanda" (Mondadori, 2006)
Si attendeva con molta curiosità il nuovo romanzo di Ammaniti, una delle penne più brillanti della nuova letteratura italiana, baciato anche dal successo popolare da quando il suo "Io non ho paura" è diventato il film pluripremiato di Gabriele Salvatores. "Come dio comanda" ci consegna il ritratto di uno scrittore consapevole e maturo, che ha giocato in grande le sue carte confermando in pieno le sue qualità. La trama è costruita intorno a un gruppo di perdenti che vivono in un paese immaginario ma molto realistico, diciamo nel ricco Nord-Est italiano, in una sorta di paludosa periferia di capannoni industriali e case fatiscenti. Visto dalle loro povere abitazioni di fortuna, perennemente incompiute e dall'aria provvisoria, come quella di Rino Zena e suo figlio Cristiano, il mondo degli altri, fisicamente vicino, appare in realtà come una lusinga inafferrabile. Se Rino Zena è un ex operaio che vive di espedienti, neppure i suoi amici se la passano meglio: Quattro Formaggi ad esempio è un miracolato, uscito illeso ma "stranito" da un incidente con l'alta tensione, e Danilo Aprea, abbandonato dalla moglie, vive sospeso nel rimpianto della figlioletta morta da poco. Il giovane Cristiano va a scuola senza entusiasmo e sente anche in superficie la distanza che lo separa dai compagni di classe: le ragazze più belle che lo ignorano, ad esempio, preferendogli i più ricchi e fortunati, con moto di lusso e occasioni che lui può solo sognare nel suo ostentato silenzio. Solo durante le visite periodiche dell'assistente sociale, lui e suo padre si agghindano di tutto punto e recitano una vita domestica che non esiste. Indubbiamente Rino non sembra un padre impeccabile: è un uomo ruvido e irascibile, ma anche orgoglioso, e a perdere suo figlio proprio non ci sta. Forse appunto per questo, per dare a Cristiano una vita migliore, accetta la proposta di Danilo Aprea che ha immaginato di poter svuotare senza troppi problemi il bancomat del paese. Tra esitazioni e discussioni, il colpo viene fissato per una notte come tante: quella notte però comincia una vera tempesta di pioggia e vento che sembra voler travolgere tutto, compresi i sogni di riscatto e la speranza di Rino e compagni. Dietro una vicenda in fondo semplice, Ammaniti ha il pregio di scavare tra le pieghe di questi "ultimi" dei nostri giorni, facendo quello che una volta si sarebbe definito un vero ritratto di classe: sparite però le classi rigidamente intese di qualche decennio fa, la grossa divisione adesso è tra chi ce l'ha fatta e chi resta escluso. Rino Zena è un ex operaio che ha perso il lavoro, ma gli altri sono piuttosto degli uomini senza rifugio, degli esuli che hanno perso i loro punti fermi, o non li hanno mai avuti: da questo scollamento, doloroso e senza nome, nasce la loro disperazione umana, la stessa che può farti balenare come possibile un'idea senza fondamento. Ammaniti lavora di cesello su queste psicologie, diverse ma accomunate dal sentimento di dover colmare un gap spietato, incastrando con ingegno le tessere di un mosaico complesso che si gonfia di attese, prima di ricadere a terra in un grumo di morte e sconfitta. Il grottesco e il tragico convivono in un romanzo abilmente stratificato, scritto in una sorta d'incisivo esperanto che cattura sia la realtà della cronaca che l'universo interiore degli invisibili: quelli che sono rimasti indietro. "Come dio comanda" ha il merito di calarsi in questa piaga aperta per mostrarcela, con la felicità espressiva che appartiene solo alla letteratura più grande, e agli scrittori di razza come Niccolò Ammaniti.
Altre info: www.niccoloammaniti.com
Roberto Saviano - "Gomorra" (Mondadori, 2006)
Questo è probabilmente il libro dell'anno, almeno in Italia, per le reazioni accese che sta sollevando a tutti i livelli: politico, letterario, sociale. Lo "scandalo" però rischia, come sempre, di mettere in ombra le qualità specifiche di questo potente documento che si fatica a classificare: non è un saggio vero e proprio, ma neppure un romanzo, forse è qualcosa di mezzo, la testimonianza di un giovane giornalista che ha deciso di scrivere sul fenomeno camorra basandosi sulla propria diretta osservazione, di cittadino napoletano e testimone. La differenza con altri testi che hanno cercato di circoscrivere o spiegare questo vero cancro che affligge Napoli e la Campania sta appunto nello sguardo stesso di Roberto Saviano. Il suo non è lo sguardo del cronista cinico e disincantato che, una volta terminato il suo studio, passa ad altro, ma è la testimonianza dall'interno di chi soffre, da sempre, questa ferita profonda nel proprio stesso vivere, e ha scelto di non voltarsi dall'altra parte e farsene una ragione. La ragione di Saviano, al contrario, lancia una sfida all'indifferenza e alla rassegnazione di molti napoletani, per guardare in faccia la realtà criminale che ha occupato il territorio: è insomma la ragione che vuol capire e spiegare, partendo anche dal proprio turbamento personale, cosa è davvero "il sistema", come ormai la camorra definisce se stessa. Diviso in capitoli, che sono come angolazioni diverse per approcciare e inquadrare a tutto tondo il fenomeno, il libro di Saviano passa dapprima in rassegna il mostruoso traffico che transita dal porto di Napoli, e che mescola merci di ogni tipo a cadaveri clandestini, per poi analizzare con acume doloroso tutte le parti del corpo malato che è la sua città: le donne dei clan, coi loro rituali, i boss dai nomi di battaglia coloriti e dalla ferocia illimitata, i percorsi delle droghe e le attività insospettabili dei clan oltre confine, fino alla Scozia. E' un paesaggio che Saviano descrive con un doppio registro: i dati e le cifre ufficiali, da un lato, e dall'altro la sua rabbia civile, che scopre ogni volta nefandezze e orrori più grandi. Sono pagine davvero forti, quelle che descrivono la scena troppo ricorrente dell'ennesimo delitto: l'odore del sangue appena versato mescolato alla segatura, i parenti che piangono e gridano, la gente di strada che osserva in silenzio. Tra quella gente, scrive Saviano, ci sono anche ragazzini che potrebbero ancora salvarsi, ma sono gli stessi che poi magari metteranno tra i loro sogni quello di essere "rispettato" dagli altri con il "ferro" in mano e comprarsi qualunque cosa senza problemi. Consumismo e rispetto, ecco il micidiale cocktail alla base di un modello che ormai dilaga nel regno del sistema: da Napoli alla provincia di Caserta, dalle parti di Casal di Principe, che sembra la vera capitale dei capiclan dominanti. Un sistema a circuito chiuso, dove periodicamente un nuovo boss scalza il precedente in una sorta di guerra continua, che lascia poi sul campo scie di sangue e mortali ferite alla società civile. Il libro fa i nomi e cita i fatti, eclatanti o dimenticati, con una devozione per il dettaglio che non lascia mai margini sfocati o ambiguità: lo scandalo vero di "Gomorra" è il coraggio del suo autore di metterci la faccia in nome della verità, che molti vedono, pochi conoscono in profondità, e quasi nessuno affronta con la giusta convinzione. Il merito più grande del libro scritto da Saviano è aver sfidato la rassegnazione che cova spesso tra i napoletani e chi dovrebbe tutelarli, come una politica spesso assente, se non connivente, e gli stessi media, che si limitano a registrare solo le pagine di cronaca più efferate. "Gomorra" invece rivolta il sistema-camorra come un guanto sudicio, lo inchioda alle sue logiche perverse e ne individua lo spaventoso degrado umano e culturale: quello di chi vuole tutto e subito, con ogni mezzo, perché la sua stessa vita forse è già segnata. Di questo buco nero, che chiama in causa decenni di politiche sociali miopi e fallimentari, è testimone ogni pagina di questo libro, in fondo al quale, tuttavia, risuona la rabbiosa protesta di chi non vuole arrendersi all'evidenza della sopraffazione: e scrive, perché proprio il silenzio sarebbe la resa finale e senza ritorno.
Orhan Pamuk - "Il castello bianco" (Einaudi, 2006)
Il premio Nobel per la letteratura vinto dallo scrittore turco Orhan Pamuk, secondo alcuni, è più un omaggio alle battaglie civili da lui sostenute, ad esempio sul genocidio degli armeni, che alle sue virtù letterarie. Chissà. Comunque sia, ogni testo va valutato nel suo specifico contesto, come questo romanzo, originariamente pubblicato in Turchia nel 1979. Pamuk parte da uno spunto tipicamente avventuroso: un giovane veneziano del Seicento che viaggia per mare alla volta di Napoli, viene catturato da pirati turchi e dopo aver conosciuto il Pascià di Istanbul, che cerca invano di convertirlo all'Islam, viene venduto a un singolare astrologo. La prima cosa che lo colpisce è la straordinaria somiglianza fisica tra lui e il nuovo padrone, che tutti chiamano "Maestro": sulle prime sembra l'unico ad accorgersene, poi il fatto diviene di dominio pubblico e in qualche modo porta il rapporto tra i due uomini in una dimensione diversa. Il Maestro, in realtà, mostra grande curiosità per le sue conoscenze di gentiluomo occidentale e in qualche modo si appoggia a lui per verificare i suoi progetti, che sono molti ma spesso confusi, bisognosi di qualcuno che li indirizzi nella giusta direzione. I due vivono in uno strano isolamento, approfondendo progetti di vario tipo che contribuiscono ad avvicinarli sempre di più, sia pure tra pregiudizi abbastanza normali tra uomini di formazione diversa. Tanto vulcanico e irascibile è il Maestro, tanto cauto e razionale l'italiano, che pur riluttante inzialmente a farsi coinvolgere dall'ambizioso astrologo, finisce per lasciarsi invischiare nelle sue smanie speculative. Il progetto, dopo molti anni di febbrile e dispersiva attività, portata avanti anche durante un'epidemia di peste, sembra concretizzarsi nella costruzione di una nuova macchina da guerra, che il Maestro, dopo molti tentativi riesce a far adottare dall'esercito turco del sultano Maometto IV, che si sposta fino alla Polonia. Qui però l'ingombrante marchingegno non funziona affatto e l'ira delle truppe, dopo lo smacco, si sposta sull'italiano: prima che quest'ultimo ne faccia le spese, però, il Maestro scambia con lui i suoi vestiti e si allontana per sempre. Il racconto s'immagina narrato dallo stesso gentiluomo veneziano, e a sua volta ritrovato dall'autore in una vecchia biblioteca, secondo un tipico espediente romanzesco, ma il succo della vicenda sta nell'evidente metafora che muove il libro. L'incontro tra il gentiluomo e il Maestro rappresenta infatti l'ennesimo capitolo dell'infinita dialettica culturale tra Oriente e Occidente, e Pamuk è certo molto abile a giocare sul tema della somiglianza fisica e dello scambio di ruoli tra i due, che ammanta di ambiguità il finale. Come se lo scrittore turco volesse sottolineare che i due poli, in fondo, hanno in comune molto più di quanto possa apparire e che da questo confronto, a volte drammatico e alimentato da opposti estremismi, sia meglio cogliere il frutto positivo di una lunga storia di reciproca fascinazione culturale. Indirettamente, sembra anche un atto di fede nel dialogo tra le due civiltà e quindi nella speranza che solo in questo sforzo di guardarsi allo specchio, come accade ai due protagonisti del libro, ci si possa riconoscere senza pregiudizi. Si tratta dunque di un romanzo generoso e interessante, più che mai attuale per gli argomenti che mette in gioco, anche se la scrittura di Pamuk, in certi snodi, può apparire fin troppo cerebrale nel sottolineare la vischiosa atmosfera psicologica che lega i due personaggi. In ogni caso, un romanzo di peso, inventivo e soprattutto acuto nel cogliere il complesso groviglio di tante incomprensioni.
Gianrico Carofiglio - "Ragionevoli dubbi" (Sellerio, 2006)
Nell'ormai nutrita schiera degli scrittori italiani appartenenti al mondo giuridico trova posto anche il barese Gianrico Carofiglio (classe 1961), magistrato e autore già discretamente noto. Quest'ultimo libro conferma la qualità della sua scrittura e lo spessore del suo personaggio prediletto, l'avvocato Guido Guerrieri, qui alle prese con un caso particolarmente spinoso. Accade infatti al nostro protagonista, ancora sofferente per la fine di un amore, di venire interpellato per difendere un detenuto che attende il processo. Il nome dell'uomo, Fabio Paolicelli, da principio non gli dice niente, ma poi lo mette a fuoco: si tratta dello stesso picchiatore fascista che molti anni prima, negli anni violenti della politica, era conosciuto come Fabio Raybàn, per via degli immancabili occhiali neri che portava in ogni occasione. E' un ricordo sgradevole, perchè lo stesso Guerrieri fu vittima di un'aggressione fisica da parte di un gruppetto del quale lo stesso imputato faceva parte. Combattuto tra rancore personale e scrupolo professionale, Guerrieri incontra comunque l'uomo, un quarantenne implicato in una faccenda delicata: la sua auto, di ritorno da un viaggio in Montenegro con la moglie, è stata ritrovata carica di stupefacenti, ma lui si proclama innocente, pur confessando di aver commesso, in passato, molti errori. In realtà a far decidere l'avvocato per l'incarico è soprattutto la bella moglie di Paolicelli, una donna per metà giapponese, che dimostra di ricambiare le sue attenzioni e anche di avere fiducia nelle sua capacità di assistere il marito. Tra i due, con tutte le cautele del caso, nasce in effetti una relazione che porta Guerrieri a sentirsi continuamente in colpa verso il suo assistito, sebbene il ricordo dell'umiliazione giovanile sia ancora molto viva: alla fine si mette al lavoro per cercare le prove che scagionino il Paolicelli, quasi per placare i suoi scrupoli di coscienza. Tramite un amico riesce a trovare le prove che il Paolicelli è stato vittima di un raggiro nel quale è coinvolto un suo collega di dubbie frequentazioni, e nel processo che segue dimostra abilmente l'innocenza del suo assistito nonostante tutto sia contro di lui. Un vero successo professionale, certo, ma anche l'amara interruzione del rapporto con la bella moglie di Paolicelli tornato libero. Il romanzo di Carofiglio è davvero congegnato con intelligenza e ci porta con mano sicura all'interno di questo giallo forense senza mai perdere di vista, per altro, la complessa personalità del suo eroe: un figlio dei tempi, capace di guardarsi vivere con il giusto mix di ironia e disincanto, e sempre consapevole degli infiniti compromessi di cui è fatta la sua vita, professionale e non. Alla fine, tutto il libro segna l'apoteosi di questo avvocato che sa uscire a testa alta da una situazione intricatissima, anche a costo di perdere la felicità appena conosciuta e mettersi contro personaggi molto pericolosi. Attraverso questa figura positiva, oltretutto, Carofiglio sa illuminare le zone d'ombra della pratica legale nell'Italia di oggi, compresa la disinvolta deontologia di alcuni avvocati che non hanno gli stessi scrupoli morali del suo Guerrieri. Il libro si legge con interesse e partecipazione, gustando sia l'acuto ritratto psicologico delle diverse figure che la fine autoironia del protagonista, senz'altro uno dei caratteri più riusciti e credibili della recente narrativa italiana.
Alexandre Jardin - "Una famiglia particolare" (Bompiani, 2006)
Nessuno sceglie il proprio nome, né la famiglia in cui nascere, e la vita spesso non è che una lunga disputa tra ciò che si vorrebbe essere e quello che siamo già prima di venire al mondo. Di questo deve essersi convinto Alexandre Jardin, che scrive questo romanzo come una sorta di tardivo omaggio a una di quelle famiglie, la sua, che sembra davvero nata sotto il segno dell'anticonformismo e dell'eccesso. Il libro è strutturato come una continua oscillazione tra il passato e il presente: ogni episodio della propria infanzia e adolescenza è rivissuto a distanza di tempo come il segno di un destino che non si può eludere, proprio perché nutre ogni ricordo e caratterizza in modo indelebile le fasi della propria esistenza. In questa famiglia, un posto d'onore spetta alla nonna, soprannominata Archibugio appunto per la sua natura "esplosiva", che vive alla Mandragore, una vecchia villa in Svizzera dove il giovane nipote si rifugia durante le vacanze. Più che la madre e il padre, anch'essi tutt'altro che "banali", è questa donna del tutto priva di convenzioni, ribelle a ogni consuetudine borghese e perfino a riconoscere la società in cui vive, che illumina di stupore e di dubbi il giovane Jardin: vorrebbe trovare un ordine di base minimo e rassicurante, magari per poterlo trasgredire come succede ai giovani, ma la sua famiglia lo anticipa e lo disarma coi suoi atteggiamenti scandalosi e bizzarri. Se la vulcanica nonna, tra le altre cose, incoraggia e dà ricetto nella sua villa a tutte le coppie di amanti segreti, non da meno sono lo zio Merlino e il Nano Giallo, coi loro nomignoli eloquenti. Il primo è un inventore decisamente sui generis, dedito a realizzare imprese grandiose ma del tutto superflue, ad esempio "svuotare il lago di Ginevra come una vasca da bagno", e perciò cronicamente votato al fallimento; il secondo, consorte della nonna, un vitalissimo avventuriero dai mille traffici, non sempre trasparenti, conosciuto per la sua bassa statura e per la sua incredibile capacità di far fortuna in ogni modo. Il racconto di queste figure quasi mitiche, per quanto ingombranti, sprizza un umorismo irresistibile e genuino, semplicemente connaturato alle gesta assurde, eccessive e inspiegabili che si avvicendano nel libro. Di pari passo con la rievocazione di queste memorie famigliari, Jardin scandisce anche le tappe della sua crescita: prima sofferta, a causa proprio di questi esempi parentali che non sa gestire, e poi più consapevole, una volta constatata la vitalità che gli viene appunto dai suoi geni. L'aura leggendaria di queste figure col tempo si fa chiaroscurale, magari qualche tratto trova spiegazioni più reali e meno nobili, ma il protagonista sa bene che ogni stilla di creatività e intelligenza in suo possesso viene solo da loro, e l'imbarazzo di una volta diventa venerazione e gratitudine: da quella sfilata di eccessi e intemperanze, amori clandestini e passioni senza limiti, è scaturita in fondo anche la sua vocazione di scrittore. Al punto che quando viene a sapere di un diario scrupolosamente redatto dalla nonna fin dal 1922, e depositato a Ginevra, dal titolo "Registro degli amori dei Jardin", spalleggiato nientedimeno che da Alain Delon in persona (convinto ammiratore della famiglia) decide di lasciarlo intonso a tempo indeterminato. Alexandre Jardin, che già ha dedicato un libro al padre scrittore ("Zubial", 1997), ha imbastito un romanzo di grande felicità espressiva, dove la leggerezza del racconto si coniuga alla matura scioltezza dello stile, capace di assemblare in un compiuto mosaico umorismo, affetto e malinconia. Si legge con interesse dalla prima all'ultima pagina, e alla fine si pensa che ogni famiglia che si rispetti dovrebbe avere qualche vena di salutare follia nel proprio sangue: la vita, altrimenti, è troppo noiosa.
Valerio Magrelli - "Disturbi del sistema binario" (Einaudi, 2006)
Nel corso degli anni, la voce ormai affermata di un poeta come Valerio Magrelli (Roma, 1957), ha sviluppato un timbro meno perentorio, meno limpido ad esempio rispetto all'esordio folgorante di "Ora serrata retinae" (1980), ma anche più generoso e disponibile a catturare il pluralismo della realtà in tutte le sue variabili. Questa sua nuova raccolta, sette anni dopo "Didascalie per la lettura di un giornale", conferma l'impressione di un autore attento a non chiudere la porta al corso degli eventi, lasciandosi attraversare dalle voci del mondo, senza però rinunciare a interrogarlo sulla base delle proprie domande più intime. Il libro è diviso in tre parti, ognuna rispondente a un'angolazione diversa dello sguardo. "Nella tribù", come ben sottolinea il titolo, s'immerge nella dialettica spinosa del caos sociale e politico di questi anni, arrischiando opinioni e condanne di parte attraverso l'utilizzo di un'arma come l'ironia, che sa incidere soprattutto nei versi dedicati ai media invadenti e al turismo di massa. I versi hanno un andamento solo apparentemente svagato e sornione, quasi epigrammatico a volte, capace sempre, però, di lasciare il segno come una lama a lungo affilata al fuoco della riflessione civile: "Non c'è legalità fuori da quel legame / dove si stringe per meglio liberare" (in "Coro sulla legalità"). A questa prima parte segue una sezione come "La volontà buona", che recupera invece il mondo privato degli affetti e dei legami profondi. All'ironia fa luogo un repertorio di verità intime e carnali, depositate nel corpo e nella memoria in maniera sempre più stringente, quasi a chiudere il cerchio fisiologico con chi è all'origine: "(...)gli ossuti, gli afflitti, i consunti, / ecco metà del mio sangue, / il fantasma di cui sono il lenzuolo" recitano i versi di "Un padre". Dai padri ai figli il passo è breve, e proprio a quest'ultimi Magrelli dedica i versi più belli e significativi della raccolta: "E mentre tutto frana senza senso, / sali le scale e sembri dirmi: ' Vivi / per me.' Torni da pallavolo, / ma nella sacca mi porti l'antidoto, / tu stessa, ampolla, antidoto del male." In questa pienezza del sentire, il poeta romano riesce a far convivere sentimenti anche discordanti, quando un dato di fatto come il tempo che brucia implacabilmente è insieme fine e nuovo inizio, doppio indissolubile come una legge di natura. Splendidi, in questa chiave, i versi di "Elegia": "Ciò che ti è caro muore, ciò che muore / ti è caro, se qualcosa ti è caro, / è perché muore. Ed ecco il corollario: / 'Ciò che ti è caro, è solo la sua morte'". In bilico tra desiderio e angoscia, questi versi sembrano nascere da un dissidio interiore in cerca di una risposta forse impossibile. Nell'ultima parte, "L'individuo anatra-lepre", si prova a cercarla nell'archetipo del "doppio", esemplificato qui dall'immagine ambigua che si può leggere in due modi prima di coglierne la reale e indivisibile ambivalenza. Il poeta confessa per primo il suo fallimento: aver creduto alla sacralità della lingua e della parola, senza mai cogliere la realtà ineludibile del Male, descritta come "una età del ferro, del silenzio." Desolato nel suo epilogo, il libro di Magrelli denuda e fa poesia delle sue fragilità di fronte alla babele in atto: lo fa come poeta e uomo cosciente dei propri limiti, ben sapendo che anche le domande, da sole, sono il primo passo per trovare la strada.
Daniel Kehlmann - "La misura del mondo" (Feltrinelli, 2006)
Coniugare la storia e la scienza con la narrativa non è sempre agevole, soprattutto dall'inconsueta angolazione scelta da Daniel Kehlmann, poco più che trentenne ma già molto noto in Germania per i suoi libri precedenti. Di formazione filosofica, lo scrittore tedesco sembra aver voluto focalizzare nel suo romanzo, ma senza alcuna pedanteria, riflessioni indubbiamente stimolanti sul difficile rapporto tra la mente scientifica e la società storica nella quale si trova ad agire. In questo caso, Kehlmann ha immaginato di seguire le peripezie per certi versi contrapposte ma parallele di due scienziati del tardo Settecento tedesco, figli della cultura illuminista: da un lato Alexander von Humboldt, geografo di primaria importanza, e dall'altro il celebre matematico Carl Friedrich Gauss. La scommessa, come detto, è quella di far emergere i dubbi e le incomprensioni che uno scienziato può incontrare nell'affermazione delle sue scoperte, ma anche nel suo privato, circondato com'è quasi sempre da un misto di scetticismo e indifferenza che fiaccherebbero chiunque avesse meno convinzione nel proprio genio. L'aspetto più curioso, però, è che lo sguardo di Kehlmann sia caduto su due caratteri davvero molto diversi tra loro, divisi per indole e anche nell'approccio con gli aspetti pratici della vita. Se Von Humboldt, infatti, è il prototipo e perfino l'archetipo del grande esploratore che si avventura in territori ancora vergini incurante dellle difficoltà logistiche, solo per misurare e catalogare, letteralmente, ogni monte, fiume, animale, pianta e porzione di terra incontrata sul suo cammino (dalla steppa al fiume Orinoco), Gauss appare invece come il suo esatto contraltare: pigro e indolente, profondamente avverso ai viaggi e alle novità, sta benissimo solo nella piccola Gottinga, dove pure la sua mente formidabile mette a punto calcoli e intuizioni che cambieranno le scienze matematiche, come ad esempio la curvatura dello spazio. Il tono dello scrittore conserva sempre una patina di arguto umorismo che rende la lettura assai godibile, restituendoci due ritratti a tutto tondo di uomini geniali che il loro tempo, come da manuale, non sempre intese a dovere, dunque costringendoli spesso a vivere di compromessi. Gauss che si piega a piccoli lavoretti di agrimensura per sopravvivere e Humboldt, continuamente scambiato per suo fratello, sono la perfetta sintesi di quanto una mente creativa e in anticipo sui tempi possa rimanere impantanata per anni, prima di veder riconosciuti i suoi meriti. L'incontro tra i due scienziati ormai anziani, durante un fastoso ricevimento a Berlino nel 1828, conferma che al di là delle differenze caratteriali, entrambi hanno amato soltanto il proprio lavoro, con una passione divorante che spesso ha sacrificato anche gli affetti famigliari e le regole della buona società, pur di raggiungere i propri obiettivi. Un libro che trasuda intelligenza e divertimento da ogni riga mentre dice, al tempo stesso, cose di grande interesse e verità.
Gianni Biondillo - "Per sempre giovane" (Guanda, 2006)
Ci sono molti modi in letteratura per immortalare la giovinezza: si può costruire un percorso fitto di turbamenti e paure cucito addosso a un personaggio più o meno emblematico, ad esempio. Magari, secondo il modello del cosiddetto romanzo di formazione più classico, seguire detto protagonista in una sorta di lunga evoluzione interiore fatta di incontri decisivi e rivelazioni, e vengono subito in mente opere famose come "Demian" di Hermann Hesse. Gianni Biondillo (milanese, classe 1966) ha scelto invece una via diversa, e solo apparentemente più leggera. Ha immaginato che una donna, Francesca, rievochi un episodio preciso dei suoi anni giovanili al capezzale di un'amica di vecchia data, ricoverata in ospedale e in procinto di entrare in sala operatoria. Tanti anni prima, alla fine degli anni Ottanta a Milano, Francesca e le sue tre amiche, Paola, Daniela e Marisa, avevano deciso di mettere insieme un gruppo rock tutto al femminile, Le Viceversa: impresa che aveva il sapore di una sfida a tante convenzioni, e che poteva riuscire solo con una bella dose d'entusiasmo e convinzione. L'occasione del primo cimento vero e proprio è un concorso per artisti emergenti ad Ascoli. Le ragazze ovviamente non vedono l'ora, e si trova un furgoncino adatto per il viaggio, ma all'ultimo momento Marisa, la tastierista, per un un intoppo non può partire: a sostituirla è Sara, che non conosce la loro musica e all'apparenza è fin troppo timida per legare con le altre. Con una trovata di Paola, l'anima della band, l'inghippo viene superato e ha inizio l'avventura. Non sarà esattamente un trionfo, ma Le Viceversa si toglieranno le loro soddisfazioni, e soprattutto rafforzeranno un'amicizia nata sul campo, fatta di solidarietà e comune passione per la musica. Il meglio del libro sta nel montaggio spigliato e incalzante che Biondillo ha congegnato per raccontarci questa storia: i dialoghi sono freschi, hanno il sapore dell'immediatezza che nasce tra adolescenti quando stanno per mettersi alla prova, e sanno che l'importante è esserci comunque, farsi portare dalla vita e dagli imprevisti che accompagnano ogni nuova esperienza. Senza addentrarsi nell'analisi interiore, ma facendo comunque risaltare i diversi caratteri nella dinamica stessa degli eventi, "Per sempre giovane" offre uno spaccato tutt'altro che banale di una generazione meno celebrata di altre, se non liquidata con sufficienza (quella degli anni Ottanta, appunto), e scavalcando con una sua grazia sottile ogni pretesa sociologica, sa farci riscoprire il gusto della narrazione pura, divertita ma sempre attenta al dettaglio che mette a nudo un aspetto inedito. Come sempre avviene, infatti, il viaggio assume un significato anche metaforico di crescita personale, rivelando di ciascun personaggio un lato nascosto e imprevedibile. Alla fine ci si affeziona a queste giovani donne, e non si può fare a meno di ripensare alle proprie emozioni giovanili: con un pizzico di malinconia, ovviamente, che però non sminuisce affatto il piacere del racconto. Un romanzo agile e ricco di verità, che a suo modo lascia il segno.
Gabriel Trujillo Muñoz - "Il banchetto dei corvi" (Feltrinelli, 2006)
Trujillo Muñoz è un vero narratore di frontiera, e non per modo di dire: questo scrittore messicano (classe 1958) scrive appunto di uomini e storie che s'incrociano tra loro in quella fetta di terra a cavallo della linea di confine che separa Stati Uniti e Messico. Una terra, come l'attualità c'insegna, spesso teatro di feroci polemiche e attriti tra le due amministrazioni, che non trovano ancora modo di regolare l'emigrazione clandestina di molti messicani in cerca di fortuna. Lo scrittore ha scelto come protagonista delle sue trame un avvocato della capitale messicana, Miguel Angel Morgado, impegnato generosamente sul fronte dei diritti civili, e perciò spesso coinvolto in casi molto complessi, tra cronaca nera, corruzione e disperazione umana. "Il banchetto dei corvi" è una raccolta di cinque racconti di questo genere, nei quali Morgado si muove con tutta l'umanità dolente e consapevole di un messicano nato in provincia che poi è cresciuto a Città del Messico, dove ha abbracciato cause d'ogni tipo. È generalmente un uomo prudente, ma sa essere brusco e deciso quando serve: ha le sue fobie di cittadino, ma sa riconoscere la sofferenza vera delle persone che lo contattano per risolvere situazioni difficili e dolorose. Nella storia di apertura, "Mezquite road", l'avvocato torna dopo molti anni a Mexicali, sua città d'origine, per far luce sulla morte misteriosa di un uomo al centro di oscuri traffici, e scopre ch'esiste una strana banda di motociclisti dall'aria feroce e dallo spirito solidale, che offrono aiuto e assistenza: i Corvi, appunto. Il Messico lontano dalla capitale, appare così all'investigatore una continua fonte di sorprese, a volte amare, ma anche positive. L'ambiguità regna dovunque sovrana, e può capitare che le presunte vittime siano tutt'altro, come pure che nel cuore della corruzione generale sopravvivano sentimenti a prima vista insospettabili: la tenerezza per un'amica di gioventù ritrovata, ad esempio, è l'unica consolazione che resta a Morgado nell'intrigo paradossale di un altro racconto come "Messa in scena". Il paesaggio umano di queste storie è molto frastagliato, anche se scivola su binari narrativi che richiamano alla mente gli eroi dei romanzi di Chandler, naturalmente contestualizzati a dovere, e con in più una bella dose di umorismo latino. La forza di Trujillo Muñoz, in effetti, è la sua disinvolta orchestrazione di dialoghi sciolti e ficcanti, all'interno di una tecnica narrativa tanto agile nelle sue scansioni quando torbida e accidentata, per contrasto, è la materia di base. L'impasto tra forma e contenuto è decisamente brillante, insomma, e spiega il fascino accattivante di un libro che trasmette, alla fine, l'idea di un paese conflittuale e problematico, ma molto vivace, dove la cultura invasiva degli odiati gringos statunitensi sembra aver provocato una serie di reazioni ambivalenti: di emulazione, certo, ma anche di riscoperta della propria unicità rispetto al modello sociale di un vicino così ingombrante. Lo stesso Morgado inciampa spesso, durante le sue indagini, in un agente dell'FBI col quale a volte collabora, non senza però sentirsi continuamente sotto esame per le sue origini. Nelle reciproche punzecchiature tra i due, sembra proprio che Trujillo Muñoz abbia voluto sottolineare la diversità irriducibile di due paesi costretti a convivere senza mai amarsi davvero. Un motivo in più per trovare attuale, e ricco di verità umana, un libro come questo.
Serge Joncour - "Il privilegio di essere una star" (Newton & Compton, 2006)
Chi non vorrebbe, almeno per qualche giorno, sentirsi una star idolatrata dai mass media e guardata con venerazione dalla gente comune? Sembra che sia il sogno di molti, in una civiltà che si basa appunto sull'apparire e non sull'essere. Questo romanzo di Serge Joncour, già discretamente noto in Francia, vuol dimostrare che un ruolo tanto agognato può riservare anche brutte sorprese. Accade che il protagonista, un uomo di quarantasei anni senza nessun talento particolare, esca un giorno di casa e si accorga di colpo che tutti lo guardano in maniera diversa. È nel quartiere dove abita da anni, ma ogni sguardo che incrocia palesa per la sua persona un interesse che prima non c'era. Cosa è successo? Confuso e imbarazzato da quest'attenzione improvvisa, e perfino morbosa, il povero Georges Frangin non sa come comportarsi, e cerca di trovare una spiegazione. Forse è stato tirato in ballo a sua insaputa in qualche caso di cronaca? Sembra proprio di no. Alla fine si abitua all'idea che proprio la sua assoluta mancanza di qualità speciali, la sua noiosa normalità sia la molla che lo consacra come la star del momento. Sebbene stordito da questo repentino mutamento nella sua vita di sempre, Georges comincia a scoprire i vantaggi della nuova condizione: la gentilezza di chiunque lo avvicini, l'affetto un poco asfissiante ma sincero della folla, i piccoli privilegi che gli vengono riservati in ogni circostanza della giornata, dovunque si trovi. Un editore gli annuncia che sta per uscire una sua biografia, e gli consiglia come comportarsi per alimentare l'interesse dei media, ad esempio prendere posizione su argomenti ultrapopolari come qualche attesa sfida calcistica. A volte perplesso, ma sempre più a suo agio nei panni del vip di turno, il nostro protagonista segue la corrente benigna senza più opporre resistenza. Il problema, però, non è tanto giungere alla fama, ma conservarla a lungo. Così com'era arrivata nella sua vita, da un giorno all'altro la fama lo abbandona lasciandogli l'amaro in bocca. Quella ideata da Joncour è una parabola esemplare sulla nostra epoca affamata di volti e icone capaci di soddisfare la curiosità vorace, e un poco ottusa, della gente: degli specchi dove ognuno può proiettare o sublimare desideri, pulsioni segrete o semplicemente un voyeurismo sempre più diffuso. L'autore costruisce la vicenda con il puntuto umorismo di chi ha ben compreso la costante ambiguità, e soprattutto la casualità inquietante del successo mediatico: nell'età dei reality e del trionfo della "normalità", non conta neppure avere doti o meriti specifici per diventare di colpo popolari. L'importante è capitare al momento giusto sotto la lente onnivora dei media, incontrando casualmente i bisogni temporanei del pubblico, e il gioco è fatto. Tuttavia, poichè questa fama improvvisa è capricciosa e indipendente da ogni criterio razionale, non si può far nulla per trattenerla più di un battito di ciglia appena il vento cambia. La scrittura di Joncour ha il freddo sarcasmo degli illuministi, e anzichè addentrarsi nei dettagli realistici del suo protagonista, preferisce eleggerlo ad archetipo perplesso di un sistema malato che non ha bisogno di qualità quanto di stereotipi. Il risultato è un racconto alla Voltaire: c'è dunque intelligenza, gusto della satira e fine capacità di osservazione, ma anche un pizzico di supponenza che forse disinnesca le potenzialità più strettamente romanzesche del testo.
Albinati & Timi - "Tuttalpiù muoio" (Fandango Libri, 2006)
Curioso libro a quattro mani, questo, dove Edoardo Albinati e Filippo Timi, narratore già sperimentato il primo, poco più che trentenne attore teatrale il secondo, mettono in scena un personaggio singolare che pare uscito dal piccolo mondo antico della provincia italiana profonda. Lui si chiama Filo ed è abbastanza chiaramente ricalcato sull'esperienza reale dello stesso Timi, che nasce al mondo in quel di Ponte San Giovanni, piccolo paese umbro dove cresce tra una serie di problemi e ansie che ne acuiscono la precoce sensibilità. Affetto da lieve zoppia fin dai sei anni, praticamente obeso e innamorato dell'unica ragazza del gruppo di coetanei, l'ineffabile Sonia, Filo ha modo di sperimentare col suo candore le prime crudezze della vita. Il sesso ad esempio, misterioso buco nero dove tutto è confuso, e si rischia di venire messi in mezzo da qualche ragazzino troppo sveglio, col rischio di sentirsi per anni incapace di vivere i propri sentimenti. Il racconto sulle avventure, ilari e crudeli, del giovane Filo si dipana con uno stile nervoso e impressionista che lascia emergere una scandalosa propensione all'immediatezza, al gusto dell'eccesso in ogni campo che forse, in realtà, è solo la scommessa di chi non ha niente da perdere e sceglie di far saltare il banco. Ovvio che lo sbocco più naturale per un simile temperamento sia il palcoscenico, e infatti Filo, dopo le prime recite al paese, si ritrova a Roma in cerca di conferme come attore. Incontri, amicizie e affetti infelici, sul filo costante di una disperata vitalità, ci vengono narrati in una successione di episodi che odora di diario intimo, di quelli che per anni abbiamo chiuso a chiave nel cassetto, ma poi un giorno è bello, e liberatorio, mettere in piazza per dire: ecco qua, io sono così. Il contrasto tra la dimensione dell'infanzia, con tutti i suoi retaggi di ruspante presepe non sempre allegro, e quella del passaggio alla metropoli cone le sue asprezze anche pratiche (pochi soldi, sregolatezza, solitudine), sortisce come effetto un libro parimenti sregolato e debordante, scritto come in preda a un attacco febbrile. Questo è vero soprattutto per le storie d'amore omosessuale, che non sempre possono esprimersi e quando lo fanno travolgono tutto, lasciando sul campo morti e feriti. Il giovane Filo, tra una messa in scena e l'altra, dove almeno sa farsi amare davvero per le sue qualità istrioniche, alla fine di questo pendolarismo psicologico sente il richiamo di una dimensione più stabile, e finisce per sposare una delle sue amiche romane. Ovviamente al suo paese, immerso nel coro coloratissimo e mordace di amici, parenti e paesani: è la parte finale del libro, tutta scritta nelle cadenze del dialetto in un trionfo di minuto realismo al vetriolo, una sorta di "Malavoglia" in salsa perugina. A suo modo, irresistibile. Ci sono, nel romanzo, personaggi e situazioni che lasciano il segno, come la madre o l'amata Sonia Sorci, schizzati o carezzati nella tipica altalena di amore e insofferenza che finisce per formare quel grumo emotivo che ognuno si porta dietro nel mondo, e di fatto costituisce la sua vera personalità. Anche se non lo si è scelto, certo, ma siamo quel che siamo, e bisogna danzare.
Il'Ja Stogoff - "mASIAfucker" (Isbn Edizioni, 2006)
Ogni viaggio ha una sua motivazione, istintiva o razionale che sia: si parte per conoscere, per fuggire da una realtà insoddisfacente, o per inseguire un preciso obiettivo. Il libro di Stogoff sembra riassumerle tutte, ma sotto il dato unificante del ritorno a casa finale, dove qualcuno ci aspetta. La storia è quella di un trentunenne redattore di San Pietroburgo, da poco sposato e con un figlio, il quale scrive di musica pop per una rivista moscovita. Un giorno, mentre è a Mosca per ritirare il suo stipendio, decide d'impulso che non vuole rientrare nella sua città e sale sul treno per la prima destinazione disponibile, cioè Taskent, in Uzbekistan. Da lì il suo viaggio si dipana attraverso luoghi e città remote dell'ex impero sovietico, dove l'esotismo leggendario dei nomi (come Samarcanda) è inversamente proporzionale al senso di estraneità e disagio del giovane russo, nutrito di umori e abitudini occidentali. Non solo i paesaggi, sempre più asiatici e desolati, ma gli abitanti stessi e il profondo degrado che lo circonda progressivamente fanno del suo viaggio una sorta di scoperta traumatica dell'immenso puzzle etnico di quello che in fondo è pur sempre il suo paese. Naturalmente, più avverte chiara la sensazione di non capire e non essere capito, tanto più questo spaesamento lo riporta a definire meglio la sua vita, le sue radici, e le cose che veramente contano. Partito con poco o nulla, a parte lo stipendio appena intascato a Mosca, la mancanza di tutto ciò che a lui sembra ovvio (una stanza decente e pulita o una civile conversazione) lo costringe a rimpiangere proprio quello da cui fugge. Solo dopo l'approdo a Novosibirsk sente di essere rientrato in un mondo familiare, e ripassando per Mosca, laddove aveva preso il volo, chiama gli amici della rivista per un saluto. Che ti è successo, gli chiedono, dove sei sparito? E lui: "Io? Non sono sparito. Mi sono ritrovato." E' la sintesi migliore del libro: viaggiare ha un senso soltanto se la traiettoria è circolare, e alla fine ti riporta al luogo di partenza. Il racconto di Il'Ja Stogoff, scritto con una grande freschezza stilistica che accosta con occhio limpido immagini, ricordi e personaggi, passando di continuo, e senza retorica, dall'ironia allo smarrimento, ha comunque il merito di non farsi mai portavoce di una tesi precostituita. Qui c'è davvero l'urgenza psicologica di perdersi per rinviare ancora doveri e responsabilità, tuffandosi in territori ignoti: ma l'ignoto è vivo e palpitante, non è uno scenario astratto da attraversare con gli occhi chiusi. La corruzione dilagante a ogni livello, le folle miserabili che assalgono i treni per derubare i viaggiatori, l'arretratezza di città senza tempo e la diffusa ostilità verso il protagonista, russo come l'odiato potere centrale, sono tappe di un tangibile inferno che lascia il segno, bilanciato solo in parte da qualche figura più benigna, come il prete di Novosibirsk. Il paradosso, che diventa appunto la tesi a posteriori del libro, è che senza quell'immersione fisica in una dimensione così dolente e diversa, che lascia turbati e stremati, non è possibile conoscersi, misurare davvero i propri limiti e i bisogni più veri. Un romanzo di grande interesse, che è anche un prezioso taccuino di viaggio nel cuore di antiche civiltà che il crollo dell'URSS, con tutto quello che poi è seguito, ha condannato all'oblio e alla miseria.
Pierre Bourgeade - "Crashville" (Newton & Compton, 2005)
La lettura di questo romanzo ha l'effetto di resuscitare i più illustri fantasmi della scena letteraria francese. Questo perché Pierre Bourgeade (classe 1927) è rimasto oggi uno degli ultimi cantori della Parigi più nera, non quella che finisce sulle cartoline, ma proprio la capitale infame che già Baudelaire aveva immortalato nei suoi versi. Anche l'autore ama questo lato segreto della città e non nasconde, semmai sincronizza efficacemente ai giorni nostri, le ascendenze di scrittori come Céline e compagnia per condurci con mano ferma e tono asciutto nel cuore di vite alla deriva, nei quartieri del sesso e del crimine. I personaggi di questa storia che trasuda morte si chiamano Grubudu, l'Albino, Monica, e nessuno di loro emana un qualsiasi alone di simpatia, quasi che Bourgeade violasse di proposito, in maniera programmatica, una delle leggi del romanzo: provocare l'immedesimazione tra lettore e protagonista per sedurlo poi nell'ordito narrativo. Il solo sentimento che abita queste pagine è la desolazione umana e una sorta di cruda indifferenza per ogni valore. L'Albino gestisce un piccolo bistrò, che Grubudu, omicida di sconosciuti incolpevoli, frequenta assiduamente. Una sera nel locale entra una coppia misteriosa ed elegante, scesa da una lussuosa Rolls con tanto di autista, e il barista riconosce nella donna nascosta da un cappuccio Monica, la modella di un peep show dove lui stesso lavorava. Tempo prima l'aveva ospitata e aiutata in un momento di difficoltà, salvo poi venirne derubato nel sonno di tutti i risparmi di una vita. Mette a parte Grubudu della faccenda, e insieme i due decidono che deve scattare la vendetta. Con fredda lucidità, Grubudu segue e ricostruisce gli spostamenti della donna e del suo protettore, uno spietato e glaciale maniaco che lavora in un'agenzia di modelle. Dopo aver ricattato Monica, che coi soldi trafugati all'Albino ha pagato i suoi debiti, lui le ha offerto di diventare sua schiava personale, in cambio di una vita protetta e a suo modo privilegiata. La ragazza accetta, ma periodicamente ha bisogno di frequentare dei locali dove uomini sconosciuti fanno l'amore con lei. Grubudu capisce che il modo più sicuro di vendicarsi è proprio quello di far saltare in aria uno di questi locali: per questo ricorrerà a un gruppo di giovani africani che da tempo ha in mente un attentato di questo tipo. Tutto va come previsto, ma i due amici diabolici non avranno molto tempo per assaporare il gusto della vendetta. La storia è questa, ma quello che colpisce è la facilità psicologica, e la logica aberrante, con la quale due persone architettano la carneficina senza dubbi di sorta. Bourgeade ha lo stile sintetico degli osservatori nati, non spende mai una riga in più di quello che serve a descrivere ambienti che sembra conoscere come le sue tasche. Senza psicologismi, la sua prosa va dritta al sodo con precisione chirurgica, e tra dialoghi di scarna incisività e scenari di violenza e degrado ci racconta non solo l'altra Parigi odierna, ma più in generale una realtà malata, dove chi è fuori dal giro che conta può allevare in sé soltanto una pulsione nichilistica di morte che non conosce leggi e regole. Perché semplicemente non ci crede più, e non ha più niente da perdere.
Giuseppe Montesano - "Magic people" (Feltrinelli, 2005)
Dopo l'exploit davvero notevole di un libro come "Di questa vita menzognera", Giuseppe Montesano sembra sterzare verso una curiosa forma di racconto polifonico in presa diretta. Più che un romanzo, infatti, "Magic people" ha tutta l'aria di un'incursione nell'umanità variegata di un immaginario condominio popolare, traversato da umori e follie non troppo immaginarie. L'uso del parlato napoletano, che contamina tutta l'opera dell'autore, viene qui esaltato dal particolare montaggio a pannelli: ogni capitolo è un set quasi teatrale, dove le voci dei protagonisti sono costantemente in primo piano e si rincorrono fino al parossismo, a malapena intercalate dai commenti prima stupiti e poi sconsolati del dottore, come tutti lo appellano, sorta di portavoce impotente del punto di vista razionale. Lo scontro in verità sembra perso in partenza, perché queste voci, queste tribù familiari colorate e chiassose, sovrastano e mettono in rotta ogni fondato dubbio, qualunque tentativo di ragionare in termini sensati. Montesano sceglie di lasciare il massimo spazio a un tale coro assordante, in modo che il magma lavico di questa babele contemporanea erutti dal profondo e s'imponga senza filtri. Più che un oppositore, alla fine, il suo esterrefatto inquilino sembra un testimone ridotto all'afasia, messo in fuga da tutta la volgarità travolgente che ha davanti. E così abbiamo modo di conoscere uomini, donne e ragazzi con i loro desideri assurdi, mutuati dall'oscenità del linguaggio televisivo e pubblicitario. Ognuno di questi personaggi è mosso da una sorta di cupa ingordigia, da un disperato bisogno di apparire, godere, arricchirsi: in una parola, consumare. Come in un incubo ascoltiamo una successione di sogni malati, che davvero sembrano il frutto, moltiplicato per mille, di tutta la paccottiglia mediatica di questi anni. In una girandola delirante, che stordisce e quasi ipnotizza, siamo testimoni di furibonde discussioni tra intere famiglie che si accapigliano e straparlano in nome del proprio interesse, pur di non farsi sfuggire l'ultimo miraggio a portata di mano e di portafoglio, al di là di qualunque ritegno e senso del lecito. Il meccanismo studiato da Montesano, qua e là, può apparire anche un po' meccanico, come accade a volte a certi maestri dell'aforisma, invariabilmente pessimisti sull'animo umano, eppure un tale accumulo di meschinità, cinismo e ignoranza alla fine lascia davvero senza parole. La bravura dello scrittore campano si accende proprio nel corto circuito tra il tic linguistico/pubblicitario e il debordante timbro dialettale che produce effetti dirompenti, fino al comico più grottesco. Da ultimo, a essere onesti, viene da chiedersi cosa c'è dopo, se ancora è possibile articolare un discorso in margine allo scenario davvero tossico di queste pagine, per ritrovare il filo smarrito. E' come quando si supera la barriera del suono: alla fine l'orecchio umano non sente più che un ronzio uniforme, senza poter più distinguere una voce dall'altra, e tornare a comunicare è impossibile. Montesano, naturalmente, ha detto la sua da scrittore che conosce bene il suo mestiere e la realtà che osserva: alle domande problematiche che il suo libro ingenera, è chiaro, sono altri che devono rispondere.
José Saramago - "Le intermittenze della morte" (Einaudi, 2005)
Tutti i romanzi di José Saramago, lo scrittore portoghese premiato col Nobel nel 1998, si reggono s'una sorta di paradossale scommessa, che sembra ogni volta sfidare il lettore. È possibile cioè avanzare un'ipotesi dichiaratamente surreale e di lì imbastire una storia, però narrata come se fosse in qualche modo realistica? Ricordiamo, in questo solco, libri particolarmente riusciti come "Cecità" o "L'uomo duplicato". Questa volta, l'estro supremamente ironico di Saramago ha pensato di chiamare in causa nientemeno che la morte, e con quella naturalezza che gli è propria ci cattura nelle spirali di una possibilità davvero inquietante sin dalla prima riga: "Il giorno seguente non morì nessuno." La morte insomma smette di operare e raccogliere la sua quotidiana messe di vite umane, interrompendo di colpo il suo spietato rituale. Le vittime di gravi incidenti, i moribondi, i malati terminali possono solo giungere sull'orlo dell'abisso, ma senza precipitarvi mai, respinti ancora nel mondo dei vivi. Da un lato seducente, come lo è da sempre per l'umanità la prospettiva dell'immortalità, questo fatto assolutamente sconvolgente nella realtà di tutti i giorni manda in crisi l'intero sistema del paese, come sempre imprecisato, che sperimenta la novità. Le famiglie non sanno come gestire i propri anziani malati in eterno, le pompe funebri si lamentano per l'improvviso crollo dei loro affari strettamente legati alla morte, e perfino la Chiesa sente messa in discussione la propria ragion d'essere, dato che senza la morte non c'è più resurrezione, e così via, in una catena di effetti che nella prosa irresistibile di Saramago assume contorni tragicomici, ma non solo. L'effetto straniante di questo romanzo non è fine a se stesso, come sempre accade negli autori più grandi, e accanto al sorriso vediamo a un certo punto affiorare qualcos'altro, più complesso e davvero imprevedibile. Quando la morte decide di riprendere a fare il suo dovere, infatti, e a spedire i suoi preavvisi in lettere di color viola, c'è un destinatario che proprio non vuol saperne: la lettera a lui indirizzata torna al mittente per ben tre volte. Sfidata nella sua autorità come mai prima, la morte sceglie di assumere fattezze umane, e si presenta come una bella donna bionda al cospetto di questo mortale refrattario. Tra lei e il violoncellista di mezza età che vive una malinconica esistenza, solo con il suo cane, nasce una sorta di inopinata attrazione che travalica ogni senso comune e dagli esiti imprevedibili. Alla dimensione sorridente della prima parte si affianca quest'ipotesi, davvero affascinante, che mette la nera signora di fronte a una delle sue vittime designate. Col rischio di doverla guardare negli occhi e perdere magari quell'indifferenza che la rende appunto sovrana assoluta dei destini umani. L'azzardo del romanzo è immaginare quel momento esatto in cui il cinismo assoluto di chi governa il destino altrui a occhi chiusi si scopre disarmato, e senza più certezze, davanti all'uomo in carne e ossa. Sorprendente proprio quando credevamo di aver capito tutto, il libro di Saramago provoca, diverte, e alla fine conquista con l'arte finissima di una scrittura che impasta magistralmente la coscienza dell'epoca e il mistero del vivere col gusto dei suoi paradossi. In una parola: imperdibile.
Fred Vargas - "Sotto i venti di Nettuno" (Einaudi, 2005)
Un romanzo giallo di questi tempi è come il prezzemolo: finita l'epoca che considerava il genere di serie "B", oggi ne escono a mazzi e non c'è scrittore che prima o dopo non ne sforni uno, non sempre personalizzato a dovere. Insomma, il rischio è quello dell'inflazione, ma ogni tanto si riesce ancora a pescare qualche bella sorpresa che ci ripaga di una certa mediocrità. Fred Vargas, nonostante lo pseudonimo, è una donna, e in Francia è già una celebrità. Il suo eroe è il commissario Jean-Baptiste Adamsberg, che opera a Parigi, e ha la calma e i tempi di un uomo diviso tra passato e presente, con alcuni conti in sospeso che gli conferiscono una certa propensione fantastica, una vaghezza che a tratti irrita il suo vice Danglard che, razionale e pignolo com'è, sta esattamente al polo opposto. Un giorno come tanti, nel commissariato devastato dal gelo per via d'una caldaia guasta, il giornale riporta Adamsberg a una storia del suo passato: quella di un potente giudice assassino, Fulgence, che uccise una ragazza armato di un tridente, e fece ricadere la colpa sul fratello del commissario, che lui riuscì a scagionare truccando qualche carta. Un nuovo delitto con tre ferite ravvicinate riportano Adamsberg all'arma del giudice e a quella pagina sbiadita. Vorrebbe indagare subito, ma è già prevista una trasferta nel Quebec per una serie di aggiornamenti tecnici: lui e altri elementi partono per quella che dovrebbe essere una tranquilla parentesi di lavoro. Invece non è così: una sera, uscito ubriaco da un locale, il commissario si addormenta sul sentiero per l'albergo, e al risveglio scopre che una ragazza del posto, che lui conosceva, è stata uccisa e gettata nel fiume. Tornato in Francia, è richiamato dai colleghi canadesi per una semplice formalità, ma capisce che qualcosa non torna: solo grazie alla robusta collega Retancourt, e al suo piano, riesce a sfuggire alla trappola e tornare in patria, facendosi passare per suo fratello gemello, scovato nel frattempo dopo trent'anni di silenzio. Si convince, tramite altre ricerche, che a inguaiarlo è stato proprio il giudice, per levarselo di torno una volta per tutte. A Parigi, protetto dalla vecchia Clementine e una sua amica, insospettabile hacker informatica, e con l'aiuto discreto dei colleghi che ancora credono in lui, Adamsberg riesce ad attirare il diabolico Fulgence allo scoperto, per regolare i conti ancora aperti. La trama è discretamente avventurosa, con la ricca parentesi canadese a fare da collante tra i ricordi e il presente, ma a fare la differenza è proprio la scrittura di Fred Vargas, compassata e puntigliosa sia nella descrizione dei personaggi che nel dettaglio rivelatore, dove il mistero infine si chiarisce. Manca completamente, ed è un bene, quella manciata quasi obbligata di sangue e atrocità sparse dovunque con un gusto sadicamente volgare in tanti noir odierni: Vargas opera a un livello più sottile, scava la psicologia e la personalità, e cerca le cause del delitto in una zona privata di cui peraltro sembra rispettare l'unicità tutta terrena, senza caricarla di significati esotici. C'è in questo libro il senso molto materiale, artigianale anzi, di una ricerca di spessore umano che non riguarda solo il commissario Adamsberg, ma perfino l'assassino. Ognuno ha i suoi fantasmi, e li coltiva come un piccolo cancro che una volta o l'altra va rimosso, ma non senza dolore e nuove ferite. Piace comunque la grazia femminile di certi momenti, quando il commissario, pensieroso e acciaccato, non trova miglior rifugio che la casa di Clementine e la sua cucina generosa, dove rimettersi in sesto per affrontare i demoni del suo passato che ritorna. Gran bel libro davvero, ottimo per rifarsi la bocca dopo troppi gialli senz'anima.
Vincenzo Cerami - "L'incontro" (Mondadori, 2005)
L'enigmistica vi attrae particolarmente? Allora questo libro fa per voi. Rebus e indovinelli vi lasciano del tutto indifferenti? Questo libro vi piacerà comunque. Non c'è contraddizione, perché "L'incontro" è un romanzo che potete leggere a più livelli, trovando in ogni caso buoni motivi per non rimpiangere i soldi spesi. Il motore della vicenda è Sandro Bulmisti, un docente universitario molto stimato e benvoluto per il suo carattere brillante, fin quando, dopo una memorabile serata nella quale copre d'invettive e critiche mirate amici e colleghi di una vita, scompare nel nulla senza lasciare indizi. La polizia non ha nessuna carta in mano per indirizzare le sue ricerche, dato che il professore viveva tutto solo da diversi anni. A colpire è proprio la mancanza di notizie attendibili sulla sua vita privata, come se in fondo Bulmisti, dietro la veste accademica, fosse per tutti un estraneo. Unica passione riconosciuta oltre agli studi è l'enigmistica, scoperta tardivamente e poi sfociata nella creazione di una piccola rivista da lui diretta, col contributo di alcuni colleghi. Proprio da qui, mentre le indagini ufficiali ristagnano e gli stessi colleghi sembrano darsi pace, parte la soluzione del giallo. Lud, un giovanotto di vent'anni, scopre per caso la rivista mentre è in vacanza con la sua fidanzata Mara, e dopo aver risolto facilmente tutti i rebus e gli enigmi, si concentra s'una lunga poesia che si rivela poi come l'enigma principe, quello che nasconde appunto la soluzione della misteriosa scomparsa di Bulmisti. Testardo com'è, Lud comincia a seguire le tracce offerte dai versi ingegnosi e oscuri del docente, spesso trascinando con sé la più scettica Mara in questa sfida costellata di sorprese. I due, incontrando persone e situazioni umane diverse, si ritrovano al centro d'una caccia all'uomo fisica e psicologica insieme, mettendo a nudo una serie di vicende che hanno a che fare con la storia d'Italia recente, quella degli anni Settanta e dintorni, col suo corollario di lutti e fanatismo ideologico. Intrigati e anche sconcertati da quanto vengono a sapere sulla vita personale del professore, specie dopo un viaggio a Parigi molto toccante, ma anche sugli anni bui del terrorismo che non hanno vissuto per motivi generazionali, i due ragazzi non sanno ancora che lo scioglimento di quell'enigma vale in realtà a risollevare la vita di un uomo che sentiva, amaramente, d'aver già tagliato i ponti con gli altri. È davvero sorprendente la quantità di temi e risvolti che Vincenzo Cerami ha saputo riversare nel gioco enigmistico, coniugando con estrema perizia il piano ludico e quello più psicologico della narrazione. Mentre infatti il lettore, tirato in ballo accanto a Lud e Mara nella ricerca dello scomparso, si appassiona fatalmente al gioco messo in piedi dall'autore, vede poi, lentamente, emergere un disegno complesso e più vasto, al centro del quale risuona fortissimo un dolore umano che forse è impossibile cicatrizzare, e che coinvolge una società che ha perso, colpevolmente, il dono e il dovere della memoria. Con tutto questo, è bene ribadire che il romanzo di Cerami si giova d'una scrittura proporzionalmente inversa all'ambiguità voluta della trama, cioè leggera e scorrevole, perfino divertente, come non accade spesso. A conti fatti, "L'incontro" è un libro che sa unire magistralmente il gusto più sano del racconto al senso profondo del ricordo e del tempo che non passa invano, finché non va perduta la sua lezione. Consigliato.
Patrick McGrath - "La città fantasma" (Bompiani, 2005)
Quando si dice gotico vengono alla mente i romanzi ottocenteschi e in generale un certo alone plumbeo e ombroso, dal quale sono scaturiti come sappiamo tanti capolavori letterari del passato. La narrativa di Patrick McGrath, già baciata dal successo, dimostra che si può scrivere goticamente anche ai nostri giorni. "La città fantasma" è un trittico di racconti che ha come centro New York, e meglio ancora alcuni dei suoi protagonisti più o meno esemplari, catturati in tre periodi diversi della storia cittadina. Ne "L'anno della forca", McGrath ci conduce in una fase drammatica della metropoli americana, assediata dalla peste nel 1832. Un uomo anziano, già minato dal male, rievoca in questo clima di morte la sua infanzia, quando in piena lotta per l'indipendenza della colonia americana contro l'Inghilterra, viene coinvolto dal patriottismo di sua madre in avventure che saranno fatali alla donna, e lo segneranno per tutta la vita. Ossessionato dal senso di colpa per averla tradita involontariamente, e quindi condannata a morte, il vecchio narratore sente che il contagio che incombe su di lui è insieme un giusto castigo e una liberazione dai suoi patimenti. La scrittura di McGrath mostra una mano ferma e sorvegliatissima nell'evocazione di un pezzo di storia americana che si rivitalizza nel ricordo individuale, nella coscienza di chi teme più i fantasmi del passato che la morte fisica ormai prossima. Una prosa limpida e priva di eccessi che si ritrova nel secondo racconto, "Julius", dedicata all'amore impossibile tra un rampollo idealista della nuova borghesia newyorchese di metà Ottocento e una modella di tutt'altra estrazione. L'inesperienza e la purezza di un sentimento appena sbocciato s'infrange contro le convenienze sociali e il freddo divieto paterno, che spinge il giovane pittore Julius alla follia. Sembra un racconto perfino banale, nei suoi tratti esteriori, ma McGrath impregna i singoli frammenti della storia d'una serie di annotazioni preziose, che tengono insieme psicologismo e finezza sociologica. Con l'ultimo dei racconti, "Ground Zero", si arriva ai giorni dell'attentato alle Twin Towers. Il racconto prende quella tragedia come sfondo, ma decisivo, di altre inquietudini personali, raccolte e analizzate da una psichiatra che segue da anni un uomo di mezza età. L'amore di questi per una pseudo-artista che si mantiene prostituendosi si colora d'una serie di ambiguità e rapporti incrociati che la psichiatra cercherà di sciogliere, districandosi tra sensi di colpa e perversioni che non è facile far emergere. Il piacere di entrare nell'atmosfera psicologica, a tratti malata, dei personaggi e del loro ambiente, si abbina in queste storie alla possibilità di comprendere come la Storia, ieri e anche oggi, non sia altro dal vissuto privato di uomini e donne, ma spesso un elemento condizionante, seppure in modo indiretto. Indubbiamente, il libro di McGrath ha il merito di sottolinearlo, oltre a quello di una scrittura e una capacità organizzativa del suo materiale davvero apprezzabile. Il suo è un gotico sofisticato, in cui le ombre e i fantasmi della mente non stordiscono il lettore con facili effetti, ma si offrono con una chiarezza quasi scientifica alla sua riflessione, oltre che ai sensi. Non è certo poco.
Sandro Veronesi- "Caos calmo" (Bompiani, 2005)
I romanzi di Sandro Veronesi (Firenze, 1959) sono da seguire con attenzione, perché l'autore toscano ha sempre dimostrato un acume particolare nel cogliere lo spirito del tempo in atto nella società italiana. Al centro di "Caos calmo", esemplare titolo ossimorico, c'è il quarantatreenne Pietro Paladini, che alla fine dell'estate ha perso la donna che stava per sposare. E' successo d'improvviso, durante le vacanze al mare, mentre lui e il fratello Carlo si lanciavano nel salvataggio di due bagnanti sul punto di annegare. La successione dei due eventi lascia Pietro in una strana situazione psicologica: più che addolorato è disorientato, colpito dalla casualità della vita. Non è stato vicino alla sua donna mentre moriva, perché lottava disperatamente per sottrarre alla morte una perfetta sconosciuta. Di colpo, comunque, e senza averlo veramente deciso, la gerarchia dei suoi valori subisce un repentino mutamento. Accompagnando una mattina la figlia Claudia a scuola, si accorge che è proprio lei l'unico senso che lo lega ancora alla vita, e da quel momento passa le sue mattine davanti all'edificio scolastico, senza neppure recarsi più all'ufficio. E' l'ufficio, anzi, a recarsi spesso da lui: la sua azienda sta per essere rilevata da una multinazionale, con tutto l'inevitabile serie di contraccolpi sul personale, e diversi suoi colleghi vengono a sfogarsi con lui, oppure a chiedere consiglio, come i dirigenti in lizza per la promozione ai vertici. In realtà, Pietro si accorge che di tutto questo movimento non gli interessa granchè, e proprio la sua calma, dopo il lutto che lo ha colpito, incute nei suoi interlocutori una sorta di rispetto. La sua sostanziale indifferenza, insomma, viene scambiata per la superiore saggezza di chi ha sofferto. In questo modo, Pietro si trova a raccogliere confidenze curiose, inaspettate, commoventi o ridicole, che di riflesso gli mostrano l'insensatezza della realtà e del mondo in cui lui stesso ha vissuto per anni. A coinvolgerlo, invece, sono dettagli o aspetti che prima considerava marginali. Marta, la bella sorella di Lara, gli dà modo di riflettere sul destino degli incontri e sulle ambiguità di ogni legame; la donna salvata al mare lo ritrova e con lei vive una liberatoria esperienza sessuale; il più sregolato fratello Carlo rivela dei lati insospettabili. A fare da collante a incontri e ricordi è la musica di un cd masterizzato trovato in auto, con le canzoni dei Radiohead, che sembra per un momento l'ultima forma di comunicazione tra lui e Lara. In questa terra di nessuno che è la sua vita dopo la tragedia, Pietro scopre la fragilità sua e degli altri, tutti prigionieri della fretta e delle proprie ambizioni, al punto da dimenticarsi ciò che veramente conta e può rendere migliore la vita, se solo si sceglie di seguirla. Ed è sua figlia Claudia, che senza darlo a vedere ha capito suo padre molto più di altri, a fargli intendere con la semplicità dei bambini che nessuno può essere prigioniero del passato o della paura. Veronesi ha scritto un libro importante, che si distingue per un andamento sornione ma sempre vitale, illuminato da lampi memoriali e rivelazioni inattese che danno corpo a un'esplorazione interiore molto intensa, a volte aspra, favorita proprio da tutta la sofferenza messa in circolo dai cambiamenti di scena non voluti. Dietro la metamorfosi e la lenta risalita di Pietro dal fondo del suo malessere, si legge anche tutto il disagio di far convivere oggi la fedeltà a se stessi con l'adeguamento agli standard sempre più logoranti che la società impone agli individui. E' in questa ferita aperta, forse insanabile, che un romanzo come questo trova la sua feconda ragion d'essere, e si raccomanda come un bell'esempio di narrativa sintonizzata, con lucidità e nessuna indulgenza, sui giorni controversi che ci troviamo a vivere.
Roddy Doyle- "Una faccia già vista" (Guanda, 2005)
Leggendo un libro come questo si capisce fin troppo bene come abbia fatto Roddy Doyle, irlandese classe 1958, a guadagnarsi un pubblico di lettori fedeli. Sulle tracce del suo personaggio, Henry Smart, già protagonista di "Una stella di nome Henry", ci ritroviamo ora negli States dei ruggenti anni Venti, il periodo che vede nascere la mafia italoamericana e l'astro nero di Al Capone. Cercando soprattutto di non farsi notare dalla comunità irlandese, visto il suo ruolo attivo nella lotta indipendendista da cui fugge, Henry impianta a New York alcune attività marginali che gli danno da vivere, ma anche qui c'è qualcuno che non lo vuole tra i piedi. Scampato miracolosamente alla morte, con la complicità di una donna bella e furbissima, fugge con lei vivendo nell'ombra, finchè approda a Chicago. Qui, convinto di poter finalmente cominciare un'altra vita, s'imbatte casualmente in un giovane ma già talentuoso Louis Armstrong, che sta cercando di emergere al di là di ogni discriminazione, e che lo vuole come suo uomo di fiducia. Capita poi che i due, nei giorni più neri, siano anche costretti a compiere piccoli furti nelle case, ed è proprio in una di queste imprese notturne che Henry ritrova incredibilmente la sua moglie irlandese, con la piccola figlia che ancora non conosce. Dopo un breve idillio popolato di fantasmi e ricordi, i problemi però si ripresentano, le strade della famiglia ricomposta si confondono ancora, e dopo un lungo vagabondaggio ai limiti dell'inedia, Henry rimane finalmente da solo con la consapevolezza di essere sopravvissuto, nonostante tutto, a una serie impressionante di emozioni e traversie. Doyle è un vero mago dell'arte del racconto: non vi lascia mai il tempo di annoiarvi o tantomeno distrarvi, perchè la sua prosa è ficcante e virtuosistica, tanto ricca di parentesi quanto di svolte imprevedibili. Più ancora che l'estro fantasioso, che fa inciampare il suo Henry in personaggi miserabili o celeberrimi (da Armstrong a Henry Fonda), colpisce soprattutto la capacità mirabolante di dare a tutta la vicenda un alone di abbagliante verosimiglianza: quello che altrove suonerebbe eccessivo o ridondante, qui acquista un peso necessario che appassiona e intriga in una sorta di crescendo rossiniano. È un romanzo di oltre quattrocento pagine, eppure si legge, non dirò d'un fiato, ma letteralmente soggiogati dal flusso narrativo messo in piedi dallo scrittore. Un perfetto mix tra il quadro d'epoca, rivisitato come se fosse inedito (e non è certo facile), e il febbrile lirismo psicologico che si addice agli eroi maledetti, che attraversano il mondo con tutto il peso della loro storia personale, e dunque pieno di umori, voci, facce, sentimenti e colpi di scena. Se il vostro cuore non se lo sono mangiato le bestie, per citare Baudelaire, vi sarà davvero difficile resistere a una ricetta del genere.
Milo De Angelis - "Tema dell'addio" (Mondadori, 2005)
La poesia, anche per i cosiddetti lettori forti, finisce spesso in un angolo, nobile ma incongrua ospite delle nostre abitudini, figlie di un mondo vorticoso e fatalmente distratto. Eppure, "la cosa chiamata poesia" sa davvero sprigionare, a volte, la vitalità disperata che sta al fondo di ogni esperienza umana. In questo senso, l'opera di Milo De Angelis (Milano, 1951) si è imposta negli anni come una delle proposte più esemplari della poesia italiana: appartiene al suo bagaglio poetico un costante e sapiente tono sospeso tra detto e non detto, che lascia sempre decantare intorno al verso un alone enigmatico che seduce. Stavolta, nelle poesie di "Tema dell'addio", De Angelis è costretto però a mettere a nudo un sentimento devastante come la perdita di una persona amata, e tutto acquista un peso diverso, più doloroso e dunque più autentico, perchè anche lo stile risente della verità meno addomesticabile di tutte, che rompe ogni consuetudine. Nelle sei sezioni della raccolta, i versi inseguono con lucido struggimento una storia ormai scolpita nella memoria, in un cerchio definito per sempre dal male che ha interrotto una relazione e una ricerca di senso comune. Il tempo a due è finito, e non restano che i singoli frammenti di questa parabola sentimentale. La voce, perchè De Angelis è di quei poeti che possiedono una voce propria, si china sul passato e lo rievoca in una sequenza che sembra dispersiva e che isola invece, poco alla volta, immagini ricorrenti attraverso la frequente iterazione delle formule ("C'è stato. C'è stato.") e di parole che tradiscono una pena ancora bruciante. Una folla abbagliante di dettagli biografici, e qui il poeta tocca il suo punto più scoperto e insieme luminoso, diventano così un testamento scritto nel pieno della vita ancora inconsapevole, una verità sentimentale e fisica che pur amputata, seguita a indicare un senso: l'esserci stati, aver vissuto e amato. Anche se il tono dei versi batte a tratti sulla negatività sconsolata di una vita sottratta per sempre che abbraccia tutto ("Non è più dato. Uno solo è il tempo, una sola / la morte, poche le ossessioni, poche / le notti d'amore, pochi i baci, poche le strade / che portano fuori di noi, poche le poesie"), c'è appunto in questo testardo corteggiamento del ricordo un'indicazione implicita, commovente, di senso superstite che appunto quella terribile mancanza nutre in chi resta. Come appare negli ultimi, bellissimi versi del libro che mi piace riportare per intero: "All'appello totale, all'appello / che conduce al sorriso, che conduce / e fa nostro ogni globulo, / manchi soltanto tu, arciera / bambina, tu puntaspilli, tu che parli / al sangue, tu furtiva / e assetata / tu, filo di voce, / canta il bel raggio / sepolto nelle parole, la scapola, / la pungitura, la fitta, gli antichi / numeri di telefono, / oh tu fra coloro che attendono, / che sono lì lì, / che bevono l'acqua passata, il canto / del cigno, la chiara / sorte di questa domenica." De Angelis ha scritto una volta che "la poesia non ha bisogno di niente". E' verissimo: è sufficiente aver vissuto, o saper sentire quello che ha da dirci.
|